CAPITOLO VENTITRE

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Lindaen smise di riflettere nel momento in cui i suoi pugnali cozzarono contro la spada spessa e pesante di uno degli Orchi. Un colpo con la mano destra, un fendente sulla sinistra, un calcio, abbassarsi, schivare, un altro fendente, parare, parare ancora.
Un gesto automatico dopo l'altro.
Gli Elfi quando combattono prevedono e studiano. È qualcosa che scorre nel loro sangue. Sono per natura più agili e fluidi, non compiono movimenti secchi e inutili. Lindaen era sì atipica, ma era un Elfo fin nel suo profondo. Vedeva i propri capelli scuri danzare nel suo campo visivo, ma non la infastidivano. Era solo vagamente consapevole delle grida di lotta, incitamento e paura che la circondavano. Sapeva di star gridando a sua volta, ma non udiva la propria voce.
La sua mente era avvolta in una bolla, il suo cuore si muoveva danzando con le sue lame seguendo una musica fatta di morte.
Un Orco le diede un colpo molto forte con lo scudo, mandandola a schiantarsi contro una parete di pietra; l'impatto fece crollare ciò che restava del muro e Lindaen, il fiato mozzo, si rialzò appena in tempo per evitare di venire tranciata a metà dalla lama della creatura. Un ragazzo trafisse l'Orco prendendolo alle spalle, uccidendolo e salvandola, ma venne a sua volta infilzato da una picca senza che avesse la possibilità di difendersi. Più furiosa che mai, Lindaen si rigettò nella mischia.
Ricominciò a fendere, parare, schivare, colpire.
Poi udì delle voci. Erano familiari, ma non le distingueva bene nel fragore della battaglia e sapeva che una minima distrazione avrebbe potuto significare la sua morte.
Tuttavia non poté impedirsi di girare lo sguardo.
Tilda, Sigrid e Bain erano in piedi in fondo a una via in discesa, non lontani dalla piazza, e gesticolavano con foga.
«Pa'! Lindaen! Papà!».
Fu costretta a voltarsi per infilzare con una delle sue lame elfiche un Orco in arrivo: gli piantò il pugnale nella pelle morbida sotto al mento; sentì le ossa del cranio e la cartilagine che opponevano resistenza e faticò a tirare fuori l'arma.
Si voltò di nuovo: Bard era troppo concentrato, non aveva visto i suoi figli. Lindaen si lanciò verso di loro facendosi largo a spallate e fendenti e, quando sbucò nella strada, Tilda la vide e cominciò a piangere.
Non appena li ebbe raggiunti cercò di spingerli a ridosso di una casa, lontano dalla strada.
«Per i Valar», gridò concitata, «cosa accidenti ci fate ancora qui? Dovevate nascondervi!».
«State bene! Tu e papà state bene!», esclamò Sigrid.
Lindaen annuì, ansimante, sguainando di nuovo un pugnale insanguinato. Sangue nero degli Orchi gocciolava anche dalla spada che portava Bain.
«Dovete andarvene», disse ansiosa. «Vi farò da scorta fino a un edificio sicuro, poi dovrete...».
«Lindaen, attenta!», urlò Bain.
Si voltò di scatto.
Le parve di osservare la scena al rallentatore: il suo movimento per alzare il pugnale, la consapevolezza di essersi mossa troppo tardi, la paura di essere sul punto di venire ferita, forse a morte, e di non poter proteggere i ragazzi. Davanti a lei un Orco aveva la spada sollevata sulla testa, la teneva con entrambe le mani, pronto a calarla su di lei per toglierla di mezzo.
Non l'aveva sentito arrivare. Lei era un Elfo, percepiva il mondo intorno a sé e tutte le sue creature, era per natura più sensibile. Sentiva i passi prima degli altri, avvertiva istintivamente l'avanzare di una minaccia. Eppure, l'apprensione per Sigrid, Bain e Tilda l'aveva distratta. Come aveva potuto permettere che accadesse?
Non sarebbe riuscita a difendersi dall'Orco.
Poi vide la punta di una spada trapassargli il collo, dalla nuca al pomo d'Adamo.
Quando la spada si ritrasse, l'Orco cadde e dietro di lui stava in piedi Bard. Lindaen lo guardò con occhi sgranati.
«Pa'!», gridarono i suoi figli.
«Non c'è tempo», tagliò corto lui. «Andiamo!».
Afferrò Lindaen e Bain per le spalle e li spinse in avanti, poi prese le sue figlie per mano e tutti insieme cominciarono a correre, allontanandosi dal luogo della lotta.
Ovunque erano scoppiati incendi, Lindaen lo sentiva: ne percepiva l'odore e il calore delle fiamme, anche se non poteva vederli. Si udivano grida e crolli intorno ai combattenti, mentre la neve ricopriva tutto come a voler nascondere lo scempio che si stava compiendo. Di quel passo, non sarebbe rimasto nulla di Dale.
Quando furono in un angolo relativamente nascosto e sicuro, Bard si fermò.
«Ascoltate», disse con voce ferma, ma preoccupata, «dovete riunire le donne e i bambini. Portateli nel grande salone, quello dove abbiamo trovato le armi, e sprangate la porta».
I tre ragazzi lo guardarono con gli occhi colmi di paura.
«Vogliamo venire con te», pianse Tilda. «Non lasciarci soli! Vogliamo stare insieme!».
«Mostrate a vostro padre un po' di rispetto!», berciò una voce alle loro spalle.
Si voltarono verso Alfrid, che avanzava verso di loro con passo malfermo. Lindaen era allibita: nemmeno quella situazione disastrosa aveva scalfito la sua aria da saccente villano.
«Lascia fare a me, signore», fece Alfrid untuosamente. Afferrò Tilda per un braccio e la costrinse a fare qualche passo. «Avete sentito! Forza!». Acchiappò Sigrid e la spedì accanto a sua sorella. «Andiamo al grande salone!».
In condizioni normali, Bard avrebbe probabilmente picchiato Alfrid per il modo in cui aveva strattonato le sue figlie, ma quella non era una situazione normale.
«Alfrid!», lo richiamò con urgenza nella voce. Quello si volse con aria arcigna. «Donne e bambini soltanto. Mi serve che gli uomini combattano». Prese la spada dalle mani di Bain e gliela passò. «Fai in modo di tornare».
Lui strinse l'elsa al petto, ma i suoi occhi erano più terrorizzati che determinati.
«Li porto al sicuro, signore», asserì. «La mia spada è ai tuoi comandi».
In quel momento, un gruppo di Orchi cominciò a farsi strada poco distante da loro. Stavano facendo arretrare gli uomini. Alfrid non aspettò un altro momento e si scapicollò via insieme a Sigrid e Tilda.
«Bain, devi andare anche tu», disse Bard. «Va' da loro».
«Bene», obbedì il ragazzo, correndo alle calcagna di Alfrid.
Lindaen fece per ributtarsi nella mischia, ma Bard la afferrò per un braccio e la trattenne.
«No, ferma», decise. «Vai anche tu».
«Cosa? Oh, andiamo». Lindaen non se l'aspettava. «Sono capacissima di dare una mano, vi servono tutte le braccia possibili. Non puoi essere serio!».
«Hanno bisogno di qualcuno che li protegga». Bard ammiccò nella direzione in cui i suoi figli erano spariti, ma Lindaen sapeva che stava pensando a tutti i bambini e alle donne rifugiate. «Rimani con loro. Trova Marta, è una donna forte. Barricatevi dentro, non permettete a nessuno di entrare. Se gli Orchi arrivano, non rendere loro la vita facile».
«Se gli Orchi arrivano, significa che sei morto!», protestò Lindaen. «Che siete tutti morti!».
Bard assunse un'espressione grave, ma non cedette.
«Un motivo in più per mandarti via da qui».
Non aggiunse altro e la spinse lungo la strada, a pochi passi da lui, poi si voltò e, urlando per darsi coraggio, quasi scomparve nella nube di polvere e neve che gli Orchi stavano sollevando.
«Maledizione, Bard!», urlò, ma non era certa che l'avesse sentita. Sbatté un piede a terra.
Non era affatto una buona idea, ma che altro poteva fare?
Si voltò, raccolse il vestito tra le mani perché non la intralciasse e cominciò a correre. Raggiunse Alfrid e Bain, intenti a condurre le donne dentro l'armeria.
«Precedimi, nonnetta!», disse Alfrid con quella sua voce sguaiata afferrando una donna anziana per un gomito e dandole una spintarella.
«Marta!», gridò Lindaen. «Marta!».
«Sono qui, ragazza!».
La donna del lago aveva i lunghi capelli spettinati e un taglio su una tempia, ma le guance erano rosse per la foga di combattere e gli occhi brillavano.
«Aiutami a trovare qualcosa per sprangare le porte», disse lei cominciando a guardarsi intorno.
Vide Sigrid aiutare un uomo che aveva perduto una gamba a raggiungere la sicurezza della sala. Bain correva da una parte all'altra per dire a tutti di accorrere all'armeria.
Alfrid, valutando di aver fatto abbastanza, pensò di dedicarsi a mettere in salvo la sua persona e cominciò a urlare: «Levatevi di mezzo! Abbandonate gli storpi!», spingendo via chi gli ostruiva la via di fuga. Non sarebbe mai tornato da Bard.
«Le assi?», chiese Marta. «Quelle che ci sono laggiù?». Indicò un mucchio di assi ammonticchiate da una parte: sembravano prodotte di fresco, già pronte per venire impiegate in qualche progetto: non erano lì da prima dell'arrivo di Smaug, forse erano arrivate da Bosco Atro per la ricostruzione.
«Per cominciare andranno bene», decise Lindaen.
Stavano cominciando a portarne dentro una, tenendola ciascuna da un'estremità, quando un ragazzo arrivò di corsa urlando: «Gli Elfi sono in città! Ci aiuteranno!».
Se Thranduil aveva deciso di spostarsi in città con i suoi soldati, le ipotesi potevano essere solo due: la minaccia nella piana davanti alla Montagna era già stata sventata, oppure era stato costretto a ripiegare. Lindaen propendeva per la seconda. Nel qual caso, che ne era dei Nani?
Quando finalmente riuscirono a radunare tutti all'interno, Bain e altre due donne vennero ad aiutarle a piazzare le assi contro le porte, bloccandole dall'interno.
«Sono di legno», disse Marta. «Basterà un po' di fuoco per buttarle giù».
«Se riusciranno ad arrivare fin qui», disse Lindaen, «le porte che bruciano saranno l'ultimo dei nostri pensieri».
Guardò con scarso entusiasmo il loro improvvisato fermaporta. Era solido, ma era provvisorio.
Si voltò per gettare uno sguardo alla sala. Sentiva Marta e Bain accanto a sé, che la fissavano in attesa. Lei, però, non trovava parole di conforto o incoraggiamento. Non c'era nulla che potesse dire: erano topi in trappola. Sarebbe stata questione di tempo, prima che gli Orchi sbaragliassero tutti e piombassero su di loro. Erano numericamente inferiori, meno equipaggiati e meno esperti. Anche Bard, che sapeva come usare una spada meglio di molti uomini di Dale, aveva passato più tempo su una barca che su un campo di battaglia. Nessuno di loro era un soldato esperto.
Molte ragazze, soprattutto le più piccole, piangevano. Una giovane madre strinse al seno un neonato urlante, forse l'unico salvatosi dal drago. Un gruppetto di bambini, tutti orfani, fissava Lindaen con occhi enormi e acquosi.
Non aveva studiato per questo. Non era preparata.
La luce filtrava dalle finestre in alto, da cui entrava un po' di neve. Non accesero alcun braciere né torce. Una donna anziana, seduta su un masso, prese alcune bambine accanto a sé e cominciò a distrarle parlando di come gli uomini là fuori le avrebbero salvate. In fondo, una grossa rastrelliera era piena delle vecchie armi che gli uomini del lago avevano abbandonato in cambio di quelle elfiche: aste di legno con arpioni, uncini e martelli montati in cima. Non l'ideale per la difesa da un assedio.
