CAPITOLO DICIANNOVE

224 12 4
                                    

Breve premessa: in questo capitolo approfondisco qualcosa di un po' spinoso per me, ho già lasciato capire qualcosa nel precedente ma qui si entra più nello specifico, solo che è qualcosa che di solito nei miei racconti cerco di evitare perché mi rendo conto che non sono brava a riguardo. Fatemi sapere eventualmente se ho esagerato sotto alcuni aspetti (e quali) e se invece avrei potuto calcare di più la mano su altri. Grazie ❤

____________________________________________________

Trovò i Nani intenti a mettere in acqua la barca di Bard. Si affrettò verso di loro, passando accanto a Tauriel e a Kili presi da una conversazione che a giudicare dalle loro facce non aveva nulla di allegro. Lindaen si portò immediatamente accanto a Fili e spinse a sua volta l'imbarcazione.
«Dunque?», si informò Oin. «Stanno bene?».
«Sono tutti vivi», annunciò.
La voce di Fili si fece roca per lo sforzo di spingere quando chiamò il fratello: «Kili, forza! Ce ne andiamo».
Lindaen lanciò uno sguardo nella sua direzione. Tauriel aveva lo sguardo basso e dispiaciuto, Kili la tratteneva tenendole la mano. Si chiese se Fili fosse consapevole e se avrebbe approvato. Poi, Tauriel si irrigidì.
Alle sue spalle c'era Legolas.
Non voleva ascoltare quella conversazione, perché in un modo o nell'altro qualcuno ne sarebbe uscito scontento, così con un ultimo spintone lei e Bofur spinsero la barca nell'acqua del lago. Avrebbero dovuto attraversarlo completamente per raggiungere il sentiero che portava alla vecchia Dale e da lì a Erebor.
Salirono a bordo. Kili li raggiunse mentre prendevano in mano i remi e cominciavano a darsi da fare. Ci sarebbe voluta tutta la loro energia per salire fino alla Montagna Solitaria. Lindaen non era stanca. Gli Elfi sono resistenti, i Nani cocciuti. Nessuno di loro si sarebbe fermato a riposare prima di aver raggiunto la meta.
Gettò uno sguardo alla riva: distingueva ancora i volti. La gente si stava radunando, da qualche parte la voce acuta e stridula di Alfrid si lamentava di qualcosa.
«Ci vorrà almeno mezza giornata di cammino», disse Bofur. «Kili, ce la fai? Stai bene?».
«Sì, è passata».
Oin sospirò al ricordo di Tauriel che usava l'Athelas.
«Che grande emozione, è stata».
«Parla per te», borbottò Fili. «Io stavo per farmela addosso per la paura».
Passarono accanto alla città bruciata di Esgaroth in silenzio. I loro cuori si fecero pesanti. Era incredibile pensare che solo ventiquattro ore prima quel luogo era stato brulicante di vita ed ora era completamente abbandonato. La mattina precedente il mercato era pieno di gente. Ora non c'erano voci né suoni. Pontelagolungo sembrava perfino più piccola.
Poi Kili mormorò: «Guardate».
Smisero di remare e osservarono l'acqua.
Smaug era lì, ora innocuo, enorme, le fauci semichiuse. Potevano vedere solo il muso, che appariva piatto sotto il pelo dell'acqua, senza tempo in una strana fissità, ma sapevano che il suo corpo era disteso sul fondo del Lago Lungo. Era sotto di loro, sprofondato di alcuni metri e visibile solo in parte grazie alla luce del sole, ma era ugualmente spaventoso. Sembrava un insetto intrappolato nell'ambra.
«Andiamo avanti, non fermatevi», disse Lindaen quasi aggrappandosi al proprio remo. I Nani obbedirono, desiderosi quanto lei di lasciarsi alle spalle quel corpo in decadenza.
Quando finalmente giunsero sulla riva opposta, Lindaen prese un bel respiro per prepararsi a partire. Il sentiero davanti a loro cominciava immediatamente a salire tra le rocce, come se le pendici della Montagna piombassero fino al lago. Mentre le sue propaggini erano erbose, guardando in alto si vedeva la roccia farsi sempre più brulla e morta. C'erano solo massi e altri massi a dare un senso a quel paesaggio.
«Ci conviene salire subito», disse Oin, «prima che sia mezzogiorno».
«Non abbiamo del cibo con noi, vero?», chiese Bofur in tono sconsolato cominciando a muovere i primi passi in salita.
«Nulla», confermò Lindaen seguendolo. «Speriamo che Thorin e gli altri abbiano avanzato qualche provvista».
A nessuno venne in mente di replicare che forse Smaug aveva dato fuoco a tutto e tutti prima di scagliarsi su di loro, nessuno voleva prendere in considerazione tale possibilità.
