«Ventisei. Accetta?»
Spalancai la bocca, inorridita da quel suono. Ventisei. Era uno scherzo?
Il professore controllò con la coda dell'occhio l'orario che segnava il suo orologio da polso.
L'assistente, una donna minuta e con gli occhi troppo ravvicinati, mi osservava con la penna sospesa a mezz'aria, pronta a passarmela in caso avessi deciso di accettare quel voto.
«Signorina, allora? Accetta?»
Alle mie spalle si sollevò un fastidioso brusio. Io, Benedetta Ragonese, studentessa modello che per i primi due anni di corso non aveva mai preso un voto più basso del trenta e lode, doveva valutare in pochi secondi se rifiutare un maledetto e disonorevole ventisei. Mi sembrò di morire, tutta la vita mi passò davanti in un solo istante, ma soprattutto mi passò davanti il viaggio di due settimane in Finlandia che avevo progettato da mesi. Se avessi rifiutato il voto, avrei dovuto dirgli addio in modo da poter studiare per la sessione d'esami di settembre e io, a quell'esperienza non volevo rinunciare a nessun costo. Tra i due mali, scelsi il male minore.
«Accetto.» dissi infine.
Avrei superato il trauma piano piano, o forse mai...
Afferrai la penna che l'assistente mi stava porgendo e firmai. Quando mi voltai verso gli altri presenti nell'aula tutti mi squadrarono da capo e piedi, alcuni basiti, pochi dispiaciuti, molti con il sorriso di chi gode per le disgrazie altrui. Non volava una mosca, sulle mattonelle in marmo risuonavano solo i tacchi dei miei stivali che mi stavano portando via il più in fretta possibile da quel covo di vipere.
Tornai velocemente al mio posto, gettai alla rinfusa nella borsa tutti gli appunti e i libri che erano sul banco e mi catapultai fuori dall'aula. Prima che potessi sbattermi la porta alle spalle, mi giunse alle orecchie una risata molto più simile a un grugnito che a un'esternazione di allegria. Era Renata, una collega che stava aspettando da anni di vedermi prendere un voto più basso del suo. Ci era riuscita: io ventisei, lei ventisette. Se avesse impiegato un po' del suo tempo per lavarsi le ascelle invece di sprecarlo ad attendere un mio insuccesso, forse sarebbe riuscita a trovare un ragazzo.
Scappai verso la mia Cinquecento bianca parcheggiata vicino l'università e guidai in stato catalettico fino al monolocale che avevo affittato in zona Lambrate.
La vita da studentessa fuorisede era tanto bella quanto faticosa, alla totale indipendenza si contrapponevano gli oneri del vivere da sola. A Capua non mi ero mai preoccupata di pulire casa o di fare la spesa, a tutto pensava mia madre, con la mia scelta di andare a studiare a Milano per diventare fisioterapista mi ero fatta carico di cose che avevo sempre reputato poco importanti. Tuttavia, quando ero rimasta senza mutandine pulite, con solo mezzo limone nel frigorifero e il freezer pieno di pizze surgelate, mi ero resa conto di come dovessi darmi una svegliata o sarei morta di stenti e con i gioielli di famiglia in bella mostra.
C'era più traffico del solito quel pomeriggio, come se non avessi avuto già i nervi a fior di pelle. La gente non camminava quando c'era il verde e accelerava agli incroci negandomi la precedenza gentilmente concessa dal codice della strada.
Arrivai a destinazione dopo un'ora di insulti e con la matita nera colata sotto gli occhi che mi dava un'aria ancora più disperata. Appena aprii la porta del mio piccolo appartamento mi gettai sul letto a faccia in giù, poi scoppiai in un pianto liberatorio. Quel ventisei mi pesava da morire sulle spalle. C'erano voti ben peggiori, ma io ero Benedetta Ragonese, la migliore della classe fin dall'asilo, non era da me prenderne di così bassi. Era stato un semplice capriccio del professore, lo sapevamo tutti: mi aveva fatto una domanda fuori programma e io educatamente glielo avevo fatto presente. Grande errore. Se avessi imbastito un discorso arrampicandomi sugli specchi forse avrei ottenuto per pura fortuna un trenta e lode. Il professore non aveva preso di buon grado la mia osservazione e da lì il mio esame era stato segnato in maniera definitiva. Avevo risposto a tutto il resto alla perfezione, ma per lui rimanevo lo stesso un ventisei.
Mi pentii per un istante di non aver seguito il consiglio dei miei genitori di andare ad abitare con una coinquilina, se li avessi ascoltati avrei avuto qualcuno che mi avrebbe asciugato le lacrime o che al massimo mi avrebbe fatto ingozzare con del panettone visto che eravamo sotto Natale.
Dopo essermi sfogata per qualche minuto, mi ricomposi e decisi di prendere in mano la situazione come avevo sempre fatto nella mia vita. Mi alzai in piedi iniziai a camminare avanti e indietro per i miseri cinquanta metri quadrati di casa.
«Io sono una ragazza forte.» dissi ad alta voce.
Inspirai a fondo e lo ripetei a voce ancora più alta.
«Io, Benedetta Ragonese, sono una ragazza forte.»
Mi sentivo già meglio. No, non sarebbe stato quel voto a mettermi a tappeto. Preda di un impulso irrefrenabile, tirai fuori dalla borsa il mio libretto universitario, guardai il voto firmato dal professore e lo scagliai contro il muro.
«È solo un ventisei, esistono cose peggiori nella vita.» conclusi.
A parole era semplice, ma in cuor mio non credevo tanto a quello che avevo detto. Decisa, andai in cucina e mi abboffai con il panettone che avevo comprato al supermercato il giorno prima. Non avevo bisogno di alcuna coinquilina da cui elemosinare consolazione, io bastavo a me stessa.
Quando mi resi conto di aver mangiato metà del dolce natalizio, sazia oltre misura e con i sensi di colpa per aver assunto troppe calorie, che si andavano a sommare a quelli per aver contestato il professore, aprii l'armadio per preparare la valigia per tornare a Capua in vista delle vacanze natalizie.
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Camera vista Colosseo
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