CAPITOLO QUATTRO

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Riabbracciare Bilbo fu per Lindaen molto emozionante. Non pensava che sarebbe stata così commossa, ma non appena i Troll si furono completamente tramutati in pietra corse nella sua direzione, lo estrasse di peso dal sacco e lo strinse a sé.
«Sei stato bravissimo, Bilbo!», lo elogiò.
Lui arrossì sotto ai capelli dorati, ma non perse tempo in convenevoli e replicò: «A questo punto non puoi andartene, perché senza di te non sarei riuscito a temporeggiare abbastanza!».
Lindaen fu presa in contropiede.
«Oh», rispose, non aspettandosi una replica simile. «Io...».
Una gomitata nel fianco le comunicò il sopraggiungere di Balin, Ori e Gloin.
«Dobbiamo ringraziarvi», borbottò Gloin.
«Sì», disse dolcemente Ori, «grazie di averci salvati».
Il vocione di Dwalin giunse da poco distante: «Ce la saremmo cavata anche da soli. Non mi sono piaciuti tutti quei discorsi sullo spellamento, mastro Baggins».
«Ignoratelo», disse Balin, tutto allegro. «Vi siamo debitori. A quanto pare non è stato proprio un errore ammettervi nella compagnia, eh?».
Lindaen cominciò a sentirsi a disagio. A quel punto, visti gli ultimi eventi, era meglio dirlo subito che voleva andarsene, piuttosto che fingere che fosse tutto a posto e svicolare non vista non appena ne avesse avuta l'occasione.
«Per la verità, Balin, io sto per...».
«...commuoverti?», la interruppe Bilbo.
Lindaen lo guardò a lungo. Avrebbe dovuto sentirsi offesa da tutta quell'intromissione da parte dello Hobbit, dopotutto non era affar suo cosa facesse del suo tempo libero, ma la verità era che provava una singolare ondata di calore al collo e alle guance. Il fatto che non volesse lasciarla partire le dava uno strano piacere. Era molto dolce.
Lanciò un'occhiata ai sorrisi dei Nani: non voleva farsi traviare dalle emozioni, eppure aveva come la sensazione che ci fosse un'atmosfera un po' diversa. Non c'era indifferenza, c'era riconoscenza nei loro occhi. Si disse che non doveva farsi condizionare, eppure si sentiva molto leggera.
«Già», mormorò. «Commuovermi, proprio così».
Balin ridacchiò e le diede un colpetto sulla mano.
«Non dire assurdità, non ce n'è bisogno», la rimbrottò educatamente.
Lindaen lanciò un'occhiata in tralice a Bilbo, era tutta colpa sua se ora non aveva più voglia di andarsene. Tuttavia gli sorrise e si allontanò, desiderosa di trovare Gandalf.
Lo notò che dava dei colpetti con il bastone ad uno dei Troll pietrificati. Sembrava molto interessato al modo in cui era accaduto e continuava a brontolare tra sé.
«Incredibile», disse quando l'ebbe notata. «Stupefacente. Lindaen, vieni qui, per favore. Osserva questo singolare processo di calcificazione. Non avevo mai assistito alla tramutazione di un Troll, prima d'ora, ma devo dire che è affascinante».
«Se lo dici tu», commentò lei.
«Gandalf!».
Si voltarono entrambi verso Thorin, che avanzava con espressione notevolmente addolcita rispetto al giorno prima.
«Dov'eri andato, se posso chiederlo?».
«A guardare avanti», rispose Gandalf.
Thorin sorrise.
«E cosa ti ha fatto tornare?».
«Il guardare indietro», fece lo stregone. Indicò i Troll con l'indice ossuto. «Brutto affare, brutto davvero. I Nani sono ancora tutti interi, però».
«Non grazie al tuo scassinatore», disse Thorin.
Lindaen non aveva intenzione di iniziare a discutere nuovamente, ma quella le parve una grave ingiustizia. Come osava Thorin lamentarsi, se era proprio grazie a Bilbo se tutti i suoi Nani erano ancora vivi?
«Non essere maligno», disse decisa. «Abbiamo avuto il buonsenso di guadagnare tempo. Nessuno di voi ci aveva pensato. Hai un grosso debito con Bilbo, non dimenticarlo».
L'espressione di Thorin divenne strana, le labbra serrate e gli occhi tetri, ma annuì. Non avrebbe mai ammesso ad alta voce di essere in debito con uno Hobbit e con un Elfo, ma almeno ebbe il buon garbo di non replicare.
Gandalf annuì, soddisfatto, poi cominciò a guardarsi intorno con molto interesse. Il suo sguardo vagò verso le montagne.
«Devono essere calati dagli Erembrulli», rifletté.
«Da quando i Troll di montagna si avventurano così a sud?», chiese Thorin.
«Non da un'era», ammise Gandalf. «Non da quando un potere più oscuro guidava queste terre...».
La sua voce si fece tetra e Lindaen abbassò lo sguardo. Conosceva molto bene la storia della Terra di Mezzo, non c'era bisogno di specificare chi fosse il nemico in questione. Non poté evitare di chiedersi se non fossero in arrivo tempi difficili, ben più complicati di quanto lo fosse la riconquista di un regno nanico.
«Non possono essersi mossi alla luce del giorno», aggiunse Gandalf.
«Deve esserci una grotta nelle vicinanze», intuì Thorin.
Nel giro di pochi minuti tutti i Nani si impegnarono nella ricerca delle tracce dei Troll, qualcosa che li aiutasse a risalire al loro nascondiglio. Non impiegarono molto per trovarlo, nella fretta di andare e venire nelle poche ore della notte i tre Troll non avevano fatto particolare attenzione a nascondere il proprio passaggio: fu sufficiente seguire la scia di pietre smosse, alberi divelti e cespugli rotti per trovare, proprio sotto a una collina fangosa, una sorta di caverna creata dalle radici di un'enorme quercia.
Non sarebbe stata un rifugio sufficiente, ma i Troll avevano scavato fino ad allungarla nel terreno e nel folto del bosco. Lindaen non amava molto infrattarsi al di sotto del suolo, non le piaceva l'idea di barricarsi laddove la luce del sole non poteva raggiungerla, ma non voleva nemmeno restare fuori, così si unì ai Nani, a Gandalf e a Bilbo nella discesa.
«Oh!», disse lo stregone soddisfatto.
«Cos'è questo fetore?», si lamentò Dori.
«Deve essere il tuo sedere», lo prese in giro Nori.
«Smettila di spingere, Bifur», disse Bofur.
«La noversa là no!», rispose Bifur.
Dentro trovarono di tutto, dalle carcasse ormai in decomposizione di scoiattoli, cerbiatti e uccelli a cassette di legno vuote, da corde ormai consunte a vecchie frecce spezzate.
«Un bottino Troll», indovinò Gandalf. «Attenti a cosa toccate».
Thorin scese per ultimo. Reggeva una torcia accesa e, quando ebbe raggiunto il centro della grotta, la luce e le fiamme mostrarono il vero e proprio tesoro.
C'erano alcune casse piene di monete, ammucchiate e confuse in valute diverse; erano così tante che in parte erano finite sul pavimento umido della caverna. Dovevano essere lì da molto tempo, perché erano coperte di uno spesso strato di ragnatele appiccicose. Un secondo sguardo rivelò che, oltre al denaro, c'erano anche alcuni oggetti preziosi: gioielli d'oro, boccali argentati, monili.
«Sarebbe un peccato lasciare tutto qui ad andare a male», disse Bofur, lo sguardo allibito davanti a tutto quel tesoro. «Potrebbe prenderselo chiunque».
Gloin, ben deciso a rientrare delle spese che aveva sostenuto per quell'impresa, replicò: «Sono d'accordo! Nori?».
«Sì?».
«Trova una pala».
Mentre i Nani scavavano per mettere al riparo i forzieri da occhi indiscreti, con l'intenzione di tornare a recuperare l'oro una volta concluso il loro viaggio, Lindaen seguì Gandalf nell'esplorazione della caverna.
«Hai smarrito la tua daga», disse lo stregone. «È rimasta incastrata nel Troll pietrificato».
«Sì», ammise lei. «Peccato: non era pregiata, ma era comoda e mi piaceva».
Thorin spuntò al suo fianco e disse: «Ci sono parecchie armi, qui». Il suo tono era strano, sembrava più acuto del solito. Lindaen intuì che stesse cercando di farsi perdonare le sue frasi scortesi di poco prima senza dover chiedere apertamente scusa. «Possiamo vedere se c'è qualcosa di adatto».
Lindaen immaginò che non avrebbe ricevuto scuse più adeguate, così si accontentò e annuì.
Notarono alcune rastrelliere appoggiate malamente in un angolo e Thorin vi si avvicinò, stringendo i foderi polverosi e strappando le ragnatele. Estrasse un paio di armi.
«Lame non forgiate da un Troll qualunque», commentò.
Era vero: sotto i molteplici strati di sporcizia e carenza di cure, il Nano stringeva due armi di pregevole fattura. Le due else erano diverse, provenivano da differenti fucine, ma erano entrambe eleganti e dall'impugnatura comoda.
«Né forgiate da un fabbro qualunque tra gli uomini», aggiunse Gandalf prendendone una e studiandola. «Sono state forgiate a Gondolin, dagli alti Elfi della Prima Era! Guardate le incisioni». Lentamente sfilò la spada dal fodero per osservarla meglio, molto lieto del ritrovamento.
Al pensiero di avere per le mani armi elfiche Thorin assunse un'aria disgustata. Fece per posare quella che ancora teneva tra le dita, quando Gandalf lo guardò con severità.
«Non si può desiderare lama più bella», decretò.
Il Nano si fermò, incuriosito, e strappò via il fodero. Le incisioni si rincorrevano sulla lama con splendidi particolari e nonostante tutti gli anni di inutilizzo non aveva perduto il filo.
«Io prenderò questa», aggiunse lo stregone osservando meglio la propria arma. «Non male come bottino, non male affatto».
Lindaen osservò con una certa soddisfazione Thorin e la sua espressione ammirata mentre prendeva confidenza con la propria arma. Doveva essere stata una spada corta, in origine, perché per Thorin era della taglia giusta. Non l'avrebbe confessato, ma quell'arma gli piaceva, lo si vedeva lontano un miglio. Doveva essere una spada dalla storia importante, la sua fattura era troppo pregiata perché non fosse appartenuta, un tempo, a un guerriero famoso.
Lei non voleva spade con un nome: non le piaceva il senso di responsabilità che ne derivava. La gente che ne possedeva tendeva a compiere azioni avventate, solo per non ledere l'onore della propria arma. Osservò la rastrelliera con occhio critico e alla fine prese una spada a due mani di media lunghezza, lievemente ricurva e adatta ad essere assicurata sulle spalle: era perfetta, in tal modo non sarebbe stata intralciata nei movimenti. Non le importava che non avesse una storia, ciò che contava era che fosse affilata e maneggevole.
Alle loro spalle giungevano i suoni delle pale e delle monete rovesciate in una grossa buca. Voltandosi, Lindaen vide i Gloin, Nori e Bofur che trafficavano per nascondere l'oro in un deposito a lungo termine. Dwalin li guardava con ironia.
«Andiamocene da questo lurido posto», disse Thorin ad alta voce. «Forza, venite. Bofur, Nori, Gloin, andiamo».
Quando Thorin fu uscito, venne a mancare la luce della torcia e Lindaen, Gandalf e Bilbo chiusero la fila arrancando verso l'imboccatura della grotta, illuminata dal sole.
Quando furono finalmente emersi, Lindaen trasse un sospiro di sollievo, riempiendosi le narici dell'odore del bosco e dell'aria fresca.
«Bilbo», fece Gandalf sbuffando per uscire dalla caverna, «tieni, è più o meno della tua misura».
Passò allo Hobbit quello che aveva tutta l'aria di essere un gladio, ma che nelle mani di Bilbo sembrava la lunga spada di un soldato elfico. Le piccole dita si strinsero intorno all'elsa, ma il suo sguardo era poco convinto.
«Non posso accettarla», mormorò.
«Sono stati gli Elfi a forgiare questa lama», spiegò Gandalf ignorando le sue proteste. «Significa che diventa color blu quando Orchi o Goblin sono nelle vicinanze».
Bilbo si guardò intorno e, appurato che nessuno dei Nani lo potesse sentire, ammise in un sussurro: «Io non ho mai usato una spada in vita mia».
«E spero che non dovrai mai farlo», replicò l'altro, «ma nel caso, ricorda questo: il vero coraggio si basa sul sapere non quando prendere una vita, ma quando risparmiarla».
Lindaen sorrise, intenerita dal tono gentile e paterno di Gandalf. Aveva sempre avuto un debole per gli Hobbit, ma non lo aveva mai sentito parlare con tanta dolcezza a nessuno.
Anche Bilbo parve molto emozionato dalle sue parole, ma era ancora restio ad accettare quel dono. Lindaen gli si avvicinò.
«Portare questa al fianco non farà di te un guerriero», ammise, «ma è un buon passo verso quella direzione». Si inginocchiò e trafficò per assicurargli il fodero alla cintura. «Potrà esserti utile, vedrai».
«Non posso sperare che abbia un nome da battaglia, vero?», ironizzò Bilbo.
Lindaen rise e rispose: «Non credo, i nomi vanno guadagnati. Usala nel modo che riterrai più giusto e anche la tua spada potrà avere un nome adatto».
Bilbo parve molto compiaciuto.
«Arriva qualcosa!». La voce di Thorin squarciò l'aria.
Gandalf sobbalzò e gridò: «Rimanete uniti! Prendete le armi!».
Lindaen sbuffò. Che altro c'era? Il suo istinto aveva visto giusto, la mattina precedente: l'avvicinarsi alle Montagne Nebbiose aveva attirato su di loro pericoli e nemici. Erano stanchi per la notte insonne, come avrebbero fatto a difendersi?
Corse in avanti, incitando Bilbo a fare lo stesso, e si unì a Gandalf e ai Nani nella corsa verso il limitare del bosco. Non volevano farsi cogliere in mezzo agli alberi: chiunque stesse arrivando, volevano averlo bene in vista, non confuso in mezzo alle foglie, con il rischio che li uccidesse uno per volta.
Tuttavia, ciò che era in arrivo tagliò loro la strada appena pochi minuti dopo.
«Ladri! Fuoco! Assassinio!», gridò l'uomo sulla slitta piombando sul terreno davanti a loro.
Lindaen inarcò le sopracciglia. L'ultima volta che lo aveva visto, non era strano neanche la metà di quanto lo era adesso: basso e tarchiato, coperto interamente di pelliccia e con quello che sembrava escremento di uccello su una tempia, si spostava su una slitta di legno trainata da conigli grigi. Aveva brillanti occhi azzurri, rotondi come bottoni, e denti irregolari. Le sopracciglia erano ispide, lunghissime, e la barba era di uno strano colore bruciacchiato.
I Nani lo guardarono esterrefatti, senza sapere nemmeno se attaccarlo o no.
«Radagast!», disse Gandalf in tono gioioso. Rimise la spada nel fodero. «È Radagast il Bruno», annunciò. «Bene! Lindaen, parliamo con il nostro vecchio amico...».
Era un modo per chiedere una conversazione privata. Lei rimise la propria spada sulle spalle e annuì, avvicinandosi alla slitta con circospezione.
«Che cosa diamine ci fai qui?», chiese Gandalf a mezza voce.
«Ti stavo cercando», disse Radagast in un sussurro. «C'è qualcosa di sbagliato, qualcosa di terribilmente sbagliato!».
«Ah, sì?», borbottò Gandalf con scarsa convinzione.
Radagast annuì e fece per parlare, ma si bloccò con la bocca aperta, come se avesse cambiato idea. Poi ritentò, ma ottenne la stessa reazione.
«Oh, dammi solo un momento», si lamentò. «Avevo un pensiero e ora l'ho perso! L'avevo qui, sulla punta della lingua!».
«Radagast, perdonami se sembro impudente», intervenne Lindaen con una certa urgenza, «ma se sei venuto fin qui di corsa da Rhosgobel ci deve essere una ragione importante».
«Sì, sì, infatti», disse lui, ancora pensieroso. Poi, di colpo la sua voce divenne incomprensibile, come se avesse qualcosa in bocca, ed esclamò: «Oh! No è uh enfieo, no...». Tirò fuori la lingua e con un dito aiutò un insetto stecco a uscire dalla propria bocca. «Era questo», concluse.
Lindaen storse un po' la bocca, ma non replicò. Molti Nani che osservavano la scena emisero basse risatine di gola, convinti che Radagast stesse scherzando, ma c'era di sicuro un motivo se aveva percorso mezza Terra di Mezzo con i suoi conigli per trovarli.
Gandalf, più avvezzo di loro alle sue stranezze, gli lasciò i suoi tempi e si accese la pipa con fare rilassato.
Alla fine, dopo aver raccolto i suoi pensieri ed aver liberato l'insetto stecco su un albero, Radagast si decise a parlare.
«Il Bosco Fronzuto è malato», confessò. «L'oscurità è discesa su di esso. Non cresce più niente, ormai – niente di buono, almeno».
Alle orecchie dei Nani quella poteva apparire come una richiesta di aiuto senza urgenza, come quella che un vicino avrebbe potuto porre ad un altro per sanare il proprio giardino, ma Lindaen era cresciuta sapendo che più i boschi si ammalano, più c'è di che preoccuparsi.
«L'aria è satura di putredine», continuò Radagast, «ma il peggio sono le ragnatele».
«Ragnatele!», ripeté Gandalf, di colpo allarmato. «Che intendi dire?».
«Ragni, Gandalf». Radagast rabbrividì e il suo cappello di pelliccia si agitò. «Ragni giganti, una specie di figli di Ungoliant, o io non sono uno stregone».
«Ungoliant?», fece Lindaen, preoccupata. «Lo spirito oscuro della Prima Era?».
«Proprio lei», confermò Radagast, lo sguardo molto triste. «Erano dappertutto, hanno attaccato casa mia e fatto del male ai miei amici».
Lindaen sapeva che parlava degli animali dei boschi. Gli si avvicinò e gli strinse il braccio con dolcezza, doveva essere difficile per lui, che amava quelle bestiole più delle persone.
«Ho seguito le loro tracce», continuò Radagast. «Venivano da... da Dol Guldur».
«Cosa?», chiese Gandalf con incredulità. «Dol Guldur?».
A quelle parole, Lindaen aggrottò la fronte. Non era possibile, forse Radagast aveva fumato qualche erba maligna: Dol Guldur era una fortezza antica, dall'oscuro passato, usata come roccaforte da signori delle tenebre di cui mai avrebbe voluto pronunciare il nome, ma adesso era vuota, in rovina da decenni.
«Ma la vecchia fortezza è abbandonata!», protestò Gandalf.
Radagast scosse il capo. Non sembrava aver battuto le palpebre nemmeno una volta, da quando avevano iniziato quella conversazione.
«No, non lo è». Prese un respiro profondo, angoscioso. «Un potere oscuro dimora lì, tale come non ne ho mai avvertiti prima. L'ombra di un antico orrore. L'ombra che può riunire gli spiriti dei morti...».
Sembrava che ogni parola gli costasse tutta la sua energia. Lindaen non osava nemmeno immaginare cosa potesse aver visto, ma qualsiasi cosa fosse lo aveva terrorizzato. Non pensava che un Istar potesse provare un tale timore, eppure Radagast tremava come una foglia.
«L'ho visto, Gandalf!», disse Radagast. «Dall'oscurità è giunto un negromante!».
Sembrava estremamente spaventato, così Gandalf si avvicinò e gli porse la sua pipa.
«Prova il Vecchio Tobia», gli propose, pulendo il bocchino nella manica prima di passarglielo. «Aiuta a calmare i nervi».
Radagast tirò così a lungo da diventare paonazzo, ma dopo pochi minuti stava già molto meglio e il suo sguardo era più sereno, rilassato. Emise uno sbuffo di fumo dal naso e Lindaen gli sorrise con dolcezza.
«Dunque». Gandalf lo richiamò presto all'ordine. «Un negromante. Ne sei sicuro?».
Per tutta risposta Radagast, ora molto più deciso e presente a se stesso, infilò il braccio in un grosso zaino appeso alla slitta di legno. Rovistò un momento, poi estrasse un fagotto e lo porse a Gandalf.