Un passo alla volta, salirono. Lindaen aveva le gambe più lunghe e poteva tenere un passo meno sostenuto, ma era Fili ad essere in testa al gruppo. Di quando in quando si fermava e guardava indietro, come per incitarli silenziosamente a fare presto. Aveva una fretta quasi maniacale di arrivare da suo zio, nelle sale della sua famiglia.
Si sentivano tutti nuovamente in fibrillazione al pensiero di entrare finalmente a Erebor. Ora che stavano davvero percorrendo l'ultimo tratto, pareva loro che fosse quasi infinito. Tuttavia, all'emozione per la meta si aggiungeva un'ansia sorda. E se non avessero trovato più nessuno?
Fecero una pausa dopo un'ora e mezza di cammino, sedendosi su una roccia. Guardarono tutti verso il lago, molto in basso rispetto a loro: la città era una vasta landa grigia e morta al centro dell'acqua luminosa. I raggi del sole si rifrangevano sulla superficie del lago, rendendolo brillante e acceso. Ricordava loro la notte precedente, le grida e i morti; distolsero lo sguardo e ripresero la via.
Quando infine giunsero in vista del loro obbiettivo, Lindaen faticò a quantificarne la dimensione. L'entrata di Erebor era scavata direttamente nella roccia: la montagna la avvolgeva e le abili mani dei Nani avevano inciso, decoro dopo decoro, un'enorme porta e intorno ad essa un'elevata facciata scolpita. Era di una grandezza e una maestosità mai viste. Lindaen si bloccò, esterrefatta, le labbra dischiuse in un'espressione di muta sorpresa.
La facciata di accesso alla città doveva essere alta quanto venti palazzi degli Elfi. Balconate e grandi finestre si susseguivano su vari livelli. Tutto era decorato, inciso e scolpito, tutta la parete di roccia era stata rimodellata dalle mani esperte di Nani operosi.
C'era solo un difetto: la grossa voragine causata dal drago, quando aveva sferrato il suo attacco sfondando l'entrata principale. Perfino Smaug, però, pur con le sue gigantesche membra, aveva deturpato meno di un quinto della facciata complessiva.
«Ma è...», balbettò Lindaen, senza riuscire a trovare un aggettivo adeguato.
«È casa», disse Fili, senza fiato per l'emozione.
«È bellissima», fece eco Oin, commosso.
«In realtà stavo per dire che è enorme», rispose lei educatamente.
Rimasero per qualche istante a contemplarla. Se l'interno era maestoso e comunicava altrettanta potenza quanto l'esterno, Lindaen immaginava come mai Thorin volesse a tutti i costi riconquistarla.
«Forza, riprendiamo», disse Bofur.
Si rimisero in marcia. Il sentiero piegò a sinistra e la città dei Nani rimase nascosta per un po' alla vista, oltre la roccia della montagna, poi ripresero a salire. Quando tornarono a vedere Erebor, tra loro e la porta c'erano delle rovine.
«Dale». Lindaen comprese dove si trovavano con un certo dolore. «Non posso crederci, guardate qui...».
La città di Dale, arroccata su un grosso pendio roccioso, non era particolarmente grande. Era tutta in pietra: le case, le strade, i negozi. Era accogliente, con strette viuzze acciottolate, un'ampia piazza del mercato, un piccolo parco giochi per bambini, pozzi profondi per l'acqua.
Ed era in rovina.
Smaug aveva devastato Dale quando era arrivato. Ora in città c'era un grande silenzio. Gli edifici erano aggraziati, moderni, ma di essi restavano appena i muri portanti; pochi erano i tetti sopravvissuti. Qua e là, come a voler vincere contro il fuoco del drago, crescevano arbusti e alberi striminziti, che si erano fatti largo tra le pietre delle vie e i pavimenti delle case, ma erano deboli.
Era uno spettacolo profondamente triste. Rimanevano le tracce di ciò che la gente stava facendo prima di fuggire, quando avevano abbandonato in fretta e furia la città lasciandosi alle spalle la propria vita. Lindaen guardò all'interno di una delle poche case ancora intere attraverso una finestra sventrata: un tavolo di cucina bruciacchiato era ancora apparecchiato con i resti di stoviglie e posate, ora coperti di polvere e sporcizia; una sedia ribaltata nella fretta di andarsene. Alle pareti c'erano ancora appesi dei quadri, altri erano caduti a terra. Duecento anni in cui nessuno aveva toccato nulla.
Passarono vicini ad una giostra: aveva quattro posti, ciascuno modellato a forma di animale, ma il palo centrale si era spezzato ed ora l'intera struttura aveva assunto una forma grottesca, abbandonata a sé stessa.
Nessuna finestra era intatta. Passarono accanto a quello che un tempo doveva essere stato il palazzo di re Girion e che ora altro non era se non uno spiazzo a cielo aperto con pochi muri crollati. Lì, Lindaen si fermò per osservare le vetrate: erano sopravvissuti solo gli intarsi in ferro, ma erano vecchi e in parte rotti.
