Capitolo XXXI

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Faceva freddo: per questo tremava. Tremavano tutti davanti e dietro di lui nella fila di dodici condannati scortati a piedi dalle prigioni alla piazza del mercato. Incespicava con le caviglie incatenate; le mani legate dietro la schiena gli impedivano di mantenere l'equilibrio e, alle spinte a volte troppo violente delle guardie, capitava che dovesse appoggiarsi a chi lo precedeva o seguiva. Il digiuno faceva il resto. Bianco come un cencio, Bois-Guilbert non aveva molta coscienza di ciò che stava accadendo. L'aurora illuminava a stento il cielo a est e, dalla linea dei tetti stagliata contro l'orizzonte, la città appariva una sagoma nera senza profondità.

Una spinta violenta lo fece ruzzolare a terra fuori dalla fila e la processione si dovette fermare. Due guardie lo afferrarono, una per braccio, lo tirarono in piedi a forza e lo reinserirono nei ranghi. Quindi si riprese con la mesta marcia. Le strade, all'improvviso, si riempirono di persone che spintonavano, insultavano, lanciavano verdura marcia. Ma che importava più? Bois-Guilbert sentiva pioversi addosso il biasimo degli abitanti di Lincoln senza provare emozioni. Albert de Malvoisin e suo fratello Philip, loro sì, si scostavano sdegnosi e lanciavano sguardi di superiorità contro i paesani, rispondevano agli insulti... Bois-Guilbert no: d'altronde non era forse vero ciò che il suo commilitone Templare gli aveva detto il giorno prima in carcere? La forca non lo avrebbe disonorato: aveva già fatto tutto da sé e in modo impeccabile. Nessuno avrebbe potuto ridurlo peggio, nemmeno Richard e le sue forche.

Alla fine eccoli, i cappi preparati per loro. Erano dodici, come se ogni cappio fosse stato approntato appositamente per un collo in particolare. Non gli incutevano alcun timore; piuttosto gli suscitavano di nuovo i rammarichi su cui aveva avuto tutta la notte per riflettere.

«Rebecca...» bisbigliò. Gli scossoni che riceveva dalla folla non lo distoglievano dalla contemplazione del suo viso come la sua memoria lo rappresentava.

Fendendo la folla inferocita, a stento trattenuta dalle guardie, i condannati giunsero ai piedi della scaletta del palco. Quasi non sapevano spiegarsi come ci fossero arrivati: tutto aveva la parvenza di un sogno, persino la terra sotto i piedi sembrava avere la consistenza delle nuvole. Uno per volta, i condannati salirono i gradini e si presentarono sul palco. Il rito dell'impiccagione prevedeva che, per ogni reo, ci fosse una breve descrizione: nome, stirpe, accusa e condanna. Bois-Guilbert cominciò a sentir proclamare: "Albert de Malvoisin, colpevole di alto tradimento contro Sua Maestà..." e poi: "Philip de Malvoisin..." e poi i nomi degli altri cinque che lo precedevano.

Rebecca, non lontano dal palco, tremava per l'agitazione: il freddo dell'aurora non la pungeva, ben protetta com'era dal pesante mantello intarsiato con fili d'oro. Un dono nuziale dello zio del fidanzato, cui piaceva evidentemente precorrere i tempi e chiamarla quasi sua moglie senza che fosse stato stilato nemmeno il contratto prematrimoniale. Ma non le importava in quel momento. Dal fermento che scuoteva la piazza intuiva che i condannati erano prossimi. Un movimento violento ed improvviso le confermò che i condannati erano quindi arrivati. Schiamazzi e urla si sollevarono tutt'attorno a lei e fu sballottata dai vicini animosi. Abraham, per averla più sotto controllo, le afferrò il braccio rudemente e la portò vicino a sé.

«Cosa fate?» ringhiò lei, stringendosi le braccia al petto.

«State qui accanto a me, Rebecca – la ammonì – E state buona»

Rebecca diede uno strattone, ma non riuscì a liberarsi. Gli lanciò un'occhiata astiosa e tornò a guardare nel punto in cui la folla sembrava agitarsi con più fervore. Alla fine, come scivolando tra gli spettatori assetati di vendetta, il primo condannato cominciò a salire le scale. Il tumulto era ancora grande e non riuscì a distinguere le parole dell'araldo. Il secondo fu Albert de Malvoisin, il Templare.

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