4. L'asso nella manica

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Ero diretto al rifugio dei Firewolf, sperando di trovare il mio amico Rob tutto intero. Non mi aveva detto dei soldi che Jack gli doveva, forse perché sapeva che non ero d'accordo con il gioco d'azzardo, o magari perché non avrei accettato il contratto se avessi saputo che era coinvolto personalmente.

Quella era la prima regola: mai coinvolgimenti personali sul lavoro.

Ero lieto di aver cambiato mezzo di trasporto e di aver abbandonato la macchina con cui ero arrivato a casa di Arthur.

La berlina di Cassidy non era molto veloce e, per di più, aveva dei coprisedili osceni con disegnini improponibili, CD di musica pop sparsi dentro il cruscotto e tre o quattro paia di scarpe coni tacchi sul sedile posteriore. Ma la cosa ancora più orribile erano i pupazzi di orsi e teneri animali posti sia dietro che davanti e il portachiavi di un diavoletto appeso in stile Arbre Magique.

Fortunatamente, la macchina della polizia andava veloce e non aveva orribili ornamenti interni.

Durante il viaggio, mentre aspettavo al semaforo, caricai la mia Desert Eagle con dei proiettili placcati d'argento: avevo fatto modificare il caricatore, ora ci stavano ben dieci colpi.

Il resto dei proiettili speciali li tenni per i fucili a pompa d'ordinanza che avevo visto nel bagagliaio, dove i due poliziotti giacevano privi di vita.

Era davvero necessario ucciderli? Sì! Non potevo permettermi di essere un ricercato, e chiunque compromettesse il mio anonimato doveva essere eliminato.

Grazie a questa regola riuscivo a non farmi mai beccare e a nascondere la mia vera natura. Non che uccidessi solo quando fosse strettamente necessario, ma cercavo comunque di evitare stragi inutili, perché la vita aveva un valore e io stesso lo ammettevo, al costo di sembrare ipocrita, visto quello che avevo fatto alla povera e indifesa Cassidy.

Con lei ne avevo sentito il bisogno, quasi come una droga: a volte, dopo averla consumata, ti rendi conto di aver sbagliato, ma sai anche che ti ha fatto stare bene.

Era la mia natura, togliere la vita o donarne una quasi eterna.

Quasi, perché c'erano tanti modi per ucciderci, tuttavia credevo che essere trasformati fosse peggio che morire, perciò raramente concedevo il dono del vampirismo.

Ero stato clemente con Cassidy, non tramutandola in una creatura della notte come me. Avevo ucciso moltissime persone nel corso della mia esistenza e, tra di loro, solo la metà lo meritava davvero.

Uccidevo solo quando ne sentivo il bisogno e secondo il mio criterio: mai i bambini e mai le donne incinte. Non credevo giusto privare della vita chi era ancora troppo piccolo per averla vissuta o chi ancora non avesse avuto il tempo di nascere.

Poiché avevo bisogno di cibarmi di sangue, cercavo di sfruttare la sete per qualcosa di utile, per la mia incolumità e per la buona riuscita di un lavoro che dovevo portare a termine, come nel caso dei due sfortunati poliziotti la quale unica sfortuna consisteva nell'essersi trovati nel luogo sbagliato al momento sbagliato. Il destino per loro aveva voluto questo e io ero stato solo l'esecutore materiale. Sarebbero anche potuti morire in seguito a una sparatoria o un incidente durante un inseguimento, no?

Perdendomi in mezzo ai miei monologhi filosofici, arrivai a destinazione.

Scesi dalla macchina della polizia e guardai il cielo completamente nero.

Mancava un quarto della luna fortunatamente, perciò i lupi mannari non potevano usufruire della trasformazione e, di conseguenza, non erano forti quanto me.

Andai verso il bagagliaio e lo aprii: presi uno dei fucili, lo svuotai dai colpi normali e misi cinque proiettili placcati in argento, lanciai un'occhiata veloce ai due cadaveri e richiusi il portellone con forza.

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