«Un grande dolore...», mormorò Lindaen. Si volse verso i Nani. «Riuscite a sentirlo?».
«Noi non siamo Elfi, mia cara», rispose Oin, la voce piatta e carica di tensione. «Non sento nulla in questo luogo, se non una gran voglia di lasciarlo».
Lei annuì, ma rimase immobile ancora per qualche minuto, guardandosi intorno. Sentiva freddo: non per la spruzzata di neve che già si era posata intorno a loro, ma dentro di sé. Le ricordava un canto funebre.
Si riscosse. Non potevano perdersi nella malinconia, perciò Lindaen si fece forza e insieme si affrettarono ad attraversare la città. Da quella distanza ravvicinata, Erebor sembrava incombere su di loro.
Attraversarono una strada rialzata all'uscita nord di Dale, poi percorsero una via di terra battuta, ampia e con pietre e massi ai lati per segnarne i confini, che con qualche curva per seguire la natura correva tra le due città. Si lasciarono Dale alle spalle. Nessuno aveva più molta voglia di parlare.
Quando giunsero in prossimità della Montagna si arrestarono. Smaug aveva distrutto le porte principali, gettandosi fuori e sfondando l'entrata nella sua furia cieca. Aveva abbattuto una delle due grandi statue che vegliavano le porte della città: quella ancora in piedi rappresentava Thrain I, fondatore della prospera Erebor. Lindaen poteva solo immaginare che l'altra, ormai senza volto, rappresentasse Durin, il capostipite della stirpe di Thorin.
Si fermarono sotto le due statue. C'era un corto ponte di pietra, liscio e di chiara costruzione nanica, a separarli dall'accesso. Sotto di esso probabilmente scorreva un torrente, ma nel suo agitarsi e muoversi Smaug aveva fatto crollare una porzione della roccia del monte, che ora bloccava la cascata. Il letto del torrente era pieno d'acqua, ma fermo.
Nessuno di loro osava parlare. All'interno vedevano solo buio. Non veniva nemmeno un suono.
Si trovavano di fronte a ciò che avevano temuto: scoprire se i compagni erano vivi o se il drago se ne era nutrito. Fino a quel momento il quesito era rimasto aperto e c'era stato spazio per la speranza, ma ora non avevano scelta.
«Andiamo», disse Lindaen.
Camminarono lungo il ponte e varcarono la soglia. Quando si furono abituati all'improvvisa oscurità notarono la quantità inattesa di detriti sul pavimento: una campana dorata era caduta dal soffitto e ora giaceva solitaria, la sua grossa catena distesa come un lungo serpente; cumuli di massi squadrati erano abbandonati laddove erano piombati a terra. Lindaen guardò alla propria destra: una scalinata che portava ai piani superiori era crollata, inaccessibile. Una enorme ragnatela, così fitta da sembrare vecchia di secoli, avvolgeva quello che aveva tutta l'aria di essere un gigantesco braciere di pietra.
«C'è nessuno? Bombur?», chiese Bofur, la voce che si rifrangeva fino all'altissimo soffitto oscuro. «Bifur? Qualcuno?».
C'erano raggi di sole che provenivano dalle finestre in alto. Fu allora che Lindaen capì che quello era l'enorme androne di una scala che probabilmente risaliva fino in cima alla Montagna. Si trovavano su un grande pianerottolo. Gettò uno sguardo più avanti: la scala, oltre che salire, scendeva.
«Non possiamo andare su», disse agli altri indicando la rampa crollata. «Perciò cominciamo a scendere. Se non troviamo nessuno, torniamo qui e cerchiamo di costruire qualcosa per arrampicarci».
Ai Nani parve un buon piano e così Oin fece loro strada verso la rampa in discesa. Dovettero fare attenzione a dove mettevano i piedi e più di una volta Lindaen dovette fermarsi e aspettare i Nani costretti a scavalcare detriti troppo grossi.
Scesero a lungo, più a lungo di quanto Lindaen avrebbe creduto, e infine la scala sbucò nel cuore vero e proprio di Erebor. Con un sospiro incredulo, Lindaen si bloccò e si guardò intorno con occhi sgranati.
Era come se la Montagna Solitaria fosse cava: i Nani avevano scavato e scavato fino a creare un unico, ampio spazio così gigantesco da poter contenere Smaug almeno mille volte. All'interno di Erebor, invece di costruire scale e stanze, le avevano semplicemente scolpite. Avevano usato la roccia della Montagna stessa, livellandola e creando la loro città man mano che proseguivano. C'erano altre scale, corridoi chiusi, stanze scavate nella roccia. Non esistevano veri e propri piani, perché le stanze si trovavano laddove i Nani avevano deciso di costruirle, sostenute dal monte medesimo. La città aveva le sue fondamenta in se stessa.
«Mai stata in una città dei Nani, eh?», fece Fili dandole una spintarella.
Lindaen non rispose. Quello che aveva davanti era un labirinto, un dedalo di gradini, passerelle, ponti sospesi nel vuoto. Un passo falso e chiunque sarebbe potuto precipitare nelle profondità della Montagna, ma i Nani avevano reso tutto così largo e maestoso che era quasi impossibile cadere.
Se non ci fossero stati i suo compagni con lei, si sarebbe persa dopo poche svolte. Le scale si dividevano, finivano in vicoli ciechi, portavano a camere senza altra uscita. Gli Elfi avevano uno stile più delicato, secondo lei più armonico, ma non avrebbero mai potuto imitare un simile, imponente operato.
«Aspettate! Aspettate!», gridò una voce poco più sotto.
Con un sussulto, Lindaen si arrestò di colpo. Bofur, che la seguiva, le finì addosso.
«Bilbo!», urlò lei.
«È vivo!», esclamò Oin.
Si gettarono alla loro sinistra, dove una gradinata scendeva fino ad un livello inferiore. Quasi si scontrarono con Bilbo quando lo raggiunsero. Lo Hobbit sembrava aver corso per mezza Erebor e si fermò respirando affannosamente. Ad una prima occhiata, a Lindaen parve che stesse bene. Era sporco di fuliggine e aveva un po' di sangue ormai secco su una tempia, ma non era ferito.
Non ebbero tempo di provare sollievo o di salutarlo, perché Bilbo disse deciso: «Andatevene».
«Cosa?», esclamarono Fili e Kili.
«Dovete andarvene. Noi tutti dobbiamo andarcene».
Bofur si tolse sia l'elmo sia il cappello e si grattò la testa, molto perplesso.
«Ma siamo appena arrivati», fece con voce acuta.
«Ho tentato di parlargli», disse Bilbo, «ma non ascolta».
«Chi?», chiese Oin.
«Thorin!». La sua voce si alzò di un tono, rimbombando, e tutti sobbalzarono. Bilbo si avvicinò e prese a sussurrare: «Thorin. È laggiù da ore. Non dorme, mangia a stento... Non è in sé! Affatto! È questo», aggiunse indicando il soffitto, «è questo posto. Credo sia affetto da una malattia».
Non avrebbe potuto usare una parola meno incoraggiante, perché Fili e Kili si allarmarono.
«Malattia?», ripeté Fili.
«Che tipo di malattia?», si informò Kili.
Non attesero alcuna risposta e si lanciarono verso una scala, cominciando a scendere di corsa, saltando i gradini a manciate, Kili rallentato dalla gamba in via di guarigione.
«No, un attimo», borbottò Bilbo, interdetto. «Fili? Kili!».
Oin e Bofur si fiondarono all'inseguimento. Lindaen e Bilbo si scambiarono uno sguardo e dato che ormai non c'era nulla da fare si affrettarono dietro i Nani. Un gradino alla volta, un corridoio alla volta, sempre più giù. Lindaen non aveva mai percorso così tante scale e aveva male alle ginocchia, ma continuò a correre.
Ad un certo punto passarono in un'altra parte della montagna: una seconda enorme voragine nella roccia, uguale alla prima, ma con scale e saloni che raggiungevano profondità maggiori. Lindaen non poté impedirsi di domandare a se stessa se sarebbe stata in grado di rivedere la luce del sole. C'erano tonnellate di roccia sopra la sua testa. Scoprì che non le piaceva sentirsi sepolta in quel modo.
Poi videro una luce, da qualche parte sotto di loro. Lindaen si sporse, appoggiandosi a un parapetto: era una stanza, aveva tutta l'aria di essere la più grossa presente a Erebor. Brillava, ma non di fuoco: sembrava risplendere di una luce naturale, come se un sole vivesse sotto la pietra.
Scesero ancora e, d'improvviso, Fili e Kili rallentarono. Fu allora che Lindaen capì: quella che brillava non era una stanza, era l'intera base della città, l'ultimo piano della Montagna, e doveva trovarsi al livello del Lago Lungo. A metà di una scala, lei e i Nani spalancarono gli occhi. Il pavimento dell'enorme Erebor era coperto d'oro.
Non era possibile, secondo Lindaen, fare una stima di quella ricchezza perché era un mare di monete, metalli preziosi, pietre, oggetti luminosi. Oro, argento, diamanti. Si ammucchiavano qua e là, in cumuli irregolari come dune di un deserto, come se qualcuno li avesse gettati laggiù senza neanche curarsene. Dovevano esserci voluti decenni per mettere insieme una simile quantità di cose. I gradini della loro scala si tuffavano in quel mare dorato, che brillava alla luce di enormi vasche e bracieri infuocati. Le fiamme si riflettevano sull'oro, creando giochi di luce e ombra e facendo loro pensare che un altro drago potesse dormire lì sotto senza che qualcuno se ne accorgesse.
