11.

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«James, ho del lavoro da sbrigare» dice frettolosa, evitando di incrociare il suo sguardo.
«Aspetta» la trascina indietro.

Lei si gira e lo osserva con sguardo indecifrabile.

«Immagino avrai notato la gente oggi» e lo dice guardandosi intorno e abbassando la voce per evitare di farsi sentire da chiunque altro.
«Notato in che senso?» gli risponde, facendo finta di non capire dove vuole arrivare.
«Circolano voci strane...oggi» fa delle pause per pensare a che parole usare, per cercare di nascondere il disagio.
«Io non ho sentito nessuna voce» risponde sincera, «semmai un continuo bisbigliare fastidioso» alza gli occhi al cielo.
James la guarda per un attimo, scrutando nei suoi occhi per vedere se sta dicendo la verità.
«Ma poi, voci inventate da chi?»
«Da qualcuno che ci ha visti uscire insieme da qui, ieri sera. Ed ha evidentemente interpretato male» sbuffa scocciato.
«Qual è il problema? Non ci crede nessuno a delle stupide voci...»

«E tu? A cosa credi?»
«Io?» lo guarda sorpresa senza capire.
«Sì. Vorrei che fosse chiaro che il motivo per cui ieri ci siamo allontanati insieme è che facevi leggermente pena qua seduta da sola a piangerti addosso.»

Rapido come un getto di acqua fredda, doloroso come una puntura di calabrone.
Dopo aver notato lo sguardo sbigottito di Rebecca, precisa: «Senza offesa, parlo da spettatore oggettivo di uno spettacolo poco invitante.»

Becky è completamente spiazzata. Se solo si fosse minimamente resa conto che lui la stava considerando solamente per pena, non avrebbe decisamente varcato la porta di quell'edificio la scorsa notte.

«Come può una persona arrogante e impulsiva come te essere a capo di un'azienda come questa?» si ricompone, sorridente e tagliente come una lama appena affilata.

«Amo la sincerità. Senti, ora devo andare. Ci tenevo solo a chiarire la situazione in modo che con te non ci fossero incomprensioni. Anche perché sarebbe assurdo solamente pensare di poter credere ad una sola delle voci che si sentono oggi in questo ufficio. Da pazzi» pronunciando questa frase alza particolarmente la voce, per fare in modo che anche altri in quella stanza lo sentano.

Poi gira i tacchi e se ne va. Lasciandola li in piedi come una cretina.

Ma che diavolo...?

Parecchia gente è voltata verso di lei.
Quando incrocia il loro sguardo, fingono improvvisamente di fare altro.

In quel momento, forse per la prima volta da quando è qui, Becky sente la voglia di tornarsene a casa. Per un millisecondo, una frazione di tempo piccolissima, pensa che la cosa migliore sia quella di dare le dimissioni.

Una tale umiliazione.
In fronte a dei colleghi, perfino.

Quella sera, di fronte a una tazza di camomilla, nemmeno la chiamata con suo papà riesce a consolare il suo umore nero.

«Papà ho appena perso la dignità in quell'ufficio.»
«Non dire sciocchezze, non hai perso un bel niente. E' solamente un ragazzino che gioca a fare il grande perché è di qualche grado sopra di te. Non lo devi nemmeno prendere in considerazione!»

«Papà, è il responsabile del mio settore! Se non ci vado d'accordo, non farà altro che peggiorare tutto fino a quando sarò costretta ad andarmene, se non a farmi licenziare.»

Si rende conto della verità delle sue parole.
«Se non me ne vado prima che Jeremy vada in pensione, lui di sicuro mi licenzierà. E sai quanto pesa un licenziamento sul curriculum, a maggior ragione dal primo impiego!»

«Ma è solo un giovanotto. Non capisco cosa tu possa aver fatto per non farti rispettare così! Sei sicura di non averlo trattato male al colloquio?!» le chiede, più preoccupato di lei.

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