9. Apnea

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"Alone di Alan Walker".

***

Il vento che entra dal finestrino dell'auto di Alexander mi spettina i capelli ancora di più di quanto già lo siano, visto il momento in cui io e Luke siamo stati sorpresi.

In questo istante, dentro di me due onde cercano di prevalere l'una sull'altra, poiché non riesco a capire se essere grata al ragazzo vicino a me per aver interrotto quello che stavo facendo, oppure se essere infastidita e irritata.

Una cosa è certa: quando ci siamo fermati, la consapevolezza di ciò in cui mi stavo buttando è ricaduta interamente sulla mia parte cosciente, provocandomi un conato molto forte. Non per Luke, questo è ovvio: l'ho già detto che mi affascina da morire. Semplicemente, era la prima volta che mi immergevo in questo mondo subacqueo così strano, e ammetto che l'aria mi è proprio mancata, una volta sotto.

Di certo, non posso fare una colpa né a Luke, né a me stessa. Piuttosto, dovrei prendermela con l'uomo che ha ucciso mia madre e che, di conseguenza, mi ha rinchiusa in quella gabbia per diciotto lunghi anni, separandomi da mio padre. Ogni santo giorno speravo che qualcuno si avvicinasse a me, che qualcuno mi prendesse in collo e mi portasse lontano dalla mia solitudine: invece, no. Venivo ignorata e, crescendo, le probabilità di trovare una famiglia sono sfumate sempre di più, e con queste anche la mia infanzia e la mia adolescenza. Possono sembrare tratti futili di una vita così lunga, ma no, non lo sono affatto, ché si sa, è elementare: senza fondamenta è difficile costruire un palazzo.

Poi mi chiedono perché io abbia la mente così in subbuglio... beh, vedete un po' voi.

E «Scendi o no?» mi chiede Alexander con un tono neutro che, al contempo, richiama a una certa impazienza. Si trova già fuori dalla macchina, in piedi dalla parte del mio sedile che aspetta che io scenda.

Scuoto la testa per risvegliarmi completamente dai miei pensieri ed esco. Mentre mi mantengo a pochi metri dietro di lui, osservo il posto in cui mi trovo: siamo dentro a quello che sembra essere un garage, dove è presente, oltre alla sua macchina appena parcheggiata, una moto. Non so minimamente di che modello siano, vista la mia ignoranza in materia, ma sono molto belle – e costose, aggiungerei.

Inspiegabilmente, anziché utilizzare la porta situata a destra che collega di sicuro il garage alla casa, usciamo fuori e passiamo dall'entrata principale. Ora, osservando l'ambiente esterno, mi accorgo di essere esattamente nel centro di Las Vegas, nella zona residenziale, e lo riconosco in quanto da qui è visibile l'immensa ruota panoramica che si trova vicino al Dragon.

Il cielo oggi è azzurro e rimpiango di non possedere un paio di occhiali da sole che, in questo momento, risulterebbero molto utili.

Il perimetro è contornato da un alto cancello nero, abbinato alla grande scalinata che porta all'entrata principale, ma l'aspetto più strabiliante sono le immense vetrate che fungono da parete. Se le lotte clandestine portano ad avere questi soldi, voglio combattere subito.

«Tra tutti siete dei poveracci, devo dire» sussurro a me stessa, facendo in modo, però, che anche lui senta. Ha un'aria troppo seria che voglio rallegrare, perché altrimenti mi sale la depressione.

In risposta, beh, non succede proprio niente. Lui, ai piedi delle scale, sta scrivendo qualcosa al cellulare, ma non capisco perché non possa farlo dentro casa, dove l'aria è sicuramente più fresca del caldo di oggi. La mia mente inizia a vagare mentre lo osservo e la figura di un torello con il fumo che gli esce dal naso si para davanti a me. Non è colpa mia se con gli occhiali da sole è identico a un animale del genere.

Cerco di trattenere le risate e ci riesco, ma non posso fare a meno di lasciarmi andare a un'affermazione delle mie.

«Mamma mia, torello, fatti una risata qualche volta» dico ad alta voce, incrociando le braccia sotto al petto, ma l'unica cosa che ottengo da Alexander è che si diriga verso la porta.

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