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Molly non disse più nulla della vicina ed io accantonai la sua presenza in un angolo della memoria. Sapevo che era presente, volevo vederla per spegnere la mia curiosità, ma non smaniavo per incontrarla.

Tornavo dal mio osservatorio la mattina del 27 febbraio quando la notai. Era seduta sul prato, le mani sulle ginocchia come se stesse aspettando con impazienza l'incontro con qualcuno. Si accorse di me prima ch'io di lei, infatti la sorpresi a scrutarmi prima che potessi rendermene conto.

Aveva capelli castani, scuri, e un viso pallido. Quello che attirò la mia attenzione fu il suo abito, un giallo che non avevo mai visto indossare a nessuna delle giovani che avevo incontrato fino a quel momento. Emanava una luce discreta e in alcuni momenti, quando la stoffa si muoveva, sembrava assumere dei toni biancastri. Non avrei saputo definire la trama della stoffa che mi affascinava.

Mi accostai al ciglio della strada – di solito camminavo nel mezzo perché di rado passava qualcuno, e i pochi non lanciavano i loro cavalli all'impazzata, ma avevano indolenti andature pastorali – e, siccome non indossavo il cappello, feci un inchino.

«Buongiorno.»

«Buongiorno a voi» disse lei. Aveva una bella voce. Un viso dolce.

«Sembra che il buon Dio ci regalerà un'altra bella giornata» continuai, indicandole il cielo che schiariva. Avevo passato la notte nel fienile ed ero un po' assonnato, ubriaco di sonno a dirla in franchezza, per cui tendevo a farmi ardito.

«È logico per la primavera» disse lei.

«Non siamo in primavera» obiettai, sfregandomi un occhio. «Ci troviamo nell'emisfero australe, le stagioni sono rovesciate, non lo sapevate? A dirla con sincerità è la fine dell'estate. Fra meno di un mese entreremo nell'autunno astronomico e sarà inverno quando al di sopra dell'Equatore sfileranno i mesi di giugno, luglio, agosto e settembre.»

«Volevo vedere l'estate in questa landa» ribatté lei guardandosi in giro. «Avrò ancora tempo a mia disposizione?» domandò a se stessa o a qualcuno che io non potevo né vedere né udire. Si alzò, il vestito ondeggiante come un velo. «Ditemi, signore, quando esattamente finirà la vostra estate?»

«Il ventuno di marzo, in concomitanza con l'inizio della primavera boreale.»

Annuì, certa d'aver compreso. Si avvicinò, e potei scrutarla bene. Si muoveva un po' rigida ma, sotto una costrizione che io stesso definii timidezza verso uno sconosciuto, vidi una grazia che cominciò a conquistarmi. Non fu un'improvvisa epifania ma un lento contagio. Quasi un'inspiegabile agonia.

Non sapevo cosa aggiungere perché la sua domanda mi aveva spinto all'angolo, un pugile troppo debole per muovermi ancora. Osservai il cielo cercando un appiglio. La fortuna mi soccorse perché tenevo fra le mani la lente del telescopio che avevo sostituito per avere un'immagine più nitida del cielo notturno.

«Che cos'è l'oggetto che tenete in mano?»

«Questa? È una lente, simile a quelle utilizzate per gli occhiali. Serve per avvicinare l'immagine di un oggetto che si trova lontano e poterne scrutare le caratteristiche.»

Gliela mostrai, allungando la mano. Lei fu rapida da prenderla, appoggiando le dita al mio palmo, toccandomi con uno strascico di velluto.

«Mi occorre per osservare la cometa di cui parlano tutti» dissi, anche se in quell'anfratto di mondo tutti e nessuno era lo stesso modo di definire gli esseri umani presenti nel circondario.

«Ah sì» replicò lei.

Mi restituì l'oggetto. «Vogliamo continuare la conversazione a casa mia? So che avete conosciuto mia sorella Molly. Lei non vi ha ancora invitato da noi, come si usa nei rapporti di buon vicinato, ma io vorrei rettificare.» Guardai la lente; mi fece pensare a Giovanni Battista Amici e alla sua lente emisferica frontale per microscopi, il che mi condusse a mia sorella. «Adesso è malata, ma sarà lieta se verrete a trovarla.» Il trambusto per l'arrivo della nuova vicina le aveva fatto scordare di assumere le sue polveri e, come Jamie aveva pronosticato, gli strapazzi l'avevano costretta all'immobilità.

«Lasciate che prenda uno scialle» mi disse senza specificare che aveva accettato, cosa che comunque capii dalla risposta. Attesi che andasse verso casa, sparisse attraverso l'uscio e uscisse di nuovo chiudendo la porta con una grossa chiave. Indossava uno scialle bianco la cui punta a v le lambiva le reni.

«Avete chiuso a chiave? Noi non lo facciamo mai» le dissi.

«Chi me l'ha affittata ha detto di non fidarsi a lasciare aperta la porta. Girano molte belve nei dintorni.»

«Non è vostra?» domandai pieno di stupore al sentire che la giovane non fosse la proprietaria ma un'affittuaria.

«No.»

La condussi verso casa dove Jamie mi attendeva sulla soglia. Capii dal cambio della sua espressione che nella mente gli balenò un'idea intima. Non si mosse fino a che fummo a portata di voce.

«È la vicina, suppongo» disse con un tono professionale e freddo.

Lei sorrise come se lui le avesse fatto un complimento.

«L'ho invitata a colazione.»

«Bene. Benvenuta in casa Ward, signorina. Sono James Abel Ward.» Tese la mano per prendere quella di lei e baciarla, ma la mia nuova amica gliela strinse e la agitò.

«Strana usanza» constatò lui.

Si scostò per farci entrare. Mi misi di traverso per lasciar sfilare la vicina, ma lei non si mosse.

«Oh, perdonatemi» disse, osservando prima me e poi mio fratello. «Ho accettato l'invito senza ricordarmi che in mattinata attendo l'uomo che mi ha affittato la casa. Siccome non so quando arriverà, vorrei che non trovasse la porta chiusa. Sono mortificata, chiedo perdono per la mia maleducazione. Sono costretta ad accettare il vostro invito in un'altra occasione.»

Imitò una riverenza e s'incamminò verso il sentiero che l'avrebbe riportata al cottage, senza voltarsi indietro, certa della sua decisione.

«L'hai fatta scappare» dissi a Jamie.


La Grande Cometa del 1843Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora