Capitolo 3: Mal comune mezzo gaudio

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Aprii gli occhi, portandomi una mano alla testa. Mi sentivo come se mi avessero ripetutamente preso a craniate. Deglutii e cercai di capire dove mi trovassi, guardandomi attorno. Ero sdraiato su quella che sembrava una barella metallica, all'interno di una capsula di vetro che mi ricordò una di quelle pastiglie che mi costringevano a ingurgitare da bambino. Non avevo alcun tipo di costrizioni, ma la cannula che sporgeva dal mio fianco era connessa a una macchina esterna, nella quale erano radunati ben due litri di liquido energetico, che fluiva lentamente nel mio corpo, per poi defluire. Sembrava che stessero controllando la quantità di fluido presente nel mio corpo. Quello, a una seconda occhiata, capii che era il mio sangue. Era molto diverso da come lo ricordavo l'ultima volta in cui ero stato ferito; allora era stato di un rosso cupo, ma, allo stesso modo, vita.

Cercai di parlare, ma avevo le labbra di piombo.

Dovetti aspettare a lungo, prima che qualcuno entrasse nel mio campo visivo, ponendosi a fianco della capsula vetrosa in cui ero disteso, nudo come un pulcino, fatta eccezione per uno straccio sulle parti private.

Volsi lentamente la testa di lato, osservando la donna che mi stava scrutando con aria soddisfatta, mentre prendeva appunti su una tavoletta interattiva.

«Buongiorno, prigioniero numero 123» mi disse. Premette un paio di pulsanti sulla macchina che filtrava il mio sangue e, un po' alla volta, tornai a essere lucido. Recuperai sensibilità nel viso e nelle altre estremità, finché non riuscii a muovere anche la bocca. «Spero che il cambio di soggiorno non sia stato troppo brusco. Mi spiace di essere stata costretta ad atterrarti, ieri, ma ti sei mostrato ostile.»

«Ostile?» ripetei, esterrefatto. Allora c'era stata lei, dietro quella tuta. Non era un robot, ma una semplice donna dall'aspetto anonimo, fatta eccezione per le braccia meccaniche di cui era provvista, che ticchettavano e bippavano dolcemente, come se fossero vive. «Signorina, non vorrei disilluderla, ma le assicuro che le mie intenzioni erano tutt'altro che ostili. Purtroppo, ero stato appena avvelenato da un disgustoso esemplare di...»

Shh! Non le dire di me, idiota. Non si è accorta della mia presenza!

No, quella non era la vocina della mia coscienza. Era un po' troppo concreta per i miei gusti.

Sei ancora nel mio collo?

Esatto.

Ma che razza di bastardo...

Sono un parassita. Che ti aspettavi? Però ora taci, non le dire di me.

E perché non dovrei, visto che sei stato tu a mettermi in questo casino? Se fossi stato in forze, l'avrei respinta senza problemi questa ghostbuster del cavolo.

È stata una sfortunata serie di eventi. Ma è nel mio interesse che tu sopravviva, e non ho intenzione di restare all'interno di questa bolla, dopo essere finalmente fuggito da quel lago fetente. Dunque, cuciti le labbra e inventati qualcos'altro.

«Avvelenato da cosa?» mi incitò la donna, interessata.

«Da un raro e letale miscuglio alcolico di nittble. Quella roba mi ha steso» ridacchiai, rivolgendole un sorriso talmente finto che temetti non ci sarebbe cascata.

Lei però non doveva avere la minima empatia, perché trasse un profondo sospiro e scosse la testa.

«Cos'altro avrei potuto aspettarmi da uno della tua specie? Siete le creature più capricciose che esistano nell'universo. Trovo molto ironico che il fato vi abbia dato una riserva energetica mostruosa. Come se non avessimo già abbastanza minacce da controllare, dobbiamo pensare anche agli Energeen e alle loro stupidate.»

Esper - Oculus DiaboliDove le storie prendono vita. Scoprilo ora