CAPITOLO VENTI

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I Nani lavoravano da ormai un paio d'ore. Lindaen e Bilbo, in piedi in disparte, li osservavano farsi carico di pietre e detriti, mattoni e rocce e portarli alle porte distrutte da Smaug, per cercare di chiudere la voragine. Avevano lasciato alcuni fori ad altezza delle loro teste da usare come feritoie e avevano intenzione di lasciare aperto uno spazio in alto, da usare come bastione per osservare l'esterno.
Lindaen aveva le braccia conserte e fissava Thorin con serietà. Non era nemmeno arrabbiata, ormai era ben oltre quello stato d'animo. Bilbo, accanto a lei, fremeva sul posto per l'agitazione.
Usando un argano, Balin e Nori sollevarono la grande testa di una statua crollata e la depositarono sulla barricata. Bombur e Bofur spostarono un grosso altare di pietra, uno tirando e l'altro spingendo. Dwalin portava più pietra di tutti, sbuffando e imprecando ad ogni passo. Erano tutti al lavoro, mentre Thorin osservava con gli occhi ridotti a fessure la città di Dale attraverso una delle feritoie.
«La fortezza deve essere sicura entro l'alba», ordinò con risolutezza. «Questa Montagna è stata appena ripresa, non permetterò che venga riconquistata».
Kili, che stava trascinando un carretto in legno pieno di massi più piccoli, lasciò andare il mezzo e guardò suo zio con incredulità.
«Quelli di Pontelagolungo non hanno nulla! Sono venuti da noi per bisogno, hanno perso ogni cosa!».
Thorin guardò il proprio nipote con occhi duri.
«Tu non dire a me cos'hanno perso loro», replicò lapidario. «Conosco piuttosto bene le loro avversità».
Lindaen scosse il capo, ma non disse nulla: non aveva molto senso tentare di ragionare con un Nano, figurarsi uno che aveva perso il senno per una pietra.
«Chi è sopravvissuto al fuoco del drago dovrebbe gioire», aggiunse Thorin. «Ha molto per cui essere grato».
Anche tu avevi molto per cui essere grato, allora, pensò Lindaen, eppure hai voluto riprendertelo, il tuo trono.
«Altre pietre!», sbraitò il re. Per enfatizzare il concetto cominciò ad ammucchiarne lui stesso, impacciato dal grosso manto di pelliccia. «Portate altre pietre alla porta!».
Nessuno replicò, nessuno aveva voglia di discutere con lui. Gli volevano troppo bene per opporsi – e comunque, non potevano: lui era per diritto il loro re. Lindaen, però, aveva sentito abbastanza.
«Bilbo, vieni con me».
Si voltò senza aspettarlo, ma sentiva i suoi passi correre per starle dietro. Quando le fu accanto non fece domande e attese di essere in un luogo appartato. Si nascosero in una delle camere al di sotto dell'entrata, dove i Nani non avevano acceso le lanterne e dove non avevano intenzione di andare. Non sarebbero stati disturbati.
Chiusero la porta alle loro spalle e Bilbo rovistò in tasca, poi grattò un fiammifero sul muro e lo accese. I suoi occhietti incuriositi la scrutarono nella semioscurità.
«Ho un piano», annunciò Lindaen senza preamboli «che potrebbe risolvere il nostro problema dell'Arkengemma e quello degli uomini di Dale in un colpo solo».
Bilbo la guardò con tanto d'occhi, i riccioli chiari appiattiti sulla fronte per il freddo e la fatica. Emise un respiro e il suo fiato si condensò.
«Ti ascolto».

Lindaen dormì poco e male e, al mattino, si svegliò con le ossa doloranti. Si alzò in piedi con un lamento. Non c'erano letti, nemmeno nelle vecchie stanze di re Thror, perché il drago aveva bruciato tutto ciò che si poteva bruciare, e così avevano dormito sul pavimento o su delle pietre.
Thorin non aveva chiuso occhio e aveva fatto la guardia alla porta per tutta la notte.
«Buongiorno, orecchie a punta», la salutò Dwalin quando lo raggiunse all'imponente muro che avevano eretto. Le passò un boccale dorato pieno di idromele scaldato sul fuoco. «Dormito bene?».
Lei prese il boccale e bevve un sorso per rinfrancarsi.
«Sì», mentì. «Beviamo in calici d'oro, adesso?».
Lui si strinse nelle spalle.
«Se fosse per me no, neanche per sogno. Questa roba cambia il sapore della birra quando ti arriva in gola. Ma paradossalmente non c'è nulla di meglio dell'oro, al momento».
Riprese il boccale e bevve un altro sorso. Alzò lo sguardo: in alto, sul bastione improvvisato, c'era Thorin Scudodiquercia che scrutava con furore il panorama.
«Che novità ci sono?», domandò Lindaen indicando la barricata.
«Guarda tu stessa». Dwalin ruttò. «Ti piacerà».
Lindaen si avvicinò ad una delle feritoie quadrate lasciate dai Nani nel muro. Erano piuttosto grandi, la testa di Lindaen ci entrava del tutto, ed erano molto profonde: la barriera doveva essere spessa almeno quattro metri, forse di più.
Si inginocchiò per arrivare all'altezza giusta e guardò dall'altra parte. Trattenne un'esclamazione di sorpresa.
Un considerevole quantitativo di Elfi si stava schierando sulle mura e sulle vie di Dale che guardavano alla Montagna. Avevano armature dorate, che riflettevano i raggi del sole creando giochi di luce e rischiando di accecare chi li osservava. Erano armati di tutto punto, con elmi solidi, corazze sottili e resistenti, una lancia nella mano destra, spade alla cintura e archi appesi sulla schiena. I mantelli rossi ondeggiavano docilmente nell'aria fredda del mattino. Erano in assetto di guerra: Lindaen non avrebbe mai creduto che sarebbe successo qualcosa del genere.