«Non ci siamo ancora ripresi dall'attacco alle nostre case», commentò Marta, «ed ora ne subiamo un altro. Se è così che deve andare, ho cambiato idea: l'oro dei Nani non lo voglio più».
«Bain», disse Lindaen. «Vai dalle tue sorelle. Sta' con loro, tra tanti sconosciuti hanno bisogno di avere accanto con qualcuno che amano».
Il ragazzo annuì, spettinato e dal volto sporco, e corse a mescolarsi alla folla.
Non appena fu abbastanza lontano, Lindaen si avvicinò a Marta e disse: «Questo non è un rifugio, è una trappola».
La donna annuì.
«Che suggerisci?».
Lei aveva un'idea, ma non era certa che i rifugiati sarebbero stati in grado di metterla in pratica. Guardò Marta stringendo le labbra e soppesò adeguatamente le parole.
«Non lo so», ammise. «Restare qui significa solamente ritardare l'inevitabile. Bard mi ha chiesto di proteggervi, ma difenderò dei cadaveri se non troviamo un'alternativa. Non voglio chiedere nulla», aggiunse, «a nessuno di voi. Io andrò fuori per aiutarli. Però ho bisogno di aiuto». Guardò verso la porta, oltre la quale si sentivano distintamente i suoni di una lotta lontana. «Non posso farlo da sola».
Marta annuì lentamente, gli occhi ridotti a due fessure. Il suo viso rovinato dal sole si fece ancora più rosso per la riflessione.
«Capito», disse. Poi si voltò ed esclamò a gran voce: «Io dico di stare con i nostri uomini per la vita e per la morte!».
Nella sala calò il silenzio. Tutti guardavano Marta, chi ispirato e chi atterrito al pensiero di uscire.
«Non fate quelle facce!», esclamò Marta. «Siamo donne del lago, non madamigelle in difficoltà! I nostri uomini stanno donando il loro sangue, non voglio essere da meno!».
«Sì, hai ragione», disse una ragazzina poco convinta.
La donna anziana che consolava le bambine aggiunse: «Ben detto, Marta!».
«E con cosa?», fece la madre del neonato con scetticismo. «Con cosa dovremmo combattere?».
Lindaen fece un passo avanti.
«Con quelle», disse indicando la rastrelliera piena di armi. «Non siete abituate a portare spade e lance, sareste sbilanciate se ne avessimo, ma quelli sono attrezzi che avete sempre maneggiato. Vi saranno più utili di ciò che non sapreste usare. Chi non vuole armarsi con quelle prenda pietre, bastoni, sassi, qualsiasi cosa possa essere scagliata sui nemici».
«Che ne sarà dei bambini?», disse una vecchina piccola e incartapecorita.
«Resteranno qui», decise Lindaen, «insieme a tutte coloro che non se la sentono di venire con noi. Nessuno vi costringerà a fare nulla contro la vostra volontà. Forza, chi vuole seguirci si alzi in piedi e si prepari».
Lei e Marta si separarono e si mossero nella folla. Si diffuse un intenso rumoreggiare mentre le più coraggiose si alzavano in fretta, le incerte riflettevano e le madri affidavano i propri figli a chi invece voleva restare. Lindaen attraversò la sala e raggiunse i figli di Bard.
«Veniamo anche noi!», dissero subito.
«Neanche per sogno», rispose lei, calma. «Prima di tutto, se mai scoprisse che vi ho fatti uscire, vostro padre mi strozzerebbe con le sue mani e non ci tengo, grazie».
Tilda rise e Sigrid e Bain abbozzarono un sorriso.
«Inoltre», continuò lei, «ho bisogno che restiate. Bain, tu hai usato una spada, sei giovane. Prendi questo».
Tolse dal fodero uno dei propri pugnali elfici, la lama ricurva e finemente lavorata ora sporca di nero. Il ragazzo fissò l'arma con gli occhi sgranati e scosse il capo.
«Non posso».
«Puoi e devi», decise lei, appoggiandola a terra. «Io mi aggiusterò, troverò qualcos'altro, ma tu devi difendere le tue sorelle. Sigrid, anche tu mi sei utile qui: devi fare in modo di contenere l'agitazione. So che chi rimarrà indietro sarà più preoccupato che mai, ma devi fare in modo che i bambini restino calmi. Il panico non fa bene a nessuno».
«D'accordo», disse la ragazza, le labbra serrate e le guance pallide.
Lindaen si alzò. Doveva lasciarli, o non avrebbe più avuto il coraggio di andarsene senza di loro.
«Ci vediamo presto», promise, chiedendosi se sarebbe stata in grado di mantenere la parola.
Quando si fu allontanata, fu lieta di essersi mostrata più spavalda e ottimista di quanto non fosse in realtà. Dentro di sé era piuttosto certa che non avrebbero visto la fine di quel giorno, nessuno di loro.
Si chiese se Bard fosse vivo. Era fuori, da qualche parte. Avrebbe ritrovato il suo volto acceso di vita o pallido, riverso a terra? Il solo pensiero ravvivò la sua determinazione. Avrebbe ucciso con le sue mani fino all'ultimo Orco per trovarlo.
«Vieni con noi, cara», disse la voce calda di Ilsa a pochi passi da lei.
«No, no, no!», protestò una persona dal tono fin troppo acuto, come un falsetto esagerato. «Lascia stare una povera signora anziana...».
Lindaen si voltò, incuriosita.
«Non c'è nulla di cui aver paura», disse dolcemente Ilsa.
«Ho detto levati!». La voce acuta si tramutò in un ruggito molto mascolino.
Marta sopraggiunse e strappò via la coperta dalle spalle della donna, scoprendole il capo e rivelando il volto cadaverico di Alfrid. Lindaen trattenne una risata: non sapeva dove li avesse presi, ma aveva indossato abiti da donna per passare inosservato. Aveva perfino una cuffietta sulla testa.
«Alfrid Leccasputo!». La voce di Marta trasudava disprezzo. «Sei un codardo».
«Codardo?», fece lui. «Non tutti gli uomini mettono coraggiosamente un corsetto!».
«Tu non sei un uomo», replicò Marta. «Sei una faina!».
«Non importa», intervenne Lindaen in tono brusco e carico di enfasi. «Non abbiamo tempo, dobbiamo andare adesso. Avete tutte un'arma?».
Le donne che avevano deciso di combattere le si fecero intorno e annuirono. Tra le mani avevano martelli, falcetti, una aveva perfino una grossa sega.
«Bene». Lindaen salì in piedi sopra una cassa di legno vuota e scostò i capelli dal viso. «Non vi mentirò: non sarà piacevole. Nessuno, uomo o donna, dovrebbe essere costretto ad affrontare ciò che vivrete oggi. So che avete paura, so che vorreste essere ovunque tranne che qui, ma se oggi non combattiamo, non resterà nulla di noi, né della vostra gente. Siete pronte?».
Le donne, silenziose, annuirono.
«Andiamo», disse lei. «Bain, richiudete la porta dietro di noi e non muovetevi se non siamo tornate!».
Bain e un paio di ragazzini smontarono le assi dalla porta e Lindaen la spalancò. Le donne cominciarono subito a correre fuori, urlando più per la paura che per la follia della battaglia, e lei le seguì sguainando l'unico pugnale che le era rimasto.
L'impatto con gli Orchi, poche strade più in là, fu tanto traumatico quanto improvviso. Nessuna di loro aveva mai combattuto prima e si lanciarono sui nemici in maniera disordinata. Ilsa, accanto a Lindaen, più che altro caracollò loro addosso con tutto il suo considerevole peso agitando il martello che aveva in mano e urlando come una forsennata.
Lindaen cominciò a menare fendenti a destra e sinistra e, non appena le fu possibile, recuperò una spada orchesca da uno dei nemici che aveva ucciso. Era più pesante e meno maneggevole di quelle a cui era abituata, ma non poteva difendersi solo con ciò che aveva.
Presto perse di vista le altre, ciascuna impegnata a combattere. Erano spaventate, ma Lindaen conosceva bene la sensazione di impotenza che si prova nel venire lasciati indietro: la paura della morte era preferibile al dolore e alla frustrazione del non sapere dov'erano i propri cari.
Continuò a farsi strada in quella massa di corpi grossi e pesanti, rallentando quando doveva e correndo se poteva. Doveva trovare Bard. Era uscita per quello e non le interessava altro. Superò un angolo e si trovò faccia a faccia con un Orco solitario, armato di arco.
Si abbassò in tempo per evitare la freccia diretta alla sua faccia, scivolò sui ciottoli e si raddrizzò in tempo per tranciargli il brutto muso a metà. Cercò di impossessarsi del suo arco e delle frecce di ferro, ma scoprì che erano un carico troppo pesante da portare, così si lasciò alle spalle il cadavere e proseguì di corsa.
Ovunque c'erano corpi senza vita: uomini caduti nella battaglia, ragazzi e donne che non erano riusciti a rifugiarsi nell'armeria, Orchi resi ancora più grotteschi dalla morte. Lindaen si sforzò di ignorarli, ma il pensiero di quanti erano caduti faceva paura. Ogni pochi metri doveva scavalcarne uno.
Sbucò in un piccolo crocevia e, da dietro un angolo, un Orco la colpì di taglio all'addome. Il pettorale di Johanna la protesse, ma il simbolo della corona di pino si scheggiò e Lindaen rimase senza fiato per il colpo, venendo spinta all'indietro e trovandosi con il sedere per terra.
Aveva perso la spada dalle mani, le era volata via, ma Lindaen riuscì a fermare il suo assalitore con il proprio pugnale elfico, piantandoglielo sotto l'ascella quando le fu addosso; sostituì l'arma perduta con un coltellaccio orchesco prima di proseguire di nuovo.
Trovò Bard su uno dei bastioni, proprio accanto alla merlatura, ingaggiato in un corpo a corpo con un Orco particolarmente alto e grosso. Perdeva sangue da un braccio, ma era determinato a non soccombere. Non aveva più la spada e cercava di deviare i colpi del suo assalitore impugnando un arco con entrambe le mani. Il legno era trattato da mani elfiche ed era resistente, ma non l'avrebbe protetto per sempre.
Lindaen si gettò tra lui e l'Orco senza pensarci due volte e gli piantò il coltellaccio in una coscia muscolosa; il grosso nemico urlò di dolore e Lindaen lo finì con un fendente alla gola. Il sangue di lui le inzaccherò i capelli, ma Lindaen ignorò il senso di disgusto e recuperò le proprie armi.
«Che diamine ci fai qui?», esclamò Bard. «Cosa ti è saltato in mente?».
«Non sono sola», rispose lei senza scomporsi. «Molte di noi non avevano una gran voglia di restare al chiuso in un'armeria in attesa di venire fatte a pezzi, non ti pare?».
«Le hai portate fuori? Tu sei matta!». Il volto di Bard era congestionato e furioso.
«Faranno vedere a queste orride creature di cosa sono capaci». Lindaen lo guardò con serietà. «I ragazzi sono al sicuro, non ho permesso loro di uscire. Li difenderemo. E comunque non urlarmi contro!».
Rinunciando a qualunque protesta, Bard scosse il capo.
«Immagino che siate più utili qui che dentro», ammise. «Ora dobbiamo...».
«Un Troll!», gridò lei facendo un salto all'indietro.
Bard si voltò e vide l'enorme testa grigia di un Troll spuntare da oltre la muraglia, a pochi metri da loro. Con una grossa mano cercava di aiutarsi a scavalcare il muro.
Poi, tra loro e il Troll si frappose una strana figura infagottata, che non appena ebbe scorto il pericolo cominciò a urlare. Quando si voltò per fuggire, Lindaen distinse Alfrid e i suoi denti giallastri sotto il cumulo di vestiti.
