5 ELE

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Ieri non è venuto.

Ammetto di averlo aspettato. Continuavo a guardare fuori dalle finestre, nella speranza di vederlo arrivare. Lo so che è da stupidi, ma non posso mentire a me stessa. Non avrebbe senso.

Asciugo i bicchieri. Altra serata interminabile. Per fortuna è venerdì e la mia settimana è finita. Domani e domenica sarò alla pizzeria. E poi cinque giorni di riposo. Devo assolutamente portarmi