«Conosco quelle armature», mormorò incredula a Dwalin. «Re Thranduil è qui».
Il Nano le si avvicinò con apparente tranquillità.
«Sì», confermò, «e sappiamo anche cosa vuole».
Lindaen si ritrasse dalla feritoia e si raddrizzò.
«Vuole le bianche gemme di Lasgaren», disse senza esitare. «I gioielli che Thror gli aveva promesso. Una collana d'argento e gemme bianche, luminose come stelle. Lo so», aggiunse in risposta allo sguardo interrogativo di Dwalin, «conosco la storia di quella disputa».
Dwalin soffiò aria dal naso.
«Visto che sai tutto», brontolò, «saprai anche che Thorin ha rifiutato di dargliele».
Lindaen in effetti lo sapeva, ma non lo disse. Invece commentò: «Come molte altre promesse che ha infranto».
Questo parve mettere a tacere Dwalin, che aggrottò la fronte con aria colpevole, borbottò qualcosa e se ne andò.
Ormai erano tutti svegli a Erebor. Bilbo arrivò in compagnia di Bofur e Bifur, Balin si fece vivo da solo e andò subito da Thorin. Ori e suo fratello Dori camminavano trascinando i piedi, sbadigliando. Fili e Kili si sedettero in silenzio su un grosso mattone di pietra.
I pensieri di Lindaen tornarono all'esercito elfico schierato a Dale. Questo complicava il loro piano, ma lei e Bilbo sarebbero andati fino in fondo, perché era la soluzione migliore – l'unica, in realtà – che avessero trovato.
Guardò d'istinto la parete di roccia come se potesse vederci attraverso. Quelli che Thranduil aveva messo in posizione erano niente in confronto all'esercito che di sicuro si era portato dal suo regno. Aveva di certo tenuto nascosta la reale entità delle proprie forze e conoscendo il suo amore per lo spettacolo doveva avere al suo seguito almeno cinquemila soldati, forse anche di più. Non che ne avesse davvero bisogno: si preparava a combattere contro tredici Nani, uno Hobbit e un Elfo. I numeri erano dalla sua parte.
Lei, comunque, non aveva intenzione di restare lì ancora a lungo. Era la prima fase del loro complotto e doveva metterla in pratica prima che qualcosa andasse storto. Ma come fare? Thorin l'avrebbe fatta rinchiudere, piuttosto che permetterle di andarsene. Credeva di poter svicolare fuori mentre tutti cercavano inutilmente l'Arkengemma, ma con quello spiegamento di forze in vista i Nani non avrebbero mai lasciato i bastioni.
«Ohi!», gridò Balin. «Salite, presto!».
Tutti sobbalzarono e si avvicinarono alla rampa di scale improvvisata che avevano eretto per raggiungere la cima della barricata. Salirono di corsa e si sparpagliarono sul bastione.
Sul momento, Lindaen non vide nulla di diverso: centinaia di Elfi schierati, immobili e pronti, e neve sulla piana. Poi udì il rumore di zoccoli al galoppo e da dietro la curva della strada emerse un uomo a cavallo.
«Bard», mormorò, il battito del cuore accelerato.
Non aveva pensato di rivederlo tanto presto. Nonostante il suo piano, pensava che lo avrebbe rivisto a Dale. Se non fosse stato così freddo, le sue orecchie sarebbero diventate bollenti.
I Nani rumoreggiavano, chiedendosi cosa sarebbe successo, e Bilbo si appoggiò al parapetto con aspettativa. Solo Thorin non fece alcun commento.
Bard arrivò sollevando neve con gli zoccoli del cavallo. Quando giunse appena prima del ponte di pietra rallentò e fermò il suo animale. Lindaen aggrottò la fronte, preoccupata: aveva ancora la stessa aria affaticata del giorno prima.
«Salute, Thorin», disse Bard a gran voce, senza entusiasmo, «figlio di Thrain. Lieti di trovarti vivo oltre ogni speranza».
Tra i Nani si diffuse un senso di tensione. Lindaen si piantò le unghie nei palmi delle mani. Thorin non era in sé: e se avesse deciso di colpire Bard a sassate?
Il sovrano dei Nani non rispose al saluto, senza rispettare la tradizione e mancando di rispetto, e chiese in tono diretto: «Perché venite alle porte del re sotto la Montagna armati per la guerra?».
«Perché il re sotto la Montagna si rinchiude dentro», replicò Bard, «come un rapinatore nel suo covo?».
«Forse perché mi aspetto di essere rapinato», fece Thorin.
Lindaen vide Bard emettere un sospiro di esasperazione.
«Mio signore», disse allora l'uomo del lago, «non siamo venuti per rapinarti, ma per cercare un equo accomodamento. Non vuoi parlare con me?».
Thorin rifletté per qualche secondo, poi rivolse a Bard un cenno carico di sfida, invitandolo ad approcciarsi alla barricata. Lui smontò da cavallo e si avvicinò, mentre Thorin scese la scala per portarsi ad una delle aperture.
Lindaen si sporse per vedere dall'alto e restò presto sola. Alla fine anche lei scese di sotto per poter ascoltare, ma restò in allerta: era la sua occasione per andarsene, non doveva sprecarla.
Non potevano vedere Bard, ma solo il re dei Nani, che si avvicinò all'apertura nel muro con aria altezzosa e algida.
«Ti ascolto».
«A nome del popolo di Pontelagolungo», disse la voce di Bard attraverso la feritoia, «io chiedo che tu onori la tua promessa: una parte del tesoro in modo che possa ricostruirsi una vita».
Thorin fumava di rabbia, ma la sua voce era calma.
«Io non tratterò con alcun uomo, finché un'armata sosta davanti alla mia porta».
«Quell'armata attaccherà questa Montagna se non arriviamo a un accomodamento», insistette Bard con voce profonda.
«Le tue minacce non mi scalfiscono», replicò Thorin facendo spallucce con tranquillità.
Ci fu un momento di pausa carico di attesa. Balin si agitò sul posto e Fili e Kili si scambiarono uno sguardo.
Poi Bard domandò: «Ma la tua coscienza non ti dice che la nostra causa è giusta? Il mio popolo», aggiunse con improvvisa furia nella voce, «ti ha offerto aiuto. E in cambio hai portato sopra di noi solo rovina e morte».
«Forse Pontelagolungo è venuta in nostro aiuto prima della promessa di un ricco premio?», sbottò Thorin.
«Un patto è stato stretto!», esclamò Bard.
«Un patto?», ripeté il Nano, rabbioso e caparbio come Lindaen non lo aveva mai sentito. «Quale scelta avevamo se non barattare il nostro privilegio con coperte e cibo? Riscattare il nostro futuro in cambio della nostra libertà?».
Lindaen capì che quello era il momento: Thorin era distratto, i Nani non prestavano attenzione a lei, non avrebbe avuto una seconda opportunità.
Arretrò di pochi passi, afferrò un lungo rotolo di corda dal pavimento e poi cominciò a spostarsi verso la scala. I Nani, così concentrati e assorti nell'ascoltare quello scambio di battute, non la notarono. Lindaen non era fiera della sua fuga in silenzio, i suoi compagni sarebbero stati delusi e infuriati: si sarebbero sentiti traditi. Tuttavia ci sarebbe stato tempo per spiegare una volta conclusa quella storia.
Mise un piede sul primo gradino, attenta a non fare rumore con la suola dello stivale, e risalì con accortezza silenziosa fino al bastione.
«Tu lo chiami un equo scambio?», stava dicendo Thorin. La sua voce era come un sibilo, il suo tono derisorio. «Dimmi, Bard l'Ammazzadrago: perché dovrei onorare tali termini?».
In fretta, Lindaen legò un'estremità della fune ad un grosso anello in ferro di un braciere e tirò, per saggiarne la resistenza. Avrebbe retto il suo peso.
«Perché tu ci hai dato la tua parola», replicò Bard tristemente. «Questo non significa niente?».
Thorin, allora, inaspettatamente riprese a urlare per dare spessore alla propria inviperita minaccia: «Vattene, prima che volino le frecce!».
Sporgendosi, Lindaen vide Bard sferrare un pugno al muro per sfogare la propria rabbia e poi muovere qualche passo verso il cavallo, le spalle rigide per la frustrazione.
Era il momento, non poteva aspettare ancora.
«Bard!», urlò.
Lui si volse di scatto e guardò in su, sgranando gli occhi per la sorpresa. Lindaen non aveva tempo da perdere, perché come aveva sentito lui dovevano averla sentita anche i Nani.
Gettò la corda oltre il parapetto, poi lo scavalcò armeggiando con la gonna. Strinse la fune e cominciò a scendere. Sentì un intenso scalpiccio sopra di sé, i Nani che si affacciavano sul balcone, ma lei continuò a calarsi giù.
«Che stai facendo?», udì la voce di Kili.
«Lindaen!», esclamò Bofur.
«Fermatela!», ruggì Thorin. «Tradimento!».
Fu Balin a tacitare il loro tumulto: «Lasciatela andare, è suo diritto proseguire per la sua strada».
Quando finalmente i piedi di Lindaen toccarono terra, per un attimo provò qualcosa di simile al pentimento. Aveva lasciato i Nani. Aveva lasciato Bilbo. Thorin la considerava una traditrice. Eppure ormai era fatta: lo faceva per il loro bene.
Bard la raggiunse e la condusse rapidamente al cavallo.
«Andiamo, presto», disse concitato.
Lei non aprì bocca, non aveva tempo per spiegare alcunché: era meglio allontanarsi in fretta se volevano evitare che Thorin cambiasse idea e li usasse come bersaglio.
Montarono a cavallo e Lindaen si tenne a Bard per non cadere, poi partirono alla volta di Dale. Il naso premuto contro il cappotto dell'uomo del lago, si rese conto che non odorava più di pesce, ma di cenere e legno bruciato.
Percorrere la distanza che li separava da Dale fu molto più veloce a cavallo. Lindaen vide avvicinarsi le mura e gli edifici in pietra e con essi le abbaglianti armature di decine di Elfi. Percorsero la strada rialzata sopra il fiume al galoppo.
Bard fece rallentare la bestia quando ebbero raggiunto le porte della città. Lei fece capolino da dietro la sua spalla e vide ad attenderli re Thranduil in persona, maestoso e titanico nella sua armatura migliore, di metallo argentato e ricca di decori. Un pesante mantello di velluto gli avvolgeva le spalle. Cavalcava un alto cervo bianco, le cui corna erano lunghe e contorte come i rami di un albero. Sui lunghi capelli biondi indossava una coroncina d'argento e pietre di luna.
«Non ci darà nulla», sbottò Bard arrestandosi.
Gli occhi freddi del re degli Elfi non furono sorpresi.
«Che peccato», commentò senza sorridere. «Comunque ci hai provato».
«Io non capisco», rispose Bard facendo voltare il cavallo per guardare la Montagna. «Perché? Perché rischiare una guerra?».
«È infruttuoso ragionare con loro», rispose Thranduil. «Comprendono solo una cosa: la violenza. Ah, hai raccolto un uccellino smarrito, vedo».
Lindaen si voltò e chinò il capo in direzione del re.
«Mio signore Thranduil», salutò. «Ti chiedo scusa per il furto dei barili. Capirai che non avevo molta scelta».
Il viso bianco e brillante di Thranduil si accese di una luce divertita e lui rispose: «E tu capirai che devo proprio entrare nella città dei Nani, con o senza il loro consenso».
Un rumore funesto proveniente da Erebor li fece voltare tutti e tre: i Nani scagliavano un esplosivo in bottiglia contro l'enorme statua di Thrain a guardia dell'entrata. La colpirono più volte alla base e quella cedette, schiantandosi pesantemente sul ponte davanti alla barricata. Tutto crollò e l'acqua del torrente ormai deviato cominciò ad allagare quanta più terra poteva. Il ponte era ridotto in macerie.
Ora nessuno poteva avvicinarsi all'entrata di Erebor.
«Visto? Comprendono solo questo». Thranduil scosse il capo. «Attacchiamo all'alba». Fece voltare il proprio cervo per ritornare a Dale e aggiunse in tono provocatorio: «Siete dei nostri?».
Lindaen e Bard guardarono un'ultima volta Erebor, delusi, e poi lo seguirono, portando il cavallo al passo. Gli Elfi che facevano la guardia alla porta nelle mura si spostarono per lasciarli passare e poi richiusero l'accesso.
Dentro, Lindaen trovò confermati i suoi sospetti: gli Elfi non erano centinaia, ma migliaia. Sparsi per le vie della città, stavano distribuendo cibo e coperte, montavano tende e marciavano per le strade in gruppi compatti e vigili.
Smontarono e lasciarono il cavallo nelle mani di alcuni ragazzini. Non persero tempo: Bard si diresse a larghi passi verso un grosso edificio squadrato e Lindaen lo seguì.
«Sei scappata», constatò Bard mentre camminavano rapidi. «Perché?».
«Thorin non è in sé», rispose lei. «Il tesoro lo sta corrompendo. Se Thranduil lo attaccasse, piuttosto che cedere un solo pezzo d'oro si farebbe uccidere».
Entrarono all'interno. Era chiaramente un'antica armeria, grande e soprattutto integra, forse uno degli edifici meglio conservati di Dale: tutte le pareti erano in piedi. Bard e Lindaen si guardarono intorno per controllare ciò che avevano a disposizione.
«Non è molto», commentò lei.
«No», ammise Bard, «ma re Thranduil ci ha portato altre armi. Nessuno rimarrà senza difese».
C'erano almeno una quarantina di spade tutte uguali, probabilmente destinate alla guardia di Dale in un lontano passato. Lindaen ne prese una e la estrasse dalla rastrelliera a cui era appesa: era coperta da parecchie ragnatele e, al di sotto, il filo era smussato, ma era una buona arma, ben bilanciata. Sarebbe bastato affilarla e avrebbe fatto il suo dovere.
«Qui abbiamo cotte di maglia», disse Bard da qualche parte oltre una porta, «almeno una ventina. Stivali rinforzati... Elmi...».
Lindaen andò ad esaminare le lance: non erano molte, ce n'erano appena sei, ma c'erano molte frecce ancora intatte e gli archi, pur non essendo sufficienti, potevano essere affiancati alle balestre presenti in gran numero.
Radunarono gli uomini e cominciarono a distribuire elmi e scudi di legno, protezioni per il corpo e armi da taglio. Molti dei superstiti avevano salvato coltelli da cucina e arpioni dall'incendio: sarebbero stati meglio di nulla.
Pensosa, Lindaen guardò gli uomini che si aiutavano l'un l'altro a indossare le cotte di maglia. Erano più quelli che le mettevano al contrario che quelli che sapevano cosa farci. Non avrebbero fatto molta strada, se davvero avessero dovuto combattere contro qualcosa di più aggressivo di un muro.
Avvertì la presenza di Bard accanto a sé prima ancora di vederlo. Nonostante la preoccupazione irradiava ancora quella strana calma, Lindaen poteva quasi percepirne l'odore.
«Che ne pensi?», lo udì chiedere.
«Sei tu la loro guida, non io», replicò lei. «Dimmelo tu».
«Non sono un esercito». Bard sospirò. «Ma non siamo soli. Gli Elfi di Thranduil ci daranno le armi che ci mancano».
Voltandosi verso di lui, Lindaen vide che aveva indossato a sua volta una cotta protettiva a maglie fitte e sottili al di sotto di un cappotto blu, molto più spesso di quello vecchio. Si stava preparando gettarsi contro la parete impenetrabile della Montagna: di colpo le parve una mossa poco arguta, ma era stato Thranduil ad avere l'idea e nessuno avrebbe osato contestarlo.
Uscirono. Mossero qualche passo tra la gente. Chi era già armato era stato diviso in piccoli gruppi dagli Elfi, che mostravano loro come muoversi con il peso delle loro armi e armature. Ovunque c'erano capannelli di soldati elfici che marciavano, si allenavano, discutevano.
Dove non c'erano i soldati, c'erano gli esuli. Percorsero varie strade, passarono tra i vicoli, osservarono le piazze. I sopravvissuti salutavano Bard con cenni di saluto e devozione, tutti sembravano speranzosi, ma erano pochi.
Fermò Bard all'ombra di uno stretto vicolo trattenendolo per un braccio. Non voleva che la gente la sentisse.
«Quanti si sono salvati, Bard?».
Lui assunse un'espressione carica di dolore. La sua voce, quando rispose, era torva e rotta, come se avesse un groppo alla gola.
«Non abbastanza. Saremo quattrocento persone al massimo. Alcuni erano feriti e sono morti durante la scalata, abbiamo sepolto i corpi qui a Dale. Altri non sono sopravvissuti molto a lungo dopo aver raggiunto la sponda. Ci sono tombe anche vicino al lago».
Si fissarono per un momento, senza sapere cosa dire. Cosa si poteva aggiungere, ad un simile computo di morte?