Bard sollevò l'arco, raccolse una freccia dal terreno e la scoccò. Lindaen la vide passare vicinissima all'orecchio di Alfrid e andare a conficcarsi profondamente nella testa del bestione, proprio in mezzo agli occhi. Probabilmente non sarebbe stato sufficiente a ucciderlo, ma gli fece perdere l'equilibrio e il Troll precipitò di nuovo giù.
Alfrid si gettò a terra e, da dentro il suo corsetto, emersero manciate e manciate di monete d'oro. Lindaen e Bard lo guardarono cercare di rimettersele a posto, riempiendo lo spazio vuoto al posto del seno. Erano monete naniche: doveva averle trovate nascoste chissà dove.
«Su, in piedi!», esclamò Bard.
«Sta' lontano da me!», rispose Alfrid cacciando monete su monete ovunque poteva tra i vestiti. «Io non prendo ordini da te. La gente si fidava di te, ti stava a sentire. Il manto del governatore era lì da prendere! E tu hai gettato via tutto! Per cosa?». Alfrid si rialzò, l'enorme seno fatto di monete che si agitava sotto lo scialle e il grosso sedere imbottito di strati di abiti che ondeggiava. Si portò le mani sui fianchi come una grassa matrona arrabbiata.
Aveva un aspetto ridicolo, ma più assurdo ancora era il suo modo di ragionare. Lindaen non riusciva a credere che Bard e Alfrid facessero entrambi parte della razza degli uomini.
«Per la mia famiglia», rispose Bard, «ecco per cosa».
«Per favore...», sbottò Alfrid.
Si voltò in tutta la sua boria e mosse qualche passo tra le macerie, ma Bard lo richiamò.
«Alfrid?».
Lui si volse, sospettoso.
«Ti si vede la sottoveste».
Inferocito e rosso in viso, Alfrid raccattò le sottane e corse via, tintinnando come un portamonete.
«Sciocco imbecille», commentò Lindaen, dimenticandolo in fretta. «Bard, hai visto Gandalf e Bilbo?».
«Non so del Mezzuomo, ma ho visto lo stregone combattere dalle parti della giostra divelta».
Lindaen lo guardò a lungo, restia ad abbandonarlo, ma ora che lo sapeva vivo e incolume provava l'urgenza di cercare i propri amici. Doveva trovare Bilbo, doveva sapere se stava bene.
Lui parve capire.
«Vai», disse annuendo, «se non ci ammazzano prima, ci vediamo più tardi».
Lindaen gli sorrise e partì di corsa. Non ricordava esattamente dove fosse la giostra in rovina, ma rammentava di averla vista non lontana dalla porta meridionale della città, quella da cui si scendeva verso il lago, così percorse i vicoli in discesa, combattendo quando si trovava di fronte un Orco e proseguendo a suon di colpi. Una freccia le passò sibilando accanto al braccio, ferendola di striscio sotto la spalla e tracciando una linea di sangue sul vestito, ma era una ferita lieve in confronto a quelle che trovava sui corpi che superava.
Raggiunse finalmente lo spiazzo con la giostra: non c'era più traccia del gioco, perché un enorme Troll armato di mazza l'aveva usato come bersaglio e aveva finito di distruggerla.
Ora, la grande creatura stava fronteggiando Gandalf, così piccolo rispetto a lui.
Lindaen si fermò, in attesa di vederlo usare il bastone per scagliargli contro un fascio di luce splendente e letale come era accaduto con i Goblin delle Montagne Nebbiose, ma per quanto Gandalf agitasse la sua arma la pietra in cima non faceva che emettere semplici scricchiolii.
Il Troll calò la sua mazza su di lui, ma Gandalf riuscì a schivarlo. Pronunciando parole di potere, lo stregone tentò di nuovo di usare il bastone, ma senza esito.
Lindaen avvertì qualcosa correrle contro, così si voltò e infilò il coltellaccio orchesco nella faccia di un Orco così in profondità da non essere più in grado di estrarlo. Gli strappò dalle mani la lancia appuntita e si voltò.
Gandalf era in difficoltà, continuava a schivare i colpi del Troll, ma il suo bastone non collaborava. Lindaen sollevò la lancia e, correndo verso di loro per darsi più slancio, spiccò un balzo verso il Troll: urlando, quando gli fu sopra gli conficcò la punta dell'arma nella pelle sottile del collo e ne vide spuntare l'estremità dall'altra parte.
Con un lamento, il Troll crollò trascinandosela dietro, la sbatté a terra e la schiacciò con una delle sue grosse braccia, impedendole di muoversi, mozzandole il respiro.
Gandalf corse da lei, spinse via il braccio ormai morto e la aiutò a rimettersi in piedi. Ora Lindaen sanguinava dalla bocca: si ripulì con le mani e guardò lo stregone.
«Cos'ha il tuo bastone che non va?», chiese bruscamente.
«Non è mio», si giustificò lui con tono offeso. «Me lo ha dato Radagast quando mi è venuto a salvare a Dol Guldur insieme a Saruman, Galadriel e Elrond».
Lindaen aggrottò la fronte.
«Direi che questa storia me la devi raccontare», commentò, «ma rimandiamo a un'altra volta».
«Ben detto! Forza, diamoci una mossa».
Insieme corsero in avanti, verso i bastioni occidentali, in tempo per vedere un gruppo di arcieri riempire di frecce un Troll come fosse un puntaspilli. Quello si lasciò cadere all'indietro, schiacciando gli Orchi ai quali stava tentando di aprire la strada.
«Oh, oh!», disse Gandalf. «Potremmo ancora uscirne vivi!».
«Gandalf! Lindaen!».
Si voltarono e videro il piccolo e impavido Bilbo Baggins correre verso di loro, la sua corta spada blu in mano. Era vivo: contro ogni aspettativa, un indifeso Hobbit aveva superato una battaglia contro un esercito di Orchi.
Lo raggiunsero sui bastioni e seguirono il suo sguardo, che vagava lontano, verso ovest, in direzione di Collecorvo. Là, lungo un sentiero montano, quattro Nani in groppa ad altrettante capre da combattimento si stavano facendo strada verso Azog il Profanatore e i suoi corni da guerra.
«È Thorin», disse Bilbo.
«E Fili e Kili», fece Lindaen.
«Con Dwalin», concluse Gandalf.
«Dunque sono usciti dalla Montagna», disse Lindaen. Non poté non abbandonarsi a un sorriso. «Thorin è rinsavito!».
«E porta con sé i suoi migliori guerrieri», disse Gandalf, compiaciuto, gli occhi che brillavano.
Bilbo, senza capire, chiese: «Per fare cosa?».
«Tagliare la testa al serpente», rispose lo stregone.
Prima che uno di loro potesse aggiungere altro udirono alle loro spalle un suono nuovo, diverso: in mezzo a uomini, Elfi e Orchi qualcuno galoppava nelle vie.
Si voltarono e videro un cavallo bianco arrestarsi poco più in là. Ne scesero due Elfi che Lindaen conosceva molto bene. Si liberarono senza fatica degli Orchi che li avevano accerchiati e infine uno di loro li vide.
«Gandalf!», li chiamò. «Lindaen!».
«Legolas», disse Gandalf visibilmente sollevato. «Legolas Verdefoglia!».
«Tauriel!», esclamò Lindaen.
I due Elfi si avvicinarono, ma i loro volti non promettevano aiuto: preannunciavano una sventura.
«C'è una seconda armata», disse Legolas.
«Cosa?». Gandalf fu preso alla sprovvista.
«Bolg guida una forza di Orchi di Gundabad», disse lui, «sono quasi su di noi».
Lindaen deglutì. Tutti conoscevano Gundabad: una vetta all'estremo nord delle Montagne Nebbiose, antica roccaforte del popolo di Durin poi conquistata dagli Orchi. Il luogo dove la madre di Legolas era morta.
«Era il loro piano fin dall'inizio...». Gandalf emise un lungo sospiro. «Azog impegna le nostre forze, poi Bolg sopraggiunge dal nord...».
Bilbo si fece largo tra loro, ormai stanco di sentirli parlare di cose che non conosceva, ed esclamò: «Il nord! Dov'è il nord, esattamente? Dove rispetto a noi?».
Gandalf lo guardò tristemente.
«Collecorvo», rispose.
«Ma...». Bilbo balbettò. «Ma a Collecorvo ci sta andando Thorin! E Fili, e Kili! Sono tutti là!».
Lindaen vide Tauriel impallidire e volgere lo sguardo a nord. Lassù, la neve e il freddo avevano ormai preso le vette dei monti e Collecorvo non si vedeva più, avvolto in una coltre gelata e nebbiosa. Bolg sarebbe piombato sui Nani e li avrebbe uccisi senza che lo sentissero arrivare.
Il suono di un corno squarciò l'aria, facendoli sobbalzare, ma non era un corno degli Orchi: era quello usato da Thranduil. Corsero tutti nella direzione da cui era venuto il segnale, non aspettandosi nulla di buono.
Videro il sovrano in piedi al centro di una piccola piazza. Tutto intorno a lui, i morti a terra erano soldati elfici. Il re di Bosco Atro guardava i corpi della sua gente con gli occhi ghiacciati e spenti, quasi velati dal lutto. La corona splendeva sul suo capo di una luce invernale, grigia. Non sembrava in sé.
«Mio signore», disse Gandalf, «invia le tue forze a Collecorvo! I Nani stanno per essere sopraffatti, Thorin deve essere avvertito».
«Avvertilo tu, se vuoi», rispose Thranduil. «Ho speso sufficiente sangue elfico in difesa di questa maledetta terra, ma ora non più».
Lindaen arretrò di un passo. Se gli Elfi si ritiravano, non avrebbero mai vinto. Bard e i suoi figli sarebbero morti, così come i Nani, Bilbo, e anche lei. E se nessuno avesse avvisato Thorin...
«Vado io», disse Bilbo.
Tutti lo fissarono e lo Hobbit arrossì, ma non abbassò lo sguardo. Lindaen non lo aveva mai visto così deciso.
«Non essere ridicolo», abbaiò Gandalf. «Non ce la farai mai».
«Perché no?», fece lui.
«Perché ti vedranno arrivare», replicò lo stregone con poco tatto, «e ti uccideranno».
«Non lo faranno», disse semplicemente Bilbo. Lindaen sapeva che in qualche modo aveva ragione. «Non mi vedranno».
«È fuori questione», decise lui. «Non lo permetterò!».
Bilbo lo guardò con dolcezza, ma non cedette.
«Non ti sto chiedendo il permesso, Gandalf».
A quel punto nessuno disse più nulla e Bilbo, prima di cambiare idea, corse via. Quando fu sparito oltre un edificio, Lindaen provò la spiacevole sensazione di aver appena perso qualcosa di grande valore.
Quando si voltarono, Thranduil se n'era andato da un pezzo. Anche di Tauriel e Legolas non c'era traccia, ma Lindaen era piuttosto certa che avrebbero fatto il possibile per convincere il re a restare. Nelle strade limitrofe vedevano gli Elfi superstiti allontanarsi con lentezza, senza fretta, ma senza voltarsi indietro. Avrebbero lasciato la battaglia prima di subire altre perdite. Li capiva.
«Devo avvertire Bard», disse con voce mesta. «Devo dirgli di Bolg e dei suoi, deve sapere cosa sta arrivando».
Gandalf annuì. Erano rimasti soli.
«Vai», borbottò.
Lindaen corse via. Mentre si muoveva rapida tra le strade, notò che gli Orchi di Azog erano in numero ridotto: non erano più la forza predominante, in qualche modo uomini ed Elfi insieme ne avevano uccisi più del previsto. Anche i Troll sembravano dispersi. Tuttavia, se una seconda ondata si fosse riversata sulla città, non avrebbero resistito, non dopo che molti erano morti e senza gli Elfi.
«Bard!», continuò a chiamare. «Bard, dove sei?».
Si sentiva sempre più preoccupata. In qualsiasi momento avrebbe potuto essere soverchiato e restare ucciso. E se avesse trovato il suo corpo tra quello dei caduti? No, non doveva pensarlo, non doveva abbandonarsi a quel tipo di ipotesi.
Incrociava sempre più feriti tra i cadaveri. Uomini e donne che si tamponavano le ferite e cercavano di aiutarsi l'un l'altro a bendarsi o a rimettersi in piedi, o che semplicemente aspettavano una morte inevitabile.
Fu allora che quasi inciampò nel corpo di Ilsa.
Lindaen si bloccò, attonita.
Era sdraiata a terra, gli occhi spalancati. Un lungo squarcio le attraversava il torso, dall'anca verso la spalla. Il suo sangue si stava rapprendendo e i suoi vestiti erano già pieni di neve. Il suo volto paffuto era immobile in un'espressione neutra: non era né spaventata né triste, come se dopotutto nulla le importasse.
Non udiva più alcun suono, c'era solo un pesante silenzio intorno a lei. Lindaen scrutò l'amica a bocca aperta, senza spiegarsi come fosse potuto accadere.
Da quando aveva iniziato quel viaggio aveva visto tanta morte, ma non aveva previsto un dolore simile.
C'era qualcosa di semplicemente troppo forte in quell'idea. Ilsa non poteva essere morta, come era potuto capitare?
Rimase immobile a fissarla per quelle che parvero ore. Intorno a lei c'era movimento, ma non lo percepiva. Ilsa aveva i capelli sporchi di fuliggine, doveva essere passata vicino a uno degli incendi. Il sangue aveva schizzato il mento e l'angolo della bocca, rendendola così simile a un sorriso storto.
Lindaen voleva allontanarsi, voleva guardare oltre, non voleva più vedere, ma non riusciva ad abbassare lo sguardo. Non riusciva nemmeno a sbattere le palpebre.
Non capiva il perché.
Che cosa stupida, creare gli uomini, pensò irrazionalmente. La sua mente volò ai Valar e ai loro piani per il mondo. Devono essere senza cuore. Perché creare qualcosa che muore?
Sentiva che avrebbe dovuto piangere: era ciò che la gente faceva, versava lacrime, ma lei non ne aveva. I suoi occhi erano completamente asciutti. Eppure era così che la gente si sfogava, no? Era così che onoravano i morti.
Provò vergogna per non essere nemmeno in grado di piangere Ilsa, ma non ci riusciva. Sembrava bloccata.
«Lindaen», disse una voce alle sue spalle. Una mano pesante le strinse una spalla e la costrinse dolcemente a voltarsi. «Andiamo».
Bard la prese per il gomito e Lindaen accettò di farsi condurre via, ma continuò a tenere lo sguardo puntato su Ilsa finché non furono lontani, finché non fu sparita oltre l'angolo di un edificio.
Si accorse di avere le spalle appoggiate al muro freddo e scrostato di una casa e che Bard le stava parlando, ma non stava ascoltando neanche una parola. Vedeva le sue labbra muoversi e proprio non capiva cosa le stesse dicendo.
Alla fine lo guardò e disse: «Ilsa è morta».
Bard interruppe qualsiasi cosa stesse dicendo e la guardò con occhi sgranati. Forse la considerava sciocca?
«Sì», rispose lentamente, con cautela. «Sì, lei... Mi dispiace, Lindaen, mi dispiace...».
«Questo è strano», mormorò lei. «Io... conosco il lutto, ma...».
È perché la conoscevi, si disse. È perché era gentile con te e perché sapevi il suo nome.
Era arrabbiata. Non era triste, era furiosa. Non aveva mai odiato gli Orchi così tanto. Era un Elfo e come tale non considerava quelle creature degne di nulla, se non di una morte rapida, ma non li aveva mai davvero odiati. Non aveva mai rivolto loro pensieri di crudeltà. Ora, se ne avesse avuto uno per le mani, gli avrebbe fatto invocare la morte fino al mattino seguente prima di concedergliela.
Guardò Bard, improvvisamente seria. Voleva uccidere quanti più Orchi possibile, subito, non poteva aspettare. Lui la fissava, sembrava preoccupato ed era in attesa di una sua reazione.
«Bolg sta arrivando con una seconda armata di Orchi», annunciò lei senza preamboli, staccandosi dal muro e prendendo a camminare. Non voleva stare ferma. «Sta per arrivare a Collecorvo e da lì scenderà nella piana. Finirà di ammazzare i Nani e poi toccherà a noi».
Bard, incredulo, parve impiegare un momento per mettere insieme le informazioni.
«No...», mormorò. «No, non è possibile».
«Lo è eccome», rispose lei, più brutale di quanto avrebbe voluto. «È stato visto lasciare Gundabad e marciare sui sentieri di montagna».
«Non sopravviveremo a un secondo assalto!».
«Lo so».
Si guardarono per un po', in silenzio. A Lindaen parve passato un secolo da quando si erano guardati così a lungo in riva al lago, prima di separarsi. Le sembrava distante anni interi, invece erano passati appena tre giorni.
Questa volta, però, il loro sguardo non era pieno di aspettativa. Era l'esatto contrario: di aspettativa non ne avevano, non potevano più averne. L'arrivo di Bolg avrebbe segnato la morte di tutti loro. Non c'era modo di scappare, le strade erano invase. Non c'era luogo in cui nascondersi, perché gli Orchi li avrebbero trovati.
«Vado a prenderli», disse Bard, la voce stranamente calma per un simile momento. Parlava dei suoi figli, dovevano passare insieme gli ultimi momenti. «Rimani ad aspettare con noi?».
Lindaen sorrise con dolcezza. Quella domanda non era posta secondo il caso, non si riferiva solo l'attesa dell'arrivo di Bolg. Aveva un significato più ampio, che ritornava ai discorsi del giorno precedente. Bard voleva sapere se avrebbe aspettato la loro vecchiaia, se avrebbe atteso di vederli andarsene, voleva saperlo anche se ormai di quel futuro non c'era più traccia.
Si era ossessionata con quella domanda per così tanto che la risposta le era sembrata introvabile, eppure ora ce l'aveva sulla punta della lingua, naturale come il calore del sole.
«Sì», rispose, sicura come mai prima.
Bard le sorrise a sua volta.
Andarono insieme all'armeria. Lindaen bussò forte e la sua voce riecheggiò all'interno. Bain e un altro ragazzo si mossero oltre la porta, si udì un suono di assi gettate all'aria.
Entrando, Lindaen dovette abituarsi al buio. Lei e Bard non parlarono, non c'era nulla che potessero dire. Nessun discorso incoraggiante avrebbe cancellato la paura dal cuore di chi era troppo piccolo, troppo vecchio o troppo spaventato per ascoltare. Il più profondo silenzio avvolgeva i loro passi, quasi rallentandoli.
Fecero un cenno, invitando tutti a uscire. Non c'erano più Orchi vivi in città, non ancora. Per qualche minuto, forse per un'ora, avrebbero potuto respirare. Eppure, in qualche modo dal loro sguardo doveva essere emerso qualcosa, perché tutti parvero improvvisamente consci che la battaglia non era finita.
Presero Sigrid, Tilda e Bain e si avviarono con calma ai bastioni orientali: volevano vederli arrivare. Tilda era troppo bassa per vedere oltre il parapetto, così Lindaen la prese in braccio e la sollevò.
Molti dei Nani nella piana erano ancora in piedi, ma erano stanchi. Non avevano più capre da guerra, né armi pesanti, solo se stessi. Non tornavano a casa propria solo perché erano troppo orgogliosi per farlo. Gli Elfi erano scomparsi tutti, ritiratisi a Bosco Atro. Intorno a Dale, sul fiume ghiacciato, c'erano ancora pochi Orchi armati: aspettavano solo che qualche incauto abitante della città decidesse di tentare la fuga.
Restarono immobili, Tilda che le pesava dolcemente sul braccio e Bard al suo fianco. Bain e Sigrid di quando in quando sospiravano con malinconia, ma non parlavano.
Come loro, molti si radunarono alle mura. La notizia dell'arrivo di Bolg si era diffusa. Quando gli Orchi fossero arrivati, avrebbero venduto cara la pelle, ma sarebbero stati costretti a soccombere. E in quel caso, pensò Lindaen, meglio morti che prigionieri.
«Eccoli», disse infine lei.
«Dove?», chiese Bard, calmo.
Lei scosse il capo.
«Non potete vederli, ma io li sento camminare».
«Quanti credi che siano?».
Lindaen ascoltò, in silenzio. Poi rispose: «Penso che non sia il caso di contarli».
Sono troppi.
Infine sbucarono da un sentiero di montagna, che passava accanto a Collecorvo e tuttavia non lo attraversava. Lindaen pensò a Bilbo e ai Nani e strinse i denti. Avrebbe voluto vedere Bilbo ancora una volta, dirgli quanto fosse stato importante per lei. Si augurò che sopravvivesse, che tornasse nella sua Contea, dove la vita era più semplice e lenta.
Quando la gente li vide, qualcuno emise esclamazioni di turbamento, ma la maggior parte non parlò nemmeno. Bard allargò le braccia e strinse Lindaen e i suoi figli. Lei gli si fece vicina, sentendo i ragazzi che si schiacciavano tra loro. All'improvviso, la possibilità di quel futuro che le faceva tanta paura, l'idea di vivere con Bard e di vederlo poi svanire le provocò un'ondata malinconica di dispiacere: sentiva la mancanza di qualcosa che, alla fine, non avrebbe neanche avuto. Chiuse gli occhi.
Avrebbero raggiunto Dale nel giro di mezzora, a quella velocità di marcia. Lindaen pensò a Ilsa: le era stato risparmiato di assistere allo sterminio di tutti coloro che conosceva e che erano ancora vivi.
Poi, qualcuno trattenne il fiato.
Una donna lanciò un urlo.
Un grappolo di ragazzini cominciò a bisbigliare fra loro.
Lindaen aprì gli occhi e guardò davanti a sé. Non vedeva nulla di nuovo. Solo tanti Orchi in avvicinamento e un sole spietato nella sua brillantezza. Poi alzò lo sguardo.
«Le aquile», si ritrovò a mormorare. «Oh, per tutte le stelle del cielo...».
Erano decine. Volavano in alto, venendo da sud, e alla loro testa volava il loro signore, l'aquila più grande di tutte. Era inconfondibile anche a quella distanza. Lindaen aveva ancora in mente il salvataggio dopo la loro fuga da Moria. Le loro ali sbattevano, fendendo l'aria, e di quando in quando lanciavano alti sibili chioccianti.
Sentì la mano di Bard serrarsi sulla sua spalla fino a farle quasi male. Bain aveva gli occhi così sgranati da sembrare sul punto di perderli.
Le aquile sorvolarono la città e la superarono. Una alla volta compirono un giro su Dale, come a dire agli uomini "noi siamo qui, noi vi proteggiamo".
«Ma quello...». Lindaen strinse gli occhi per difenderli dal sole e dalla neve. «Quello è Radagast! E l'altro... Beorn!».
«Amici tuoi?», fece la vocetta di Tilda.
«Più o meno...».
Beorn e Radagast viaggiavano con le aquile, forse erano stati loro ad avvertirle del pericolo. Lindaen fissò uno per uno quei maestosi animali mentre seguivano il vento e si spostavano verso la piana. Poi li vide planare verso il basso, in picchiata, rapidi.
Non impiegarono molto a sbaragliare gli Orchi di Bolg. Con i becchi e gli artigli afferravano, mordevano, strappavano. Alcune presero una manciata di Orchi nelle zampe, volarono in alto e li fecero piombare giù. Ancora e ancora volarono nel campo di battaglia, distruggendo tutto.
I Nani di Piediferro, ormai rassegnati, sembravano come rapiti da quell'immagine. Le aquile, con precisione incredibile, li evitavano per colpire solo i loro reali nemici.
Accanto a loro un uomo urlò: «Evviva le aquile! Evviva il re delle aquile!».
Molti si unirono a lui, ma la maggior parte dei sopravvissuti era troppo attonita nell'osservare e restò in silenzio.
Era uno spettacolo magnifico.

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