Capitolo XXVIII

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Bois-Guilbert alzò uno sguardo astioso contro i compagni di cella. Albert de Malvoisin era stato l'ultimo a colpirlo e lo guardava dall'alto in basso con arroganza. Bois-Guilbert scattò sulle gambe, il pugno carico dietro la testa; ma in due lo afferrarono per le spalle e lo inchiodarono contro il muro. Malvoisin lo guardava con sdegno.

«E dopo tutte le pene, gli affanni cui vi siete sottoposto, non siete neanche stato capace di possedere l'ebrea? – lo derise scrutandolo – Avete rinunciato all'onore, alla vita, al nome di normanno e avete vestito i panni di un sassone... Che cosa avete conseguito? Una forca e un'illusione»

Bois-Guilbert fremette d'ira: «E che cosa avete ottenuto voi? Non siamo qui per lo stesso motivo e non ci attende la forca, la stessa forca? Voi siete la serpe del Giardino, Malvoisin: siete il consigliere del male, che sibila alle orecchie e confonde e condanna all'Inferno!»

«Guardatevi – ribatté quello – La forca non vi disonorerà di certo; vi darà invece il posto che vi meritate. E lei sarà di un altro uomo, Guilbert. Un altro uomo la accarezzerà, la possederà mentre il vostro corpo miserabile penderà ancora dal cappio, pasto ai corvi. Io non lascerò rimpianti dietro di me, non lascerò ombre. Mi sono schierato dalla parte sconfitta, ma la sconfitta non è disonorevole se si rimane fedeli e io l'ho fatto. Voi, invece, no»

Bois-Guilbert ruggì, scuotendosi: un'ira focosa bruciava il suo cuore. L'uomo che lo teneva saldamente a sinistra gli affondò una ginocchiata nel diaframma e, in un rantolo, il normanno finì prostrato a terra con il fiato mozzo.

In quel momento esatto sopraggiunse un drappello di guardie che lo prelevò senza parlare e lo condusse fuori, quasi trascinandolo, verso una meta sconosciuta. Dopo corridoi infiniti, passi affrettati e strascicati, quando ormai temeva che solo il patibolo potesse richiederlo con tanta fretta, ecco una porticina da una parte, quasi nascosta a chi fosse passato sovrappensiero. L'aprirono e lo spinsero dentro senza molte attenzioni per il suo stato, facendolo cadere in ginocchio sul pavimento. La porta si richiuse pesantemente alle sue spalle; Bois-Guilbert alzò gli occhi battendo convulsamente le palpebre per la luce abbagliante che l'aveva avvolto oltre la soglia.

«Brian! – esclamò una voce conosciuta – Cosa vi hanno fatto?»

Due candide mani, fredde di paura, raccolsero il suo viso e guidarono il suo sguardo affaticato.

«Rebecca...» bisbigliò, mentre le labbra si aprivano a sorriderle.

Lei trasse un fazzoletto bianco dalla manica e gli tamponò prima il labbro, poi la guancia e il naso, quindi la fronte. Ritirò la mano intrisa di sangue; il fazzoletto conservava solo qualche frammento immacolato.

«Cosa vi hanno fatto?» ripeté singhiozzando e lo aiutò ad alzarsi. Notò che zoppicava leggermente alla gamba sinistra, ma lui la rassicurò: nulla di rotto.

«Oggi mi hanno cambiato cella... Ho ritrovato alcuni vecchi commilitoni che hanno pensato di darmi il benvenuto» raccontò con aria rassegnata. Rebecca lo fece sedere su una delle due sedie e si inginocchiò accanto a lui.

«Brian – lo chiamò, prendendogli le mani nelle proprie – Darei tutto ciò che ho per tirarvi fuori di qui...»

«No, Rebecca. Non è possibile e non è giusto nutrire false speranze – la rimproverò tornato di colpo serissimo – Forse non saresti dovuta venire; anzi, non saresti dovuta venire affatto! Una prigione non è il luogo adatto a te»

Rebecca scosse la testa: «Non ditelo neanche per scherzo! È mio dovere essere qui e sarò sempre presente ovunque potrò!»

Bois-Guilbert impallidì e ribatté immediatamente: «Non pensare di presentarti all'impiccagione, domani. Io sarò bendato, tu no! E non voglio che assisti a un tale spettacolo»

Paix entre nousDove le storie prendono vita. Scoprilo ora