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«Qual è la mia stanza?» domandai con un bruttissimo presentimento.

«L'ultima stanza in fondo. Vieni, te la mostro.»

La seguii trascinandomi dietro le valigie e pregai che fosse come le immagini riportate su internet.

Pregai fino all'ultimo... inutilmente. La stanza era un misto tra una discarica e uno sgabuzzino. C'erano tre stendini colmi di panni appena messi ad asciugare che gocciolavano a terra senza vergogna. C'era un letto matrimoniale risalente al primo novecento con tanto di testata in legno lavorata, identico a quello del mio bisnonno, anzi, forse il suo era anche più moderno. Alcuni scatoloni rendevano impossibile camminare lì in mezzo, per non parlare delle casse di vino, di birra, dei panni sporchi che traboccavano da alcuni cesti in vimini, di un topo.

Un topo?

«Quello è..» iniziai con gli occhi gonfi di lacrime.

«Oh! Quello è Formica! È un topolino che abbiamo trovato io e Daiana quando ci siamo traferite qui. All'inizio abbiamo provato a farlo fuori con del veleno, ma è un topo furbo e non ci è cascato, così lo abbiamo adottato.» spiegò euforica.

«In che senso?» mi tremava la voce ed ero prossima al pianto.

«Lo abbiamo catturato e portato dal veterinario così da vaccinarlo. Adesso è il nostro animale domestico. È un criceto un po' più grande!»

Ok. Avevo un topo in casa come animale da compagnia. Un topo che si chiamava Formica.

'Per quale dannato motivo non lo avete chiamato Topo?'

La mia camera era pietosa e avrei impiegato un giorno intero per sistemarla visto che da quello che avevo compreso veniva utilizzata come sgabuzzino.

Ero prossima alle lacrime, le sentivo pizzicare negli occhi.

«Oh! Eccoti!» disse Paola a una ragazza che era appena uscita dal mio bagno.

Aveva un asciugamano rosa attorno al corpo ed era bagnata.

Mi sorrise con fare altezzoso e si presentò.

«Sono Sharon.»

Poi se andò senza aggiungere altro, ancheggiando vistosamente mentre lasciava che i capelli lasciassero un sentiero di gocce sul mio pavimento.

«Sembra snob, ma alla fine è una brava ragazza.»

«Perché viene a fare la doccia da me?» chiesi con voce strozzata.

«Lo scoprirai presto.» disse strizzandomi ancora una volta l'occhio.

Non so cosa successe, ma forse le venne una specie di crampo perché la palpebra continuò a vibrare in modo inquietante.

«Ti lascio sistemare le tue cose. Ti preparerei un caffè, ma devo correre a lavoro!» esclamò Paola.

Se ne andò anche lei e mi lasciò sola in quell'immondezzaio.

Avevo le lacrime agli angoli degli occhi, non riuscivo davvero più a trattenerle, ma feci uno sforzo sovraumano e placai la mia debolezza. Non potevo lasciarmi abbattere, al mondo esistevano cose peggiori di un topo che si chiama Formica o di una bionda snob che si fa il bidet nel tuo bagno. 'Cose come un padre che perde tutti i suoi averi per un investimento idiota.'

All'improvviso ebbi un brutto presentimento. La stanza non era come nella foto, nulla era come nella foto. La vecchia mi aveva preso in giro e doveva aver caricato sul sito una camera a caso presa su internet. Ecco il perché di un prezzo d'affitto così ridicolo. Nulla di quell'annuncio era vero.

Ad un certo punto ebbi anche paura che mi avesse preso in giro su un'altra cosa, la più importante: la vista sul Colosseo.

«No, no, no, megera bastarda, questo non me lo puoi fare...»

L'Anfiteatro Flavio doveva diventare il mio nuovo punto fermo, il mio faro di speranza, la mia luce nel buio, l'unica consolazione in quel mare di disperazione in cui ero finita.

Quando spalancai la finestra mi crollò il mondo addosso. Nessun Colosseo. La mia finestra dava su un'altra finestra. Aveva i battenti chiusi. Quella finestra fu una metafora della mia vita: mi stavano chiudendo in faccia tutte le possibilità di avere un futuro roseo.

Mi accasciai a terra e non fui più in grado di trattenere le lacrime. Scoppiai in un pianto disperato e agonizzante. Singhiozzavo e mi mancava l'aria. Tirai su con il naso e nel frattempo continuavo a sudare perché ovviamente nella mia orribile stanza non c'era nemmeno un ventilatore. Era una cappa e io stavo soffocando non solo nella mia disperazione, ma anche nella calura di fine settembre. Settembre, il mese che porta con sé il primo fresco... sembrava che si stesse facendo anche lui beffe di me. «Sfigata, adesso ti faccio morire di caldo, ti levo tutta l'aria, altro che venticello autunnale. Autunno dillo a tua madre, sfigata.»

Piansi più forte, ormai priva di dignità. Mio padre mi aveva rovinato la vita, ero in quel tugurio a causa sua.

«Non sei Steve Jobs, perché non te ne sei stato al tuo posto?» piagnucolai.

Si sentiva un grande manager, lui. Uno che gli affari li mangiava a colazione, peccato che gli fosse andata di traverso.

«SEI UNO STRONZO! TI ODIO!» gridai fuori di me.

Poggiai la schiena contro il muro sotto la finestra e tirai le ginocchia al petto. Continuai a piangere dondolandomi avanti e indietro.

«Dai, non fare così! Te l'ho detto fin da subito che era sbagliato!»

Sollevai la testa di scatto e ascoltai quella voce.


Adesso comincia il divertimento ahahhaha

Vi sta piacendo questa storiella strampalata? Vi sta strappando qualche risata come mi auguravo? Fatemi sapere, carissimi lettori dienolosi e, spero, futuri lettori dienolosi :)


Camera vista ColosseoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora