CAPITOLO VENTUNO

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Il sole stava lentamente avviandosi verso il suo declino. Quando uno degli inservienti di Thranduil venne ad accendere un braciere nella tenda, a Lindaen parve di essere lì dentro da giorni. Fuori il freddo doveva essere pungente, perché vedeva gli uomini che si stringevano nei mantelli.

Si sentì vagamente osservata; si voltò di scatto solo per vedere Bard distogliere lo sguardo in fretta e piantarlo con ostinazione verso il suolo. Lindaen sospirò, ansiosa.
Si chiese dove fosse Bilbo. Non si era ancora visto, ma lei era in attesa, perché la seconda fase del loro piano spettava a lui. Ormai era ora che si muovesse e agisse. Cominciava ad avere le guance rosse per il calore delle fiamme trattenuto dalla tenda.
Tornò a rivolgere la propria attenzione alla conversazione, i cui toni stavano divenendo sempre più accesi; aveva smesso di ascoltare quando Gandalf aveva mandato scintille dal bastone per la stizza, ma era ormai il momento di tornare vigile.
«Da quando il mio consiglio», inveì lo stregone contro il signore degli Elfi, «conta così poco? Cosa credi che io cerchi di fare?».
«Credo che tu cerchi di salvare i tuoi amici Nani», rispose con tranquillità il re, «e io ammiro la tua lealtà verso di loro, ma questo non mi dissuade dal mio percorso».
Gandalf infilò la mano in una tasca della lunga veste grigia ed estrasse una pipa, che cominciò a preparare con furia malcelata in un ostinato silenzio.
Thranduil si alzò dal suo trono e guardò le dita veloci dello stregone che preparavano il tabacco.
«Tu hai dato inizio alla cosa, Mithrandir», mormorò, parlando con voce tombale, come se si rivolgesse a qualcuno lontano nel tempo. «Mi perdonerai se la finisco io».
Lindaen, seduta su una sedia, era stufa. Quel battibecco andava avanti da ore. I Nani erano cocciuti, ma evidentemente anche gli Elfi di Bosco Atro non erano da meno. Quell'austero sovrano sarebbe stato in grado di continuare per sempre, senza mai cedere sulle sue posizioni. Se lì ci fosse stato Elrond, Thranduil non sarebbe stato così arroccato sulle sue convinzioni ottuse.
«Finire», ripeté Gandalf brontolando e scimmiottando le parole di Thranduil. «Finire che cosa? Non si può finire niente finché gli Orchi non si palesano».
Thranduil scostò una ciocca di lunghi capelli biondi da una spalla e si rivolse ad un soldato all'esterno: «Gli arcieri sono in posizione?».
«Sì, mio signore».
«Da' l'ordine», disse il re. «Se qualcosa di muove su quella Montagna, uccidetela».
Il soldato fece un saluto e sparì a passo rapido.
Lindaen, a quelle parole, si rimise diritta e strinse le mani sui braccioli della sedia. Bilbo doveva approfittare del buio, così era stato stabilito: avrebbe lasciato Erebor con il favore della notte. Se i soldati di Thranduil lo avessero visto... Lei ricordava di averlo visto maneggiare quello strano anello, quella specie di magico oggetto che sembrava in grado di renderlo invisibile, ma sarebbe stato sufficiente?
«I Nani hanno esaurito il tempo», disse il signore di Bosco Atro tornando dentro.
«Tu, arciere!». Il dito accusatore di Gandalf puntò su Bard, in piedi appoggiato a un palo con aria stanca. «Sei d'accordo su questa... questa cosa? L'oro è così importante per te? Lo compreresti con il sangue dei Nani?».
«Non si arriverà a questo», rispose Bard in tono sicuro, «è una battaglia che non possono vincere!».
«Ma questo non li fermerà!», disse una voce.
Tutti sobbalzarono e si volsero di scatto. Lindaen per poco non cadde dalla sedie: Bilbo Baggins se ne stava in piedi proprio fuori dalla tenda, sotto la neve, e li guadava con aria impavida, come se fosse stato lì da ore.
«Pensate che i Nani si arrenderanno? No, combatteranno fino alla morte per difendere ciò che è loro», concluse.
Re Thranduil lo fissò a lungo, così a lungo che Bilbo fece un passo indietro. Gandalf e Bard erano stupiti dalla sua comparsa. Le guardie, all'esterno, osservavano il nuovo arrivato come a sfidarlo a tentare di entrare.
Lindaen si portò al centro della tenda, accanto al tavolo, e disse: «L'ho invitato io. Spero non ti dispiaccia, sire Thranduil, ma trovo che gli Hobbit siano scarsamente rappresentati in questo consiglio».
Percepì un guizzo divertito nello sguardo di Bard. Lindaen, compiaciuta, non attese alcuna risposta e si voltò, invitando con un cenno Bilbo a entrare. A passo incerto e tenendo d'occhio le guardie, lo Hobbit oltrepassò la soglia. I soldati di Thranduil, non ricevendo alcun ordine, lo lasciarono passare.
Seduto sul suo trono di legno in posizione irriverente, il re elfico fissò Bilbo senza neanche sbattere le ciglia bianche.
«Se non vado errato, costui è il Mezzuomo che ha rubato le chiavi delle mie segrete sotto il naso delle mie guardie».
Bilbo assunse un'aria imbarazzata, ma per nulla pentita.
«Ehm, sì», ammise. «Mi dispiace».
Da fuori provenivano i rumori di un esercito in procinto di combattere: martelli che battevano su spade e punte di lancia, pietre che affilavano le lame, piedi di uomini in movimento.
Lindaen affiancò Bilbo, consapevole che tutti li stavano fissando. Era il momento della terza fase del loro piano, quella meno delicata e tuttavia quella più spiacevole.
«Bilbo ed io siamo fuggiti dalla Montagna per una ragione», spiegò decisa. Bard la osservava con attenzione. «È possibile risolvere i vostri problemi senza spargimenti di sangue».
Le mani di Thranduil, abbandonate sulle sue ginocchia, si strinsero a pugno, unico segno tangibile della sua rabbia improvvisa.
«E perché, se non chiedo troppo, non lo hai detto subito?», sibilò. «Sei qui con noi da ore!».
«È colpa mia», intervenne Bilbo. «Doveva aspettare che arrivassi anche io».
«Perfetto!», disse Thranduil, gli occhi che dardeggiavano. «Adesso che sei qui, cosa aspettate?».
Lindaen e Bilbo si scambiarono uno sguardo di intesa, poi lei gli diede un colpetto sulla spalla per incoraggiarlo. Lo Hobbit fece un passo in avanti e infilò una mano in tasca. Estrasse l'Arkengemma, che brillava spietata e bellissima irradiando una luce stellata, cristallina e pura. Con delicatezza, Bilbo la appoggiò sul tavolo al centro della tenda.
Lindaen si guardò intorno per osservare le reazioni dei presenti. Thranduil si alzò lentamente in piedi, incredulo e finalmente zittito, gli occhi azzurri e freddi che non riuscivano ad abbandonare la pietra; Bard, ricordando la leggenda che si tramandava nella zona, osservava incantato quella gemma che aveva tutta l'aria di illuminare la tenda per magia. Gandalf si strozzò con il tabacco per la sorpresa e per un po' il suono dei suoi colpi di tosse fu l'unico a turbare la quiete.
Non l'avrebbe mai ammesso, ma il fatto di aver messo a tacere sia Gandalf sia Thranduil diede a Lindaen un certo senso di soddisfazione onnipotente. Ora forse avrebbero smesso di bisticciare come vecchi sposi arrabbiati.
«Il cuore della Montagna...». La voce di Thranduil era rapita, lontanissima. «Il gioiello del re...».
«E vale il riscatto di un re», disse Bard.
Si avvicinò al tavolo e osò sfiorare l'Arkengemma con le dita, le sopracciglia aggrottate e il cipiglio tetro e severo. Lindaen ormai lo conosceva abbastanza da sapere che il suo sguardo nascondeva un'attenta e profonda riflessione.
«Come mai è tuo diritto donarlo?», chiese infine a Bilbo.
Lo Hobbit si strinse nelle piccole spalle e il cappotto troppo grande rischiò di inghiottirlo.
«La reclamo come mia quattordicesima parte del tesoro», rispose. «E ho deciso che voi ne avete più bisogno di me, perciò ve ne faccio dono».
«Perché questo gesto?», insistette Bard. «Non ci devi alcuna lealtà».
«Non lo sto facendo per voi», disse Bilbo con decisione.
Lindaen e Gandalf si guardarono: entrambi sapevano che aveva a cuore Thorin più di chiunque altro, forse perfino più di alcuni Nani. Lo stregone fece un mezzo sorriso.
Bard e Thranduil, però, guardavano Bilbo senza muovere un muscolo. Non si fidavano.
«So che i Nani possono essere ostinati», disse allora lui, «e capoccioni e difficili. Sono sospettosi e riservati. Hanno le maniere peggiori che si possono immaginare, ma sono anche coraggiosi. E gentili. E leali fin troppo», aggiunse in tono più malinconico. «Chiedete a Lindaen e a Gandalf e vi diranno la stessa cosa. Io... mi sono affezionato a loro e vorrei salvarli, se posso».
«E come vuoi farlo?», indagò Bard con gentilezza.
Bilbo indicò l'Arkengemma.
«Thorin tiene a questa pietra più che a ogni altra», spiegò. «In cambio della sua restituzione io credo che vi darà quello che vi spetta. Non ci sarà alcun bisogno di guerra».
Gandalf si sfilò la pipa dalla bocca.
«Ha!», esclamò. «Chi avrebbe pensato che un giorno un piccolo Hobbit della Contea avrebbe impedito un conflitto?».
Lindaen guardò Bilbo, molto lieto e lusingato dalle parole dello stregone, e non ebbe cuore di ribattere che non aveva impedito un bel nulla, non se gli Orchi di Dol Guldur erano davvero in avvicinamento. Nessuno di loro ebbe il coraggio di dirlo a voce alta e Gandalf accompagnò lo Hobbit fuori per trovargli un posto in cui dormire.
Lindaen sorrise, guardandolo andare via con l'aria contenta e sollevata.
Quando anche lei e Bard si furono congedati, l'Elfo si incamminò nella stessa direzione dell'uomo del lago senza nemmeno chiedersi se fosse benvenuta; quando infine le venne in mente che forse Bard non aveva piacere ad averla intorno ancora una volta, lo stava già seguendo.
«Sono colpito», disse lui camminando nella neve. «Tu e lo Hobbit avete complottato alle spalle di tutti quanti noi».
C'era ironia nella sua voce, non rabbia. Lindaen sorrise tra sé e sé, lusingata.
«Era l'unico modo», ammise. «Thorin si sta comportando come un pazzo, ma dentro di sé non è malvagio. Io credo che abbia solo bisogno di aiuto».
«Domani sarà tutto risolto», disse Bard. La neve aveva cominciato a fermarsi sui suoi capelli. «Oggi mi hai chiesto cosa avrei voluto fare dopo. Ebbene tu, Lindaen, che cosa farai quando tutto sarà finito?».
La domanda la colse alla sprovvista. Non ci aveva minimamente pensato. Fin da quando era partita dalla Contea non aveva riflettuto su cosa fare dopo: come al solito, aveva dato per scontato che qualcosa sarebbe accaduto, o che Gandalf si sarebbe inventato qualcos'altro, o che le sarebbe venuta voglia di andare da qualche parte. All'epoca però non poteva sapere che il loro viaggio l'avrebbe portata a sentirsi così legata agli uomini del lago. Ora, per la prima volta, le si poneva la scelta di cosa fare del proprio futuro.
Non poteva andarsene, non esattamente: aveva il dovere di aiutarli a ricostruire. Nella sua mente piombò il ricordo del fuoco di Smaug e delle grida di morte. Al contempo non era certa di essere la benvenuta. Inoltre, provava reticenza al pensiero di non essere come loro: la vita di quella gente sarebbe stata come un battito di ciglia, per lei. Non era il suo posto, anche se avrebbe voluto non fosse così.
«Non lo so», rispose infine, di colpo senza più alcuna voglia di scherzare.
Per un po' rimasero in silenzio. Bard non era quel tipo d'uomo che chiacchiera per il gusto di farlo e Lindaen non aveva molto da dire, ora che si sentiva così triste. Le strade era buie, illuminate sporadicamente da qualche falò e torce accese. Molti uomini erano coricati, avvolti in spessi mantelli e coperte, e si udivano i suoni degli addormentati: un sommesso russare, un grugnito sonnolento, qualcuno che si grattava il naso e un ragazzo che si rigirava nel sonno. Gli Elfi, sparsi in tutta la città, vegliavano taciturni.
Stavano quasi arrivando nella piazza dove si erano radunate alcune famiglie quando Bard la afferrò per un braccio e la portò con sé in un vicolo.
«Bard, che accidenti...».
«Devo farti una domanda prima che arriviamo, non voglio che gli altri sentano», rispose lui. «Lindaen, io non conosco quello stregone, quel... Mithrandir, o Gandalf, o chissà chi. Tu sì, però. Dimmi: possiamo fidarci di ciò che racconta?».
Anche nel buio di quel vicolo poco illuminato gli occhi di Bard erano sgranati, ansiosi. Aveva la bocca serrata e la stringeva per le spalle con angoscia. Chiaramente si riferiva alle funeste previsioni sugli Orchi.
Lei non poteva mentire.
«Sì», rispose. «Gandalf arriva quando e dove c'è bisogno. Molti dicono che una sua visita porti male, ma la verità è che non visiterebbe proprio nessuno se non dovesse avvertirlo di qualcosa di funesto. Cerca solo di aiutare. È ciò che fa. Perciò sì», concluse, «devi credergli».
Bard annuì lentamente, scuro in volto.
«Dunque stanno arrivando gli Orchi di Dol Guldur».
Lindaen abbassò lo sguardo.
«Temo di sì. Domani, dopodomani al massimo. Se Gandalf li ha visti nei giorni passati...».
«Se attaccassero la città, saremmo indifendibili», disse Bard con preoccupazione. «Non abbiamo mura stabili, né rifugi...».
La fissò. La gravità, la totalità di quella consapevolezza aleggiò su di loro come una nube densa. Non c'era luogo in cui scappare, né modo di difendersi.
Lindaen sospirò. Bard portava con sé un'ineluttabilità profonda, lo aveva notato fin dal primo incontro. Sembrava consapevole delle disgrazie del mondo molto più di altri membri della sua razza. Lindaen avrebbe voluto che si scostasse, le era fin troppo vicino. Poteva sentire il suo respiro a pochi centimetri dal proprio naso, il calore del suo corpo così forte e intenso.
«Bard...», cominciò, ma lui la interruppe.
«Se è possibile che domani moriremo, tanto vale che ti ponga una domanda. Se io ti chiedessi di restare», mormorò, «e combattere, che risponderesti?».
«Risponderei di sì».
«E se ti chiedessi di fermarti, non per combattere», disse ancora lui, «ma per restare con noi... allora cosa mi diresti?».
«Questa è una domanda...». Lindaen annaspò: non le capitava spesso di non sapere come rispondere. «Bard tu non puoi... Io sono un Elfo!».
«Che significa esattamente?», chiese lui. «Spiegamelo, degli Elfi io so solo ciò che ho visto commerciando...».
«Significa che quando tu sarai morto e i tuoi figli e i tuoi nipoti non saranno più a questo mondo, io sarò ancora qui!». Si accorse di aver alzato la voce e si affrettò a cambiare tono. «Credi che mi piacerebbe?».
Bard la fissò per lunghi momenti. Lindaen vedeva la luce di una fiaccola lontana che si rifletteva nel suo sguardo. Avrebbe voluto allontanarsi, lasciarlo lì con il suo viso severo e i suoi pensieri fuori luogo. Non era il momento, non sarebbe mai stato il momento per affrontare quel discorso.
Poi lui alzò la mano e la portò su una guancia di lei. La accarezzò con la punta delle dita, poi scese giù lungo il suo collo. Era una mano calda, piacevole al contatto, le dita ruvide che sfioravano con dolcezza la sua pelle. La facevano sentire sicura e al contempo la escludevano.
«Capisco», disse lui alla fine. Nella voce aveva un tono nuovo, carico di pietà. «Dicono che gli Elfi maledicano la propria immortalità, ma io mi ero sempre chiesto il perché. Non capivo come si potesse disprezzare un dono simile. Ora lo so. Non potete vivere lontani dai vostri simili, o tutta la morte e il passare del tempo vi distruggerebbero».
Gli occhi di Lindaen si riempirono di lacrime. Era ingiusto ricordarle il suo destino, era impietoso riversarle addosso parole così vere. Eppure non c'era malizia in Bard, non c'era meschinità.
«Se scegliessi di restare», disse lei lentamente, pesando ogni parola, «con te e con i tuoi figli, con la tua gente, ne morirei. Come hai detto tu, mi distruggerebbe».
«Se davvero reclamerò il nome di re di Dale, non potrò farlo da solo. Avrò bisogno di aiuto. Non sono un re, non so comportarmi come tale».
«Vuoi che resti qui solo per questo?», fece Lindaen con incredulità. La feriva perfino di più di tutto il resto.
«Voglio che resti perché non ho mai visto qualcuno come te», replicò Bard. «Ti muovi come un Elfo, con grazia, leggerezza, la terra su cui cammini sembra più bella al tuo passaggio. Eppure ami, senti e pensi in modo così... terreno, sei gentile e affettuosa e ti fai corrompere dalla bontà delle persone. Non sei come gli altri Elfi che ho conosciuto, né come le donne del lago».
Lindaen fece per andarsene, non voleva più ascoltare, ma lui la trattenne.
«Ti ho vista con Marta, con Alfrid, con Percy e sua moglie. Sei umana e passionale. E poi ti ho vista con Thranduil: padrona di te stessa, decisa, equilibrata. Non credevo fosse possibile che una sola persona riuscisse ad essere così tante cose. Non voglio perderti», aggiunse con un sospiro. «Mi dispiace, Lindaen, non l'ho fatto apposta!».
Lei non poté impedirsi di sorridere, un sorriso mesto e triste.
«Innamorarsi non è una cosa che si fa di proposito».
Bard non era divertito. La guardava senza quasi respirare e Lindaen si ritrovò ad abbassare gli occhi. Non riusciva più a sostenerne lo sguardo.
«Io non posso...». La voce di lei era greve, triste. Aveva un groppo in gola. «Bard, vorrei con tutta me stessa rimanere».
«Allora resta», disse lui.
«Non posso», ripeté lei. «È la mia natura. Ogni fibra di me mi dice che rimanere mi farebbe felice, ma...». Lindaen arretrò di un passo e lui, questa volta, non la trattenne più. «Bard, devo usare la testa, essere lungimirante. Rinunciare a te è doloroso, ma perderti quando verrà il momento sarà peggio».
Bard annuì, senza rispondere.
Calò un silenzio pesante. Lindaen sperava che lui dicesse qualcosa, perché lei non sapeva come altro spiegare i suoi sentimenti. Mai si era trovata davanti a qualcosa di così profondo e aveva la sensazione di aver detto solo cose sbagliate, di aver usato le parole più stupide e crudeli. Voleva ripetere quella conversazione da capo.
Non poteva non domandarsi cosa sarebbe successo, se avesse già conosciuto gli uomini prima di arrivare a Esgaroth. Forse avrebbe trovato Bard comune, forse non le sarebbe parso nulla di speciale.
Eppure Bard era speciale. Era coraggioso, intelligente, gentile. Era spavaldo, ma non avventato. Era il tipo di persona accanto alla quale Lindaen avrebbe voluto vivere. Ma quanto a lungo sarebbe durata? Bard doveva avere circa quarant'anni, forse di più. Quanto ancora sarebbe vissuto? Magari molto, per gli uomini, ma sarebbe stato appena un soffio di vento per gli Elfi. Lo avrebbe visto invecchiare e, un giorno, morire.
Doveva decidere se ne valeva la pena: una gioia passeggera e profonda, devastante nella sua grazia e totalità, in cambio di una sofferenza lunga secoli.
Luthien, fanciulla elfica andata in sposa al mortale Beren, aveva scelto di lasciarsi morire quando il suo amato se n'era andato. Lei non era certa che avrebbe avuto la stessa forza: Luthien era leggendaria, una principessa di elevato lignaggio a cui erano state concesse possibilità mai più sperimentate. Come poteva pretendere di imitarla?
«C'è una cosa che non capisco», disse Bard.
Desiderosa di rendere tutto più facile, si affrettò a rispondere: «Ti ascolto».
«Hai detto che ogni fibra di te ti sta dicendo di restare. Questo significa che provi dei sentimenti per me, qualcosa di forte, difficile da combattere. Non capisco come tu possa rinunciarvi».
Lindaen scosse il capo. Non poteva spiegargli in poche parole qualcosa di così grande come l'eternità e ciò che essa comportava. Non poteva dirgli che il pensiero della sua morte avrebbe gravato su di lei come uno spettro per tutta la durata della loro vita insieme. Si sarebbe svegliata ogni giorno con la consapevolezza di essere sempre più vicina alla fine. Una corsa che non poteva vincere. Che vita sarebbe stata? Chi vorrebbe qualcosa del genere?
Ma non poteva nemmeno rinunciare.
«Dammi un po' di tempo», mormorò alla fine.
«Forse non ne avremo», disse lui. «Non se gli Orchi arriveranno. Domani a quest'ora potrei essere morto, e anche tu».
Lindaen sospirò.
«Non ho una risposta adesso», replicò. «Ho paura, Bard, per la prima volta ho una grande paura perché tu e i tuoi figli siete diventati importanti». Dovette inumidirsi le labbra, secche e fredde. «Siete importanti per me. Ora ho paura di perdervi, ho paura del momento in cui non ci sarete più perché prima o poi quell'istante arriverà ed io non posso impedirlo».
Sentì una lacrima cadere sulla sua guancia. Una sola, perché non aveva nemmeno voglia di piangere.
Bard non le si avvicinò, non tentò di consolarla, ma dai suoi occhi proveniva una consapevolezza più profonda.
«Io ho sempre saputo che sarei morto». Le rivolse un tenue sorriso. «Non ho mai pensato che per qualcuno fosse diverso. Non ho fatto i conti con il fatto che per te è tutto nuovo». Mosse un passo verso di lei, le prese le mani e le strinse. «Sappi questo. I miei figli ti vogliono bene. Ed io provo per te qualcosa di intenso, qualcosa che mai avrei creduto di poter provare ancora dopo Dalia».
Doveva essere sua moglie. Lindaen non lo interruppe.
«Se deciderai di andartene, ti capiremo. Se invece vorrai restare...». Parve quasi non trovare le parole, così si scostò di nuovo. «Buonanotte, Lindaen».
La lasciò sola. Lei lo guardò andare via, il passo calmo e regolare, fino a sparire dietro un angolo. Lindaen si appoggiò al muro umido, tremando. Nessuna conversazione l'aveva mai lasciata tanto sconvolta.
Come trovare la risposta? Cosa doveva fare?
«Lindaen!».
E ora cosa c'è?, pensò furibonda.
Si voltò di scatto verso l'altro capo del vicolo: alla luce fredda della luna si stagliava la figura di Gandalf, il bastone in mano e il cappello appuntito.
Lindaen scacciò via la neve dalla propria testa, si rimise dritta e cercò di infondere nella propria andatura una sicurezza che non aveva. Parlare era l'ultima cosa che desiderava, si sentiva molto arrabbiata con se stessa per il modo becero in cui aveva gestito la situazione, ma non poteva semplicemente scappare di corsa.
«Gandalf», lo salutò. «Bilbo sta dormendo?».
«Sì, ho chiesto a quello strano e belligerante uomo con i capelli unti di trovargli un posto per la notte. Vieni con me», aggiunse, senza notare lo sguardo affranto di lei, «raccontami del drago. Non avrei mai pensato che fosse vivo, maledetto lucertolone senza scopo».
Pur senza averne alcuna voglia, Lindaen camminò con Gandalf raccontandogli dell'attacco di Smaug. Intorno a loro tutti dormivano: gli uomini assopiti avevano sopra di loro un sottile strato di nevischio. Sarebbero stati intirizziti e gelati, la mattina dopo.
Gandalf ascoltò attentamente e, quando Lindaen ebbe concluso il suo racconto, le posò una mano sulla spalla.
«Mi dispiace», ammise, «mi dispiace di averti lasciata sola con tutti quei Nani. Attraversare Bosco Atro non è stato facile, presumo».
Lindaen gli raccontò anche quello, ma era restia ad ammettere quando veramente il Bosco le fosse entrato nella mente. Aveva scoperto un lato più oscuro di sé. Quando giunse a parlare dell'inseguimento degli Orchi e del modo in cui lei, Tauriel e Legolas erano stati costretti a scacciarli da casa di Bard, Gandalf brontolò qualche imprecazione.
«Orride creature», commentò. «Beh, complimenti. Te la sei cavata molto bene».
«Grazie», rispose lei senza entusiasmo.
Gandalf le sorrise e le strinse una spalla con la mano.
«Ora devi riposare. Domani mattina, Orchi o no, ci aspetta un momento che passerà alla storia. Thorin potrebbe decidere che dopotutto non vuole saperne dell'Arkengemma e Thranduil, a quel punto, darà in escandescenze. Poi dicono che uno non si debba arrabbiare... Buonanotte».
Rapido com'era arrivato, Gandalf se ne andò e sparì nella notte nevosa. Di nuovo sola, Lindaen non aveva sonno, era troppo agitata. Vagò ancora a lungo in solitudine, nelle strade ormai coperte da qualche centimetro di neve leggera e bagnata. Si sarebbe sciolta al primo sole, ma era un chiaro segno: l'inverno era ormai arrivato. Passo dopo passo, nemmeno si accorse di essersi portata a ridosso di quello che rimaneva del palazzo di Girion.
Si bloccò, osservandolo: uno scheletro nella notte, un cadavere di pietra e ferro intervallato qua e là da arbusti secchi e spontanei, che ne avevano bucato il pavimento.
D'impulso decise di volerlo vedere. Voleva respirare in quella che un tempo era stata la sala del re di Dale, o non avrebbe mai saputo la risposta alla sua domanda.
Tutto intorno a lei era silenzioso. La neve ovattava i suoni e azzittiva chi, audacemente, era ancora sveglio. Gli Elfi tacevano nelle loro tende e nelle strade. Non l'avrebbe disturbata nessuno.
Sentiva i propri stivali scricchiolare sulla pietra innevata dei pochi gradini sbeccati. Passò dove un tempo doveva esserci stata l'entrata, forse un grosso portone di legno, ma fu come non entrare in alcun edificio dal momento che al palazzo mancava il tetto. Delle pareti non restavano molte tracce, se non qualche cumulo di grosse lastre di pietra. Doveva essere un corridoio: ciò che restava suggeriva un ambiente stretto. Lo percorse fino alla fine, trovandosi nel fantasma di un vasto salone.
Riconobbe le vetrate che aveva già visto arrivando lì con i Nani: strutture in ferro battuto, di cui rimanevano solo le parti inferiori, ma che facevano pensare a complicate opere di maestri nanici. Si chiese se i vetri, ora assenti, fossero stati trasparenti o colorati. Sperò che fossero trasparenti: a quell'altezza sulle montagne la luce del sole doveva illuminare perfino gli angoli più oscuri.
La stanza sembrava circolare e, in fondo, c'erano due troni di pietra. Di uno non rimaneva nulla se non la base, e un occhio disattento lo avrebbe scambiato forse per uno sgabello. Dell'altro, invece, restava quasi tutto, tranne un bracciolo e la parte finale dello schienale. Lindaen si avvicinò e vi passò sopra le dita bianche.
Nonostante il buio, il suo sguardo elfico riuscì a vedere il simbolo di Johanna, lo stesso simbolo che ora portava lei. Aggrottò la fronte.
«Che donna eri?», mormorò.
Una donna coraggiosa, se le canzoni non mentivano, Ilsa era stata molto chiara. Una donna non bella, ma potente. Una vera regina.
Le venne da chiedersi se avesse avuto voce in capitolo durante il breve regno di suo marito: Ilsa le aveva detto che Girion l'aveva scelta come sposa per la sua saggezza e determinazione, ma non aveva fatto cenno ad una qualche volontà da parte di Johanna. Magari non avrebbe voluto sposarsi, magari non con Girion. O magari si erano amati a lungo. Ora nessuno lo ricordava più.
Sentiva di stare in qualche modo invadendo il palazzo con la propria presenza, ma non poté impedirsi di sedere su quel trono. Appoggiò la schiena sulla dura pietra e si accomodò sul sedile freddo. Non era un trono comodo: ebbe la sensazione che fosse progettato per non esserlo, perché i sovrani di Dale potessero essere sempre vigili.
Da dove si trovava godeva di una visuale privilegiata del palazzo intorno a sé: alla sua sinistra, oltre quello che pareva un corridoio, stava la tenda di Thranduil, chiusa e illuminata dall'interno, le guardie intorno che non si curavano di lei; a destra vedeva un corridoio più grande e i resti di una scala di legno che doveva essere stata ampia, ma ora era incenerita e rotta. Non c'era traccia del piano superiore, tutto era stato spazzato via. Un palazzo piccolo, se paragonato a certi edifici.
Se avesse deciso di restare, Bard avrebbe chiesto il titolo. "Se davvero reclamerò il nome di re di Dale, non potrò farlo da solo", aveva detto.
Lei mai, nemmeno nei più remoti sogni notturni, aveva pensato di poter regnare su alcunché. Non era di stirpe reale: lei e suo fratello Lindir erano lontani cugini di Legolas attraverso la madre di lui, ma non avrebbero mai avuto diritto ad alcun trono. In effetti, erano figli e nipoti di una lunga serie di nessuno sotto questo aspetto, i loro natali non sarebbero mai entrati in alcuna cronaca. Lindaen non aveva mai desiderato comandare. A quanto pareva, non lo voleva nemmeno Bard, ma non avrebbe avuto alternative. E se lei fosse rimasta...
Sarebbe stata una buona regina? Restare con Bard non significava solo amare un mortale, ma anche prendersi la responsabilità di guidare centinaia di persone. Proteggerle, difenderle se necessario.
Ma io voglio proteggerli, si rese conto.
Era così: desiderava proteggere tutti loro. Provava un violento senso di affetto nei confronti di quelle persone, di Marta, Ilsa e Percy, di Bain e delle sue sorelle... Perfino Alfrid, che non aveva fatto altro che maltrattare tutti, le faceva provare una sensazione di obbligo. Aveva aiutato i Nani a portare il drago sulle loro teste ed era una colpa di cui non si sarebbe mai liberata: aiutare gli uomini del lago e difenderli negli anni a venire le sembrava naturale. Era in debito di decine di vite.
Essere regina non porta alcun privilegio, comprese. È un dovere da adempiere, non un piacere.
Tuttavia c'era qualcosa, un rumore di fondo nella sua testa che le impediva di accettare del tutto quel ruolo.
E Bard?
Bard avrebbe vissuto la sua vita, lunga o breve, e infine l'avrebbe lasciata sola. E lei, Lindaen, non avrebbe potuto fare niente per impedirlo: avrebbe potuto urlare, piangere o tacere, scappare o lasciarsi morire, ma non avrebbe fatto alcuna differenza. Il destino di Bard era invecchiare e andarsene.
Anche i suoi figli sarebbero invecchiati: voleva bene a Sigrid, Tilda e Bain. Non aveva mai pensato di diventare madre, non si era mai sentita dotata di istinto materno, eppure loro la facevano sentire bene. I loro occhi, quando l'avevano guardata in cerca di aiuto, l'avevano afferrata con violenza. C'erano stati momenti, durante l'attacco del drago, in cui si era sentita pronta a dare la sua vita per preservare la loro. Eppure non avevano fatto nulla per lei, si erano limitati ad essere se stessi. Era questo che significava avere figli? Amare qualcuno al punto da volerlo proteggere ad ogni costo?
Il pensiero di vederli invecchiare e poi morire la atterriva.
Poi pensò a qualcosa di diverso.
Le venne in mente che lei e Bard avrebbero dovuto lavorare insieme per ricostruire quel luogo abbandonato. Si immaginò al fianco di lui durante incontri economici e politici e quell'immagine le piacque. Poi pensò che Sigrid si sarebbe sposata, magari avrebbe avuto figli. Anche Bain e Tilda forse avrebbero costruito una famiglia tutta loro. Altri bambini. Ne aveva visti così pochi, ma le piacevano così tanto...
Si portò una mano alle labbra, con un mezzo sorriso.
Una famiglia. Non pensava che avrebbe mai voluto fermarsi in un posto, eppure adesso desiderava avere una casa dove vivere, dove trascorrere gli inverni. Un camino acceso. Bard che respirava nel buio al suo fianco. Lo scalpiccio di piedini, nuove vite che andavano avanti. Bain che diventava un uomo. Tilda che si innamorava per la prima volta.
Era tutto così normale. Era qualcosa che le era sempre parso distante, come se non facesse per lei.
Ne valeva la pena?
Aveva sperato in una rivelazione, camminando in quel luogo così ricco di storia, ma non aveva ottenuto altro che dubbi e ancora dubbi.
E adesso cosa diavolo faccio?


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