Lo stregone lo svolse, ma non appena capì quale fosse il contenuto si affrettò a riavvolgere la stoffa.
«Una lama Morgul», sussurrò.
«Non proviene dal mondo dei viventi», disse Radagast.
Lindaen sapeva ben poco delle armi Morgul, se non che erano state prodotte secoli prima a Minas Morgul e che si dissolvevano se colpite dalla luce diretta del sole. Tuttavia, se Gandalf era preoccupato ci doveva per forza essere una ragione valida. Si fidava ciecamente di lui.
«Questo negromante», azzardò a chiedere, «sappiamo chi sia? Cosa voglia ottenere?».
Gandalf e Radagast la guardarono in modo strano, come se sapessero qualcosa che non desideravano condividere. Lindaen fece per scusarsi, ma un ruggito lontano la precedette.
I Nani, seduti poco distante, tacquero di colpo.
«È stato un lupo?», chiese Bilbo alzandosi di scatto. «Ci sono lupi qui intorno?».
«Lupi?», replicò Bofur. «No, quello non era un lupo».
«Era un Mannaro», disse Lindaen.
Non era la prima volta che si trovava faccia a faccia con una di quelle creature, ma non era mai successo in modo così improvviso. Di solito ere lei a stanare i Mannari insieme ai ricognitori di Elrond. In quel caso, invece, le prede erano loro. Avvertì un sapore acre in bocca e una morsa allo stomaco, ma c'erano Gandalf e Radagast con loro: di certo non poteva capitare nulla di tremendo.
Per qualche minuto nessuno udì più un suono.
Poi, un secondo ruggito li fece sobbalzare: non ebbero il tempo di voltarsi che il Mannaro piombò su di loro dall'alto di un grosso masso.
Si avventò su Gloin e lo sbatté a terra, ma Thorin fu lesto a calare la sua nuova lama sulla sua testa.
Una seconda bestia fece per attaccarli, ma loro ormai erano vigili e Kili, armato di arco e frecce, gliene piantò una proprio in mezzo agli occhi.
«Mannari ricognitori», sbraitò Thorin. «Significa che c'è un branco di Orchi nelle vicinanze».
«Orchi, hai detto?», esclamò Bilbo, quasi strozzandosi per l'angoscia.
Gandalf, però, non era angosciato: era arrabbiato.
«A chi hai parlato della tua impresa, oltre che alla tua famiglia?», esclamò rivolto a Thorin.
«A nessuno», disse deciso il Nano.
«A chi l'hai detto?», urlò Gandalf.
«A nessuno, lo giuro!». Thorin era senza fiato. «In nome di Durin, che succede?».
Gandalf era così furioso che un occhio cominciò ad aprirsi e chiudersi più in fretta dell'altro.
«Ci stanno dando la caccia!». Si guardò intorno con foga. Lindaen non lo aveva mai visto così.
«Dobbiamo spostarci», disse Dwalin. «Dobbiamo andarcene da qui».
«Non possiamo!». Ori piombò tra i Nani di corsa, seguito a ruota da Bifur e Oin. «Non abbiamo i pony! Siamo andati a prenderli e non c'erano più, sono scappati!».
Bilbo guardò Lindaen, in allarme, ma lei non riusciva a vedere altri che Gandalf. Avrebbe trovato una soluzione, aveva sempre una via di fuga pronta e li avrebbe tratti d'impaccio anche stavolta.
«Li depisto io», disse Radagast a sorpresa.
Tutti si voltarono a guardarlo, contrari, ma solo Gandalf ebbe la forza di esprimere il comune pensiero: «Questi sono Mannari di Gundabad», abbaiò, «ti raggiungeranno!».
Radagast lo guardò con aria di sfida.
«E questi sono conigli di Rhosgobel!», esclamò, tronfio e soddisfatto. «Vorrei che quelli ci provassero!».
Non diede loro l'opportunità di opporsi, perché balzò sulla sua slitta e i suoi conigli grigi partirono alla carica. Lindaen li guardò sfrecciare via alla velocità di un cavallo da torneo.
«Incredibile», disse Fili.
«Muoviamoci, svelti!». Gandalf agguantò Nori per una spalla e lo spedì contro Dwalin, come a rimarcare il fatto che non avevano molto tempo.
Presero a correre, superando l'accampamento della sera precedente e la casa abbandonata e lanciandosi giù per il pendio. Tutto intorno a loro udivano gli ululati di almeno una decina di Mannari, risuonavano nella valle e tra le rocce delle montagne. Lindaen era la più veloce, ma non aveva la minima intenzione di lasciare indietro Gandalf e Bilbo, così rallentò la corsa per stare al passo con la compagnia.
La valle si tramutò in un paesaggio brullo; alla loro sinistra avevano le Montagne Nebbiose e le colline che le precedevano, alla loro destra sembrava non esserci altro che una piana d'erba bruciata dal sole e intervallata da grosse rocce.
A giudicare dai suoni che udivano – gli ululati dei Mannari e le risate di Radagast – i nemici si stavano allontanando, ma non osarono rallentare l'andatura. Lindaen si spostò per chiudere la fila, pronta ad armarsi se necessario.
Il cielo, quasi a farsi beffe della loro situazione, era diventato grigiastro, carico di umidità e appiccicaticcio.
Si fermarono di colpo quando Radagast e la sua slitta tagliarono loro la strada. Poco dopo, una carica di Orchi in groppa ad altrettanti Mannari ululanti sfrecciò al suo inseguimento. Non sembravano averli visti, così proseguirono.
«Restate uniti», disse Gandalf.
Facevano avanti e indietro tra le rocce, fermandosi e tornando sui propri passi nel tentativo di non farsi vedere dai nemici, ma Radagast cominciava a non sapere più come evitarli e finiva sempre per avvicinarsi troppo alla loro compagnia.
«Ori, no!», urlò Thorin, afferrando il più giovane per il cappuccio e ributtandolo dietro una roccia. «Indietro!».
Gandalf tornò a guidarli, incitandoli a fare presto, e Lindaen si rese conto che li stava facendo avvicinare nuovamente alle Montagne Nebbiose; tuttavia erano spostati più a sud rispetto al loro accampamento della notte prima e non c'era traccia del morbido paesaggio collinare che avevano abbandonato. Sembrava che, in quel punto, la catena montuosa piombasse nella pianura senza alcun preavviso.
«Dove ci stai portando?», fece Thorin, senza fiato.
Gandalf non rispose.
Ad un tratto li videro di nuovo, Orchi armati di tutto punto, e si gettarono dietro un masso, acquattandosi per non farsi vedere. Poi, Lindaen si rese conto con sgomento che qualcosa non stava andando per il verso giusto. C'era troppo silenzio: potevano udire Radagast in lontananza, ma intorno a loro ogni suono si era zittito.
Uno scricchiolare di polvere di roccia sopra le loro teste li avvisò del pericolo: un Orco, forse in groppa al suo Mannaro, stava risalendo il masso lentamente; doveva essere un esploratore. Non li aveva ancora visti, altrimenti li avrebbe attaccati, ma era questione di pochi momenti prima che fiutasse il loro odore o scorgesse la punta del cappello di Gandalf.
Lindaen strinse i denti. L'Orco non accennava a volersene andare e faceva su e giù sulla roccia osservando il panorama. Tutti erano tesi, in ascolto, ma la speranza che se ne tornasse sui suoi passi era totalmente vana.
Thorin, silenzioso, lanciò uno sguardo a Kili, che annuì. Il giovane Nano estrasse lentamente una freccia dalla faretra e la incoccò. Le sue dita erano veloci e silenziose. Tutti lo guardavano, attenti a non respirare nemmeno.
Kili balzò in avanti, si voltò e scagliò la sua freccia contro il Mannaro. Prima che l'Orco potesse lanciare l'allarme, con una seconda freccia Kili gli trafisse la gola e il suo corpo morto cadde a terra.
Era una creatura orrenda, come tutti i membri della sua razza. La pelle grigiastra, i corpi deformi al punto che non si sarebbe riuscito a dire se fossero alti come gli uomini o no, gli Orchi erano orgogliosi delle loro ferite e di solito le mettevano in mostra. Traevano gioia dal dolore, anche dal proprio, e impedivano alle loro cicatrici di guarire. Le loro armature sembravano appartenere al loro stesso corpo, infilzate nella loro pelle come a rimarcare che non avevano paura di niente. I loro occhi erano accesi di una luce violenta e rabbiosa.
Lindaen non provò nulla, alla vista del suo cadavere: nessuna gioia e nessun dolore.
Tuttavia il Mannaro, colpito a morte, lanciò un lamento acuto e spaventoso, stridente come un grido di dolore. Il suo ululato si propagò nella piana.
Di colpo tutto tacque, non udirono più il ruggito dei Mannari all'inseguimento di Radagast. Il lamento del Mannaro aveva rivelato a tutti la loro posizione.
«Muovetevi!», urlò Gandalf agitando il bastone e la spada. «Correte!».
Lindaen agguantò Bilbo e se lo caricò in braccio senza troppe cerimonie, poi cominciò a correre. Non avevano tempo di aspettare i suoi corti passi.
Scapparono verso le Montagne Nebbiose, le cime lontane e irraggiungibili coperte di nevischio; cominciarono a incontrare solitari pini e arbusti che si intervallavano alle pietre. Sentivano risuonare ululati e grida di incitamento tutto intorno a loro: gli Orchi li stavano braccando e le loro urla venivano da tutto intorno a loro. Stavano cercando di accerchiarli.
Gloin si bloccò di colpo e allargò le braccia, agguantando Nori e Bombur per le barbe.
«Eccoli, sono là!», gridò indicando davanti a loro.
Lindaen sgranò gli occhi: erano almeno una decina, ed era probabile che fossero solo una parte del vasto battaglione che li stava tallonando. Perché un gruppo di Orchi così ampio perdeva tanto tempo ed energie per aggredire un gruppo di viaggiatori? Erano a conoscenza del loro scopo?
«Andiamo da questa parte, presto!», muggì Gandalf, afferrandola per la spalla e spingendola a continuare a correre.
Lei non se lo fece ripetere e in breve si ritrovò in testa al gruppo. Sentiva il peso di Bilbo tra le braccia, ma non poteva lasciarlo andare o sarebbe stata la sua fine.
Poi, tutti furono costretti a fermarsi.
Erano circondati: i Mannari erano ancora lontani, ma avevano formato un cerchio perfetto intorno a loro. Lindaen lasciò scivolare Bilbo a terra ed estrasse la spada; i Nani fecero altrettanto e lo Hobbit sguainò la sua corta arma, stringendola così forte da avere le nocche esangui, ma combattere non aveva alcun senso. Erano in numero inferiore, non potevano competere.
«Ne arrivano altri!», urlò Kili.
Lindaen non si girò nemmeno a guardare.
«Si avvicinano!», gridò Bofur.
«Dov'è Gandalf?», chiese Dori con voce lamentosa.
«Ci ha abbandonati!», ruggì Dwalin.
Con un sussulto, Lindaen si guardò intorno: dello stregone sembrava non esserci traccia. Eppure era accanto a loro appena un attimo prima: non poteva essersi volatilizzato nel nulla, nemmeno una creatura potente come lui poteva farlo.
Ori prese la sua fionda e tentò coraggiosamente di colpire il Mannaro più vicino con un sassolino, ma quello si limitò a rimbalzare sul muso della bestia. Il Nano deglutì, ansioso.
«Mantenete le posizioni!», ordinò Thorin a gran voce.
Era questione di tempo: gli Orchi avevano perfino smesso di affannarsi, ormai si avvicinavano con lentezza, come un branco di predatori che si avventa sul proprio pasto. Lindaen non riusciva a credere che non ci fosse una speranza di fuga. Non potevano vincere, era troppo tardi.
Poi, la testa di Gandalf sbucò da dietro un masso, il cappello appuntito inclinato sulla testa.
«Da questa parte, stupidi!».
Poi si voltò e scomparve, come se avesse sceso una scala invisibile. Sembrava essere stato risucchiato dal terreno. Lindaen aggrottò la fronte, incredula.
«Presto, muovetevi!», fece Thorin.
I Nani si lanciarono verso il punto in cui Gandalf era sparito. Lindaen e Bilbo li seguirono.
Gli occhi di lei si spalancarono per la sorpresa: tra due massi c'era un passaggio, una specie di scivolo naturale verso il sottosuolo. Era un rifugio perfetto, nascosto a chiunque non sapesse già come trovarlo. Sarebbe bastato sparirci dentro e nessuno li avrebbe mai scovati.
Uno alla volta i Nani scivolarono giù; Thorin andò per ultimo, per essere certo che i suoi fossero tutti al sicuro. Poi Bilbo saltò, scivolando nel buio, e infine fu il turno di Lindaen.
L'impatto con la roccia le procurò un dolore al fianco; non appena fu saltata dentro cominciò a scivolare verso il basso, un percorso breve al termine del quale si ritrovò sdraiata su un pavimento di roccia ruvida e polverosa. Si rimise in piedi in fretta, la spada ancora in pugno.
Rimasero in silenzio, in attesa, le armi sguainate. Gli Orchi avrebbero seguito il loro odore fino a lì, ma almeno l'intercapedine avrebbe impedito il passaggio ai Mannari: solo gli Orchi più piccoli avrebbero potuto scendere nel passaggio, uno alla volta, e i Nani li avrebbero ammazzati man mano.
Tuttavia non venne nessuno.
Udirono un corno risuonare in lontananza, un corno il cui suono Lindaen conosceva benissimo, poi sentirono un sibilare di frecce. Dovevano essere almeno una ventina di arcieri, vista la velocità con cui si levavano le urla degli Orchi e gli uggiolati dei Mannari.
Un Orco venne colpito e il suo corpo sbalzato verso l'imboccatura del loro nascondiglio; quando rotolò a terra, una freccia spuntava dal suo cranio.
«Elfi», constatò Thorin, strappandola via e osservandone la punta intrisa di sangue nero.
«Il corno era di re Elrond», disse Lindaen. «Sono i suoi ricognitori».
Provò un'ondata di riconoscimento e devozione verso il sovrano elfico come non le era mai accaduto.
Dal fondo della grotta in cui si trovavano udirono la voce profonda di Dwalin: «Non vedo dove porta questo percorso!».
Si voltarono: il Nano stava indicando uno stretto passaggio che conduceva chissà dove. Lindaen, ansante, ripose la propria spada con un suono secco. Di certo non potevano tornare indietro, quello scivolo roccioso era impossibile da risalire, senza contare che la battaglia fuori infuriava ancora. L'unica era percorrere quel tunnel angusto.
«Lo seguiamo o no?», chiese Dwalin.
«Lo seguiamo, è chiaro!», rispose concitato Bofur.
Gandalf annuì, confermando: «La trovo una cosa saggia».
Uno alla volta si infilarono nel cunicolo. Era molto stretto e potevano passare solo in fila indiana. Inizialmente si trattava di una semplice galleria scavata nel terreno, poi si trasformò in qualcosa di completamente diverso.
Si trovarono su un sentiero. Era quasi claustrofobico, la roccia li circondava: a destra e a sinistra, due elevate pareti si stagliavano verso il cielo, così in alto che sarebbe stato impossibile scorgerli da fuori, mentre la luce del sole veniva da sopra di loro come una lama. Tecnicamente erano all'aperto, ma la sensazione era quella di venire inghiottiti e digeriti dalle profondità della terra.
Non c'erano altri passaggi, non videro vie secondarie. La scelta era tra proseguire o tornare indietro e così continuarono ad avanzare. Il caldo era soffocante e Lindaen provò la strana urgenza di uscire, di scavare una via di fuga con le unghie pur di emergere all'aria aperta.
Bombur era quello che faceva più fatica di tutti. Gli era difficile proseguire per la sua mole e in più portava sulle spalle un grosso zaino. Suo cugino Bifur, dietro di lui, doveva spesso spingerlo per disincagliarlo.
Poi Lindaen cominciò a sentire qualcosa di diverso.
L'aria cambiò. Era pulita, fresca, profumava di fiori e foglie autunnali. Nelle sue orecchie cominciò a risuonare un piacevole rumore di acqua corrente, eppure non sembravano esserci cascate o ruscelli nelle vicinanze. Più di questo, però, era dentro di sé che avvertiva il cambiamento. Si sentiva leggera, il cuore sereno. Era come svuotata delle sue preoccupazioni. Provò una grande voglia di sorridere.
«Gandalf», disse Bilbo dietro di lei, «dove siamo?».
Davanti a loro, Gandalf si fermò e li guardò entrambi dolcemente.
«Riuscite a sentirlo, vero?».
«Sì!», disse Bilbo, a metà tra l'incredulità e la gioia. «Sembra che sia... Beh, che sia magia!».
«Ed è esattamente quella», rispose Lindaen, lieta e completamente tranquilla. «Una grande e potente magia».
Ora che si trovavano lì, ora che percepiva un ambiente sicuro a così breve distanza, Lindaen avrebbe voluto correre. Perché aspettare? Una Casa Accogliente li attendeva nei pressi.
«C'è una luce, più avanti!», annunciò Dwalin in testa alla comitiva.
Bilbo guardò Lindaen. Sembrava aver capito tutto, ma che non osasse sperare che fosse vero. Lei gli rispose con un largo sorriso e proseguirono più in fretta, correndo dietro ai Nani che non vedevano l'ora di sbucare dall'altra parte – anche se Lindaen era piuttosto convinta che non avrebbero apprezzato più di tanto ciò che avrebbero visto.
Il cunicolo alla fine si allargò e uscirono.
Si ritrovarono su un sentiero che costeggiava la parete di roccia. Davanti a loro c'era uno strapiombo profondo e, da lì, potevano solamente seguire la via andando avanti. Una cascata pioveva dall'alto a pochi metri da loro: l'acqua era gelida e limpida come una lastra di vetro. Lindaen e Bilbo si fecero largo tra i Nani, rimasti a bocca aperta per la sorpresa e lo sgomento, e i loro occhi si fissarono su Imladris.
Il regno di re Elrond, l'Ultima Casa Accogliente, si trovava in una stretta valle nascosta, come una spaccatura tra le Montagne. Era avvolto in un perpetuo torpore autunnale, i tetti brillavano alla luce del sole. Gli Elfi lo avevano costruito in simbiosi con la natura e così le rocce, le cascate e i ruscelli si intervallavano perfettamente alle case, ai palazzi e alle piazze – il rumore dell'acqua corrente spadroneggiava.
Gli edifici erano eleganti, slanciati verso l'alto, le guglie che sembravano voler raggiungere il cielo. Non era un luogo costruito in piano, perciò alcuni palazzi erano più in alto o più in basso di altri. Molti saloni erano aperti, le pareti che si spalancavano in enormi finestre che non venivano mai chiuse, perché a Imladris non pioveva mai. Vista da lontano, emanava una sensazione di freschezza, calma e contemplazione.
Sotto di loro, il fiume Bruinen era nutrito dalle cascatelle e dai ruscelli che scendevano dalle Montagne Nebbiose tutto intorno a loro. Uccelli cinguettavano nell'aria, sereni.
«La valle di Imladris», disse Gandalf con soddisfazione. «Nella lingua corrente è nota con un altro nome».
«Gran Burrone», mormorò Bilbo. Lindaen lo guardò con la coda dell'occhio: sembrava rapito da ciò che aveva davanti.
Molto meno contenti erano i Nani: quasi tutti si limitarono a borbottare il proprio dissenso tra sé e sé, ma Thorin marciò a grandi passi verso Gandalf e gli si piantò davanti a gambe larghe.
«Era il tuo piano, sicuro!». Era furioso. «Trovare rifugio dal nostro nemico!».
«Non hai alcun nemico qui, Thorin Scudodiquercia», ribatté gelidamente lo stregone. «Il solo malanimo che si trova in questa valle è quello che porti tu stesso».
Il Nano non era affatto convinto.
«Pensi che gli Elfi vorranno benedire la nostra impresa?», sbottò. «Piuttosto tenteranno di fermarci!».
«Certo che lo faranno», disse Gandalf senza scomporsi. «Ma noi abbiamo domande che attendono una risposta».
Thorin, suo malgrado, fu costretto ad annuire.
Gandalf continuò: «Se vogliamo avere successo, la faccenda va trattata con tatto e rispetto. E non poca dose di fascino», aggiunse con un guizzo nello sguardo. «Ecco perché lascerai parlare me».

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