Lindaen sentì un groppo molto doloroso alla gola. Non era commozione, era disperazione. Era troppo: tutto quell'oro era troppo per un unico Nano, per un unico popolo. L'ingiustizia di quel pensiero le strinse il petto in una morsa. Quella notte a Pontelagolungo Bard aveva avuto ragione nel dire che il re sotto la Montagna era stato accecato dal proprio amore per la ricchezza.
La piccola mano di Bilbo si fece strada nella sua e Lindaen la strinse, ma dubitava che qualcuno avrebbe mai capito ciò che stava attraversando la sua mente. Si rese conto di quanto profondamente Elfi e Nani fossero diversi: quell'oro avrebbe cancellato l'amore e la gioia dal cuore di qualsiasi Elfo, anche dal più puro d'animo. In tutta quella luce non c'era vita, c'erano solo angoscia e turbamento.
E là, in mezzo a quella massa di ricchezza mortifera, c'era Thorin. Indossava una corona, l'antica corona indossata da suo nonno, e un grosso mantello di pelliccia nera. Passeggiava sul suo oro, osservandolo con un sorriso appena accennato, distaccato.
Si accorse di loro e li guardò con dolcezza, accogliendoli con lo sguardo nella sua grande sala.
«Oro». La sua voce era un sussurro, ma arrivava fino al soffitto. «Oro oltre ogni misura. Oltre ogni afflizione e dispiacere».
Lindaen e i suoi compagni si scambiarono uno sguardo. I Nani erano sconvolti quasi quanto lei. La voce di Thorin sembrava quella di un altro, quella di un pazzo.
«Ammirate il grande tesoro di Thror», fece Thorin, chiudendo gli occhi e inspirando profondamente, come se l'aria stessa fosse impregnata d'oro.
Si chinò, prese qualcosa dalla massa sottostante e la lanciò verso di loro. Fili allungò un braccio e afferrò l'oggetto, mostrandolo agli altri. Era un rubino, tagliato in una raffinata forma romboidale, e brillava luminoso nella mano del Nano. Fili guardò gli altri, incredulo. Quella pietra era grossa come una scodella.
«Benvenuti, figli di mia sorella», disse Thorin a Fili e Kili. «Benvenuti, amici fraterni, qui nel regno di Erebor».
Poi, per il re dei Nani fu come se fossero spariti: Thorin tornò a guardare il proprio tesoro con occhi amorevoli, in contemplazione silenziosa. Si dimenticò della loro presenza.
Lindaen sbuffò dalle narici, ansiosa di lasciare quel luogo.
«Andiamo a vedere come stanno gli altri», propose.
Come riscossi da una visione, i Nani annuirono e Bilbo fece strada. Risalirono le scale e tornarono nell'area precedente, imboccando altri corridoi e cominciando a spostarsi in orizzontale. Poi Bilbo entrò in una camera senza uscita, che aveva tutta l'aria di essere una polverosa sala da pranzo: un lungo tavolo di legno mangiato dai tarli era circondato da sgabelli adatti alla bassa statura dei Nani. Tutto era ricoperto di polvere e ragnatele. In alto sulle loro teste, lanterne di vetro erano illuminate da fiammelle deboli.
In piedi accanto a una piattaia il cui contenuto era da tempo in pezzi c'erano Balin e Dwalin. Parlavano sommessamente, non li videro subito e quando Bofur gridò: «Balin!» sobbalzarono.
«Per la mia barba!», tuonò Dwalin. «Ori, Nori, Dori! Venite a vedere!».
Da una botola nel pavimento che un tempo aveva forse condotto ad una dispensa emersero una alla volta le teste dei tre Nani, che li fissarono stupidi prima di urlare a loro volta per la sorpresa e l'allegria.
Per qualche momento ci fu un tumulto di Nani abbracciati. Il tramestio gioioso attirò l'attenzione degli altri, che sopraggiunsero da altre stanze: Bifur si gettò di peso su suo cugino Bofur e Bombur li abbracciò entrambi sollevandoli da terra; Gloin e Oin si scambiarono sonore pacche sulle spalle. Kili fu preso in giro bonariamente da tutti per essersi lasciato ferire dagli Orchi e Fili si trovò al centro dell'attenzione per aver tenuto testa a Thorin a Esgaroth. Balin, la cui barba era di nuovo pettinata e ordinata, si muoveva ballonzolando da un Nano all'altro senza sapere da chi cominciare per dimostrare la propria felicità.
Erano tutti vivi e in salute.
Lindaen e Bilbo aspettarono in disparte, sorridendo, finché Dwalin non li notò.
«Bene, bene!», esclamò. «Che mi venga un colpo secco se quella che ho davanti non è la nostra amica dalle orecchie a punta. Sei ancora viva, vedo».