Ripresero il loro giro. Lindaen cominciò a venire notata e molti riconobbero la fanciulla elfica che faceva parte della compagnia di Thorin. Per un attimo temette che l'avrebbero cacciata: come osava, lei, camminare tra loro dopo aver contribuito ad aizzare il drago?
Invece scoprì che non era quello, ciò che ricordavano di lei. Si ricordavano di averla vista portare in salvo Tilda, Sigrid e Bain, di aver affrontato con Tauriel la furia di Smaug proprio come loro. Molti, mentre lei passava, le sfioravano le mani e mormoravano parole di benvenuto. Sentì il suo cuore riempirsi di calore.
«Che ne è del governatore?», si informò Lindaen mentre accettava l'ennesima carezza sulla spalla.
«Morto», disse Bard, «oppure fuggito molto lontano, con tutto l'oro delle nostre tasse. Abbiamo recuperato Alfrid, che ha quasi rischiato il linciaggio, ma se cominciamo anche a scannarci tra noi...».
Lasciò la frase in sospeso, perché una donna nella folla aveva lanciato un grido di sorpresa: avvolta nel suo mantello verde che la rendeva molto simile a un fagotto, Ilsa la lavandaia si avvicinò loro quasi saltellando.
«Signora!», esclamò. «Signora, sei viva!».
Lindaen sgranò gli occhi e senza riflettere troppo le gettò le braccia al collo.
«Ilsa!», esclamò. «Oh, Ilsa, stai bene...».
La donna strinse la presa su di lei con ilarità e, quando si staccarono, il suo sorriso era così largo da creare buffe fossette sulle sue guance rotonde.
«Il mio Percy mi ha aiutata a scappare», disse tutta contenta. «Non è così, Percy?».
Il marito sbucò alle spalle della donna con un sorriso gentile. Lindaen, alla vista del doganiere, gli sorrise. Si sentiva strana in loro presenza, singolarmente commossa.
«State entrambi bene...», mormorò con la voce rotta. Sentiva lo sguardo di Bard su di sé ed era determinata a non mostrare alcuna lacrima. «Sono così felice di vedervi!».
«Ti ricordi di noi», cinguettò Ilsa, tutta emozionata.
«Certo che si ricorda, mia cara, ci ha visti soltanto due giorni fa», disse dolcemente Percy.
Lei gli diede un colpetto sulla spalla.
«Intendo dire che è bello che lei sia felice perché siamo vivi, marito. Sei così sciocco, a volte!».
Percy lanciò a Lindaen un'occhiata divertita e portò via sua moglie, che continuò a blaterare con voce acuta e soddisfatta finché non furono spariti alla vista.
Poi un'altra voce di donna, più mascolina, squarciò l'aria: «Ragazza elfica! Allora non sei morta».
Lindaen si voltò e vide una donna con i capelli rosso acceso e abiti dai colori sgargianti, il viso rovinato dalle intemperie e occhi intelligenti.
«Marta!», la salutò correndo da lei.
La donna del mercato allargò le braccia con fare materno e la accolse con una risata. Lindaen dovette trattenere un singhiozzo. Non conosceva molto quella donna, né sapeva nulla di Ilsa e Percy: aveva scambiato con loro appena poche parole, eppure vederli lì, vivi e incolumi... Lindaen non era abituata a temere per le vite degli altri, Nani ed Elfi e stregoni sono forti e longevi, ma loro...
Maledetti gli uomini e la loro fragile vita.
«Su, su», disse Marta a voce bassa. «Fatti un bel pianto. Il tuo uomo non ti può vedere, se stai abbracciata a me».
Lei si sciolse di scatto dal suo abbraccio e tirò su col naso.
«Non è il mio uomo», disse in fretta.
«Se lo dici tu». Marta si fece una grassa risata e si allontanò.
Lindaen, punta sul vivo, si passò in fretta una mano sulle guance e riprese il controllo di sé. Non era quello il momento per farsi distrarre, c'era una battaglia che incombeva su di loro.
«Sei rimasta in città due giorni e ti sei fatta più amici di quanti ne abbia conosciuti io in tutta la vita», ironizzò Bard riprendendo a camminare.
Lindaen abbozzò un sorriso timido, ma a quel punto c'era ancora qualcun altro che voleva vedere.
«Bard», domandò, «dove sono i tuoi figli?».
Lui la condusse su per un vicolo in salita. Sbucarono in una piazzetta più piccola, come un fazzoletto di ciottoli tra le case. Lì, Tilda stava giocando con alcune altre bambine mentre Sigrid e Bain facevano loro la guardia, imbronciati.
Fu Bain a vederla per primo.
«Lindaen?», borbottò, gli occhi sgranati.
Tilda e Sigrid si voltarono di scatto.
«Lindaen!», urlarono all'unisono.
«Sì, sono tornata!».
Si inginocchiò e si lasciò travolgere dai figli di Bard, che le si buttarono tra le braccia con tutto il loro peso e la fecero scivolare con il sedere per terra. Le amiche di Tilda li guardavano con perplessità. Lindaen li baciò tutti e tre sulla testa più e più volte.
«Fatemi alzare, su», li esortò ridendo dopo qualche momento. Sentì improvvisamente freddo quando si staccarono da lei. Si chiese perché gli Elfi non facessero molti più bambini, erano qualcosa di meraviglioso.
«Quando sei arrivata?», si informò Bain.
«Proprio ora», rispose rimettendosi in piedi.
«Rimarrai, però», fece Tilda. «Vero?».
«Questa volta sì».
Sigrid ondeggiò sul posto, in imbarazzo, prima di chiedere: «Come sta il, ehm, il Nano ferito? Quello bruno e forte e...». Tacque, avvampando.
Lindaen evitò di dirle che Kili aveva ben altri amori per la testa e le sorrise.
«Sta bene», disse evasiva.
Il padre, a quell'argomento, diede segni di intemperanza e Lindaen pensò fosse il caso di allontanarsi. Salutarono e proseguirono sulla loro strada.
Per qualche minuto nessuno dei due parlò. Lindaen teneva lo sguardo basso, osservando la punta dei suoi stivali emergere da oltre l'orlo dell'abito ad ogni passo. Ora che li aveva visti si sentiva stranamente allegra, molto più di prima.
Bard, al suo fianco, scambiava occhiate con i passanti, dispensava strette di mano e parole incoraggianti, ma con poco entusiasmo.
Il sole era ormai in alto, doveva essere quasi mezzogiorno. Lindaen aveva fame: il cibo consumato con i Nani proveniva dalle dispense degli uomini e non sostentava come quello degli Elfi. Bard le offrì acqua, birra e un panino elfico. Con quel pasto nello stomaco si sentì subito meglio.
Stavano ritornando verso le mura a nord, da cui erano entrati in città. Passarono in quello che un tempo era stato un parco alberato ed ora era solo una piazza colma di sterpaglie. Lindaen si soffermò a guardare il vecchio palazzo del re di Dale, diroccato e poco distante. Quella che un tempo era una delle sue sale e che ora era interamente all'aperto era occupata da una grande tenda in un tenue color ocra, sulla cui sommità svettava il vessillo di re Thranduil. Delle altre stanze della reggia restavano solo porzioni di pareti, colonne e poco altro.
«Bard», disse Lindaen guardando il palazzo, cercando di immaginarsi l'edificio quando era ancora in piedi.
«Sì?».
«Cosa succederà dopo?».
Lui tornò ad avvicinarsi, la fronte aggrottata.
«Dopo?».
«Dopo che Thranduil avrà ottenuto le sue gemme e la tua gente la sua parte del tesoro», spiegò lei. «Che farete?».
Bard emise un sospiro, riflettendo. Seguì lo sguardo di lei fino a fissarsi sul palazzo che era stato dei suoi antenati. Lì Girion aveva governato, stretto alleanze e vissuto con la sua famiglia. Ora non rimaneva che un'ombra di quella vita.
«Rimarremo, credo», disse Bard. «Con ciò che ci deve Thorin potremmo rimettere in sesto la città, riparare i tetti e ricostruire le mura. Potremmo trattare con re Thranduil e ricominciare a commerciare con il Reame Boscoso».
Bard le mise una mano sulla spalla e la fece voltare, indicandole il dedalo di vie che dal palazzo si diramavano in città. Lindaen osservò gli Elfi che vi camminavano in formazioni compatte.
«Un tempo questa città era la più popolosa del nord». La voce di Bard sembrava lontana, come trasportata da un altro tempo. «Quelle strade erano un fiorente mercato. La gente che viveva qui stava bene. Certo, avevano le loro preoccupazioni quotidiane, ma avevano sempre un pasto caldo in tavola».
Lindaen percepiva la mano di lui sulle spalle in modo stranamente piacevole, le stringeva la pelle salda e sicura, ma in quel momento era più interessata alle sue parole.
«Dale era conosciuta in tutta la Terra di Mezzo», continuò Bard. «Venivano dai Colli Ferrosi, dalle Terre Selvagge, perfino da Gondor per commerciare con la gente di Girion. Era un grande centro di produzione di giocattoli, li esportavamo ovunque. Quindi sì», concluse, «credo che rimarremo per ricostruire».
All'improvviso parve rendersi conto di quanto le fosse vicino, di come la sua bocca fosse a pochi centimetri dalle sue orecchie a punta, e ritirò la mano in modo brusco, schiarendosi la gola. Per non incorrere in ulteriori contatti fisici infilò con forza le mani nelle tasche del cappotto. Lindaen finse di non notare il suo repentino cambio d'umore.
«E tu?», chiese invece. «I sopravvissuti, mi pare di capire, guardano a te. Reclamerai il titolo di re?».
Lui si strinse nelle spalle e assunse un'aria imbronciata. In quel momento doveva assomigliare molto a Johanna.
«Non lo so. Non penso che dovrei».
«Non ti rendi conto che lo sei già?».
Bard la guardò con la coda dell'occhio, il mento sollevato. Non rispose.
Lei sorrise ed emise un sospiro di rassegnazione.
«Come vuoi, Bard l'Ammazzadrago. Oh, scusa», aggiunse con tono ironico, «ti disturba questo nome? Perché è così che ti chiamano ora». Si spostò per averlo di fronte e indicò con una mano il simbolo di Johanna sul proprio pettorale. «Sei già il loro re», disse decisa. «Che ti piaccia o no, non c'è qualcun altro. Non penso che la gente accoglierebbe Alfrid come signore di Dale, ma correggimi se mi sbaglio».
Bard sbuffò.
«Li sto solo coordinando finché non avremo deciso cosa fare. Questo non fa di me un re!».
«Il tuo sangue», disse Lindaen, «non è sangue comune. È sangue reale. La famiglia di Girion è imparentata con la stirpe dei Dunedain e il vostro lignaggio risale ai Tempi Remoti. Questo sì che fa di te un re. Comunque», concluse, «immagino non siano affari miei».
Proseguirono, Lindaen stanca dell'argomento e Bard desideroso di non parlarne mai più. Passarono accanto alla tenda di Thranduil: il signore degli Elfi sedeva su un trono di legno finemente intagliato, la propria spada appoggiata al suo fianco, e sorseggiava da un calice; davanti a lui un grande tavolo e altre sedie, e fuori due Elfi di guardia. Se anche li sentì passare, non si volse verso di loro.
Superando il palazzo sbucarono in quella che doveva essere la piazza principale di Dale: al centro c'era una fontana di pietra bianca, vuota e con le vasche piene di neve. Tutto intorno a loro gli Elfi allenavano gli uomini, rendendo così la piazza molto simile al campo di allenamento di una caserma.
Un paio di ragazzini stavano portando delle manciate di legna verso un punto di raccolta, in modo da poter alimentare sempre i fuochi, e quando passarono loro accanto guardarono Bard e arrossirono prima di proseguire. Una bambina, da lontano, continuava a indicarli sotto l'occhio severo della madre e alla fine si avvicinò, toccò Lindaen sulla mano e, una volta appurato che fosse fatta di carne come lei, ridacchiò e fuggì di corsa.
Fu allora che sentirono un rumoroso tramestio di zoccoli in avvicinamento: un cavallo grigio lanciato al galoppo piombò nella piazza, rischiando di travolgere un paio di Elfi di passaggio.
Ne smontò un burbero, innervosito uomo alto e asciutto, dai lunghi capelli grigi e un cappello a punta. Portava in mano un alto bastone con una pietra in cima. Si guardava intorno esterrefatto, come se non potesse credere che tutti quei soldati fossero davvero lì.
Lindaen fu tentata di correre da Gandalf e riempirlo di insulti per averla lasciata sola ad affrontare tutta quella vicenda, ma si fermò quando vide arrivare Alfrid di corsa; anche Bard fece per andare incontro al nuovo venuto, ma lei lo trattenne. Una sfida tra quei due sarebbe stato un bello spettacolo, utile a rinfrancare lo spirito.
«No, no, no!». Alfrid, tutto nero come un uccellaccio del malaugurio, i capelli unti e il viso pallido, avanzò rabbioso. «Hey, tu! Cappello a punta!».
Gandalf, finalmente, si girò e osservò Alfrid con cipiglio nervoso, sbuffando dal naso.
«Sì, proprio tu. Non vogliamo mendicanti, barboni né vagabondi da queste parti», fece Alfrid. «Abbiamo già problemi senza quelli come te».
Molto paterno con gli Hobbit, ma per nulla incline alla pazienza quando si trattava delle altre razze, Gandalf si avvicinò a passi larghi ad Alfrid, lo agguantò per il colletto e lo strattonò a dovere.
«Chi comanda, qui?», abbaiò.
«Chi lo chiede?», tuonò Bard avvicinandosi di corsa, strappando Alfrid alle grinfie dello stregone e spingendolo via.
Gandalf guardò Bard a lungo, squadrandolo dall'alto in basso, gli occhi azzurri e vivaci che sprigionavano irritazione e malumore.
Lindaen si avvicinò a passi lenti, le labbra increspate in un sorriso a metà tra l'ironico e l'offeso. Quel vecchio mago tornava a farsi vivo quando ormai Thorin era completamente perduto nella sua follia.
«Questo, Bard», disse quando li raggiunse, «è Gandalf il Grigio. Forse lo conosci con altri nomi. È un amico», aggiunse ammiccando, «ma è estremamente antipatico».
Gandalf, ancora imbronciato, le rivolse un cenno scorbutico agitandole un dito sotto al naso.
«Non prendermi in giro», la ammonì. «Cosa diamine sta succedendo in questo posto? Cosa fanno qui tutti questi Elfi? E tu!». Parve rendersi conto di colpo che Lindaen non era dove avrebbe dovuto essere. «Tu non sei con i Nani», constatò. «Che cosa ti avevo detto? Non ti avevo forse chiesto di portarli a Erebor?».
«Infatti sono tutti lì», rispose lei, piccata. Non le piaceva che Gandalf la trattasse in quel modo davanti a Bard, non era certo una bambina indisciplinata. «Non ne ho perso neanche uno, contento? E non farmi la predica, non sono certo io quella che ha tagliato la corda!».
Inalberandosi, Gandalf brontolò e borbottò come un bollitore sul fuoco.
«Si dà il caso che io non abbia tagliato la corda», ruminò indispettito. «Anzi, mi sono dato da fare e arrivo con notizie molto, molto serie! Mentre tu e quei Nani ve ne stavate qui belli comodi...».
«Comodi?». Lindaen lo interruppe. Spostò Bard con malagrazia per avvicinarsi allo stregone e si alzò in punta di piedi per cercare di farsi valere meglio. «Sì, ma certo, così comodi che un drago ci ha quasi dato fuoco!».
«Questo non significa nulla!».
«Significa che tu non dovevi piantarci in asso!».
«Scusatemi!». La voce di Bard li interruppe.
«Che c'è?», sbottarono Gandalf e Lindaen fulminandolo con un'occhiataccia.
Lui li guardò uno per uno, poi disse: «Non so chi tu sia, Gandalf il Grigio, né so cosa sia successo tra voi per farvi gridare così tanto, ma non ha senso continuare a discutere. Siete entrambi qui, adesso. Quali sono queste notizie serie? E in che modo ci riguardano?».
Gandalf, l'aria funesta, replicò: «Dobbiamo parlarne anche con re Thranduil. È un bel disastro».
«Da questa parte», rispose Bard.
Fece strada con un gesto e Gandalf, dopo aver lanciato un'ultima occhiata di sbieco a Lindaen, lo seguì.
«"Non dovevi essere con i Nani, Lindaen?"», lo scimmiottò lei con voce acuta prima di raggiungerli.
Insieme raggiunsero la tenda dove Thranduil, mollemente adagiato sul suo trono, si faceva versare altro vino da un inserviente. Non indossava l'armatura, ma un abito di pregio e la sua corona d'argento. Quando li vide – e soprattutto quando notò Gandalf – congedò il suo servitore e si alzò in piedi con un movimento morbido, aggraziato.
Aveva un sorriso divertito e affilato.
«Mithrandir», lo accolse. «Ma guarda un po' che sorpresa. Stanco della vita tranquilla? O vuoi solo assistere alla disfatta dei tuoi amici Nani?».
Gandalf scostò bruscamente un lembo di stoffa della tenda ed entrò. Bard e Lindaen lo seguirono. Qualcuno aveva spazzato via la neve da sotto il padiglione.
«Accantonate i vostri irrisori rancori contro i Nani», disse lo stregone. «La guerra è in arrivo! Le fogne di Dol Guldur sono state svuotate!».
Bard, senza sapere se poteva credere a parole così nefaste, guardò Thranduil; il re degli Elfi ricambiò con un'espressione esasperata e levò gli occhi al cielo.
Lindaen, dal canto suo, ricordava bene le parole di Radagast e di Beorn riguardo quella fortezza malefica. Entrambi avevano espresso i loro timori riguardo lo stregone umano che vi aveva preso dimora. Tuttavia tacque, perché l'idea che un negromante avesse interesse per dei poveracci sopravvissuti a stento al fuoco del drago le sembrava improbabile.
Gandalf, incredulo nel vedere che nessuno sembrava capire fino in fondo la gravità delle sue parole, agitò le braccia con fare minaccioso.
«Correte tutti un pericolo mortale!».
Per Bard doveva essere una situazione difficile, rifletté Lindaen osservandolo mentre si guardava intorno in cerca di una spiegazione. Sì, era di stirpe reale, ma aveva vissuto tutta la sua vita da chiattaiolo, mentre intorno a lui c'erano persone che sapevano benissimo come affrontare un consiglio di guerra. Doveva essere complicato per lui. In futuro, se davvero voleva diventare re, avrebbe avuto bisogno di una mano.
«Ma di che stai parlando?», chiese infine l'uomo.
Gandalf storse la bocca, ma non fece in tempo a rispondere che Thranduil si alzò in piedi con fare sornione.
«Vedo che non sai nulla degli stregoni», commentò. Si avvicinò al tavolo, riempì altri due calici e li passò a Bard e Lindaen, che tuttavia non bevvero. «Sono come tuoni d'inverno con un vento tempestoso: rimbombano da distante ingigantendo l'allarme».
«Questo non è affatto vero», replicò Lindaen senza scomporsi. «Gli stregoni non compaiono certo per ricordare a tutti che bella giornata sia. Arrivano nei momenti bui per portare aiuto. Pensare che essi stessi causino tali oscurità è ridicolo. Sarebbe un errore, sire Thranduil, accusarli di portare sventura».
«Non di meno», rispose il re levando il calice verso di lei, «a volte una tempesta è solo una tempesta».
Gandalf scosse violentemente il capo.
«Non questa volta», asserì. Thranduil distolse lo sguardo, stanco di quel discorso, ma Gandalf non smise di parlare: «Armate di Orchi sono in movimento, li ho visti con i miei occhi! Sono stato a Dol Guldur e ho visto le fornaci accese e le truppe uscire. Questi sono combattenti, sono preparati alla guerra! Il nostro nemico ha raccolto tutta la sua forza!».
Lindaen drizzò le spalle. "Il nostro nemico" poteva significare solo una persona. Armate di Orchi diretti alla Montagna? Guidate da... lui?
Era impossibile. Sauron era sconfitto da secoli. Eppure quale altro nemico avrebbe potuto riportare l'ordine tra gli Orchi, di solito così refrattari a organizzarsi?
«Perché mostra le sue carte ora?», sbuffò Thranduil, ancora scettico.
«Perché lo abbiamo obbligato», rispose Gandalf concitato, «quando la compagnia di Thorin Scudodiquercia è partita per reclamare la loro terra natia».
Bard guardò Lindaen in cerca di aiuto, ma lei non aveva tempo di prestargli attenzione.
«Cosa significa?», chiese lei avvicinandosi a Gandalf.
«I Nani non sarebbero mai dovuti arrivare a Erebor», le rispose lui con maggiore pacatezza. «Azog il Profanatore fu mandato a ucciderli. Tu c'eri, ricordi quando ci piombò addosso con i suoi Mannari e i suoi guerrieri spietati. Il suo padrone», spiegò rivolto a tutti i presenti, «vuole il controllo della Montagna».
«E perché?», chiese Thranduil. «Per ciò che contiene?».
«Non solo per il tesoro all'interno, ma per dove è situata, per la sua posizione strategica», disse lo stregone. «Quella è la porta per reclamare le terre di Angmar, al nord».
Con un sospiro sgomento, Lindaen represse un brivido e incrociò le braccia al petto, provando improvvisamente freddo. Tutti gli Elfi conoscevano il nome di Angmar, un antico e infausto regno governato da uno dei servi dell'Oscuro Signore. Un dominio che si era espanso a discapito di migliaia e migliaia di vite, a discapito della libertà di tanti uomini ed Elfi del nord. Solo una sanguinosa guerra aveva posto fine alla sua esistenza, ma era accaduto secoli prima.
«Se quel regno malvagio dovesse risorgere...». Gandalf non riuscì a finire la frase e fece un gesto di diniego con la mano. «Gran Burrone, Lorien, la Contea, perfino Gondor stessa cadrebbero».
Scese un momento di silenzio. Gandalf era di nuovo arrabbiato, non con loro bensì con le ingiustizie del mondo, e stringeva lo schienale di una sedia con le dita nodose.
Thranduil, scettico e ironico, chiese: «Queste armate di cui parli, Mithrandir, dove sono?».
«Vicine», rispose lui. «Molto vicine».
Lindaen guardò fuori, il cuore pesante, stretto in una morsa di incertezza e paura. Guardò il cielo: aveva ripreso a nevicare.

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