Tutti i Nani tacquero, fissandoli. Un po' risentita, Lindaen aggrottò la fronte. Non si aspettava un abbraccio, ma nemmeno quel tono guasto e stizzito.
«Sembri sorpreso».
Il Nano le si avvicinò lentamente, a larghe falcate, il solito sguardo truce che gli attraversava il viso. Il suo grosso naso e i baffi si agitarono e gli occhi gli si inumidirono.
«Non osare farlo mai più, è chiaro?».
Non capendo, lei scosse il capo.
«Che cosa?».
«Non osare mai più rischiare l'osso del collo, sciocca ragazza, o giuro sulla tomba di Durin che ti riesumo e ti riammazzo con le mie mani».
Sorpresa e un po' incredula, Lindaen rivolse a Balin uno sguardo interrogativo.
«Credeva fossi morta a Pontelagolungo», spiegò lui con un sorriso. «Era preoccupato. Non si dava pace!».
Tutti i Nani risero sguaiatamente. Dwalin riacquistò la sua usuale aria funesta e si sistemò la cintura sulla pancia con cipiglio sbruffone.
«Adesso non esageriamo», brontolò.
I Nani e Bilbo risero ancora di più e anche Lindaen si lasciò andare a una risata.
Balin cominciò a spacchettare parte delle provviste donate loro dal governatore di Pontelagolungo e Lindaen, Fili, Kili, Oin e Bofur ci si gettarono avidamente.
Raccontarono cosa era accaduto al lago durante la notte precedente: la ferita di Kili, l'attacco degli Orchi, l'arrivo di Tauriel e Legolas e infine il fuoco del drago. I Nani e Bilbo ascoltarono con le orecchie tese, fissandoli in silenzio.
Allora anche loro cominciarono a raccontare.
«Quando siamo arrivati, abbiamo dovuto penare un po' per trovare la porta secondaria segnalata dalla profezia», disse Balin. «Non riuscivamo a trovare il buco della serratura».
«Poi Bilbo ha avuto un'idea», disse Ori, «non è vero?».
Bilbo arrossì e non rispose.
«Sì, è vero», confermò Dori con la sua solita voce affettata. «Noi ci stavamo già scoraggiando, ma lui è rimasto finché la luna non ha illuminato la Montagna...».
«La luna piena del Dì di Durin», disse Ori.
«Sì, ci stavo arrivando!», protestò Dori. «La luna piena de Dì di Durin, certo. La porta, allora, si è rivelata».
Lindaen annuì. Aveva sentito parlare delle porte dei Nani: nel momento in cui venivano chiuse, era praticamente impossibile ritrovarle a meno che la luce della luna non le illuminasse.
«Così Thorin ha infilato la chiave e siamo entrati», disse Dwalin. «C'era un tale puzzo di drago che quasi quasi vomitavo».
«Grazie per questo dettaglio, fratello», commentò Balin educatamente.
«Figurati».
«A quel punto si è mosso Bilbo», raccontò Nori. «Era il suo compito, così ha cominciato a scendere giù, giù nelle profondità. Forza, scassinatore, dicci cos'è successo».
Bilbo si strinse nelle spalle, un po' teso.
«Ho visto da lontano la luce emanata dal tesoro, così l'ho seguita», spiegò. «Quando sono arrivato, sul momento ho creduto che non ci fosse nessuno. Sembrava che Smaug non fosse lì, ma un drago non lascerebbe mai il suo bottino incustodito, perciò ho pensato fosse strano».
«Dov'era?», chiese Bofur.
«Era sotto il tesoro», rispose lo Hobbit. «Ne era completamente ricoperto. Quando ha sentito il mio odore si è mosso e si è mostrato. Era... Oh, non so descriverlo. Era così grosso e sembrava così malvagio... Insomma, mi sono nascosto».
«E hai fatto bene», abbaiò Dwalin, «solo un imbecille sarebbe rimasto lì con un drago vivo a piede libero».
«Poi che hai fatto?», domandò Lindaen.
«Ho parlato», rispose lui. «Avevo letto in un libro, a Casa Baggins, che ai draghi piace chiacchierare. Sono vanitosi e occorre adularli. Ho cominciato a dirgli che mai avevo visto qualcosa di così terribile, che ad essere onesti è anche la verità. Lui sembrava molto compiaciuto. Ha parlato a lungo, vantandosi delle sue imprese, poi ha annusato meglio e ha sentito odore di Nano. Ha capito che doveva trattarsi di Thorin e dei suoi parenti». Bilbo rabbrividì. «Ha iniziato a fare fuoco e fiamme, ma io sono rimasto ben nascosto e appena possibile sono scappato. Solo che sono arrivati loro», aggiunse indicando i Nani con lo sguardo.
Balin intervenne: «Sì, non potevamo certo lasciarlo da solo! Sentivamo tutti quei rumori e la terra che tremava...».
«Quando ci ha visti», disse Nori, «Smaug è andato in brodo di giuggiole. Non vedeva l'ora di dimostrarci quanto fossimo piccoli e impotenti rispetto a lui. Ci ha inseguiti per tutta Erebor, vero Bifur?».
Bifur, con il solito pezzo di ascia piantato nel cranio, blaterò qualcosa senza senso.
«Sì, gliel'abbiamo fatta vedere», disse Balin, «lo abbiamo portato nelle vecchie fucine naniche e lo abbiamo distratto mentre portavamo l'oro allo stato di ebollizione».
«Lo abbiamo ricoperto con un fiume d'oro, orecchie a punta», disse Dwalin agitando una mano. «Ti rendi conto? Un dannato fiume d'oro fuso e rovente non è bastato a farlo fuori, non lo ha neanche scalfito».
«Però lo ha fatto infuriare», indovinò Kili.
«Sì, moltissimo», disse Dori.
«Non gli interessava più giocare con noi», continuò Balin, «non voleva più dare sfoggio della sua forza. Voleva solo farci fuori. Ha cominciato a diventare imprevedibile, difficile da combattere, e noi stavamo quasi per rimetterci la pelle, poi Smaug si è fermato e ha annusato l'aria».
«Ha sentito l'odore degli uomini del lago», disse Bilbo. «Ha capito che ci avevano aiutati. Era furioso, ha cominciato a dire che le sue ali erano un uragano e minacce simili. Poi ci ha lasciati qui», concluse. «Si è buttato verso l'entrata, l'ha sfondata ed è partito verso Pontelagolungo».
Cadde il silenzio. I pensieri di Lindaen andarono a Bard e alla sua famiglia. La gente del lago ormai doveva essersi organizzata, doveva essere partita per cercare riparo. Era il primo giorno d'inverno e il freddo era già pungente.
«Su», disse Balin, «basta pensieri tristi, adesso. Andiamo, Thorin sta ancora cercando quella pietra».
Mentre lasciavano la sala da pranzo e cominciavano a spostarsi in gruppo verso la stanza del tesoro, Lindaen si avvicinò a Dwalin.
«Quale pietra?».
«L'Arkengemma», disse lui. «Apparteneva a Thror».
Lindaen ricordò che Thranduil ne aveva parlato: era un cimelio della gente di Durin. Si diceva che fosse grande come il pugno chiuso di un uomo e che fosse naturalmente luminosa. Nessuno sapeva di cosa fosse fatta, ma quando era stata trovata durante uno scavo aveva rischiarato tutta la galleria. Il re sotto la Montagna non ne aveva mai parlato se non davanti a Thranduil.
Thorin mise al lavoro tutti i Nani, che cominciarono a spargersi nella vasta stanza del tesoro e a cercare.
«Qui niente!», urlò Nori.
«Neanche qui», rispose Bofur.
Oin, da qualche parte nel salone, gridò: «E se Smaug l'avesse mangiata?».
Suo fratello Gloin, non lontano da dove si trovava Lindaen, rispose a gran voce: «Certo che no, zuccone, i draghi non si mangiano il loro tesoro».
«Continuate a cercare!», esclamò Thorin.
«Potrebbe essere ovunque», si lamentò Bombur.
«L'Arkengemma è in queste stanze», insistette Thorin, scuro in volto. «Trovatela!».
«Avete sentito? Cercate!», gli fece eco Dwalin.
«Tutti voi!», tuonò il re, i pugni stretti. «Nessuno riposi finché non si trova!».
Lindaen e Bilbo, in piedi non lontano da lui, non stavano cercando né avevano intenzione di farlo. Lo fissavano senza battere ciglio, increduli.
Come poteva essere lo stesso Thorin che era partito con loro dalla Contea? Era sempre stato un Nano dal carattere serio, poco incline allo scherzo, ma ora aveva una luce strana negli occhi: sembrava vorace, come un corvo pronto a ghermire il grande tesoro di Erebor. Non aveva mai dato ordini ai Nani, non aveva mai chiesto loro nulla che non volessero dare e loro lo avevano seguito per devozione. Ora strepitava ordini a destra e a sinistra, senza curarsi di nulla e nessuno.
«Lindaen», bisbigliò Bilbo. «Devo parlarti».
Lei annuì, guardando Thorin di sottecchi. Era troppo concentrato nell'osservare il suo oro per accorgersi della loro assenza.
«Andiamo».
Bilbo la condusse su per le scale, ma quando furono transitati nell'altra ala della Montagna non prese a salire. Invece, la precedette verso una piccola stanzetta di legno: sembrava come uno sgabuzzino per le scope ed era collegata attraverso una carrucola ad una lunga, grossa fune di ferro che sembrava pendere dal soffitto. Lindaen si fece circospetta.
«Lì dentro?».
«Ti piacerà».
Pur non amando l'idea di chiudersi in uno spazio così ristretto, seguì Bilbo all'interno e lo Hobbit chiuse la porta. Dentro non c'era nulla: solo una leva.
«Tieniti forte».
«Cosa succ...».
Lindaen si interruppe quando la stanza si mosse. Bilbo aveva tirato la leva, il pavimento si era mosso ed ora l'Elfo aveva la fastidiosa sensazione di avere l'intestino in gola. La stanza si stava sollevando ad una velocità che per Lindaen era eccessiva e, quando Bilbo riportò la leva in posizione, si arrestò così improvvisamente che lei quasi urlò.
«Cos'è successo?», esclamò spalancando la porta.
Si trovavano in cima, non lontano dalla porta d'entrata. La luce del sole la colpì in faccia e Lindaen fissò davanti a sé, come se non avesse mai visto il cielo prima d'allora.
«La Montagna si è mossa», constatò.
«No, è quella che si è mossa», disse Bilbo con un sorriso indicando la piccola stanza. «I Nani la chiamano saliscendi».
Con le gambe molli e il forte desiderio di vomitare, Lindaen seguì lo Hobbit ripromettendosi di non usare quell'aggeggio mai più. Trovarono una scala a pioli e, saggiatane la resistenza, la appoggiarono alla rampa di scale crollata per salire e raggiungere quella che una volta doveva essere una balconata, prima che Smaug ci passasse attraverso. Ora era solo una voragine, due lembi di roccia spaccati a metà.
Non c'era nessuno. I Nani si trovavano a miglia sotto di loro e fuori da lì c'erano solo le case abbandonate di Dale. Lindaen si sedette su un pietrone squadrato a pochi passi dal buco lasciato da Smaug, le mani in grembo e un sorriso gentile. Un venticello fresco le agitava i capelli.
«Cosa ti turba?», chiese dolcemente.
Lui prese a tormentarsi le mani, a disagio.
«Io... Io ho fatto una cosa».
Lindaen non rispose, aspettando i suoi tempi. Lo Hobbit respirò profondamente.
«Dunque, io non ho detto tutta la storia», cominciò. «Mentre ero laggiù, con Smaug... l'ho vista».
«Cosa hai visto, Bilbo?».
Lui infilò cautamente una mano in tasca. Strinse qualcosa e poi la tirò fuori, circospetto.
Lindaen trattenne il fiato.
Non sembrava una pietra, ma una goccia: una goccia solida delle dimensioni di un grosso sasso perfettamente liscio. Brillava. Era luminosa per natura, anche nel buio totale avrebbe emesso una tenue luce stellata. Al suo interno c'erano come piccoli raggi di vari colori, dall'azzurro al giallo al viola. Una stella sembrava esserci esplosa dentro.
«L'Arkengemma», disse Bilbo. Lindaen non si mosse. «L'ho vista e... Beh, era per quello che Thorin... Volevo dargliela, e... Insomma...».
«Insomma l'hai presa», disse Lindaen, cercando di infondere nella propria voce la comprensione che Bilbo stava cercando. «Perché non lo hai detto? I Nani sono tutti alla sua ricerca».
Lui cominciò a camminare avanti e indietro, i grossi piedi scalzi e pelosi che misuravano ciò che restava del balcone di pietra.
«Volevo farlo. Quando il drago ci ha lasciati in pace avrei voluto dirlo a Thorin, ma lui mi ha aggredito».
Nel petto di Lindaen si fece strada un sentimento rabbioso. Thorin doveva solo provarci ad aggredire Bilbo.
«Volevo dirglielo», ammise lui con l'aria mesta, «ma Thorin ha iniziato a urlare che l'avevamo rubata, che gliela volevamo nascondere. Era fuori di sé. Siamo tutti rimasti allibiti ed io non ho più avuto il coraggio di andare avanti. Lindaen», disse guardandola con angoscia, «che devo fare? Se gliela consegno, Thorin impazzirà del tutto!».
Lei non sapeva cosa rispondere. Non sapeva come consigliarlo.
«Perché lo hai detto a me?», chiese invece.
«Perché tu sei come me, o come Gandalf», rispose Bilbo, «sei... distaccata, meno coinvolta rispetto ai Nani. Non mi accuserai di averla rubata. Vero?», domandò poi, allarmato.
Lindaen scosse il capo.
«No. Per il momento non mostrarla a nessuno. Penseremo a come fare».
Bilbo annuì, rimettendo quella gemma inestimabile nella tasca del cappotto blu. Si sedette sconsolato al suo fianco con un lungo sospiro.
«Vorrei che Gandalf fosse qui», ammise.
«Anch'io, Bilbo», mormorò Lindaen. «Anch'io».

Finding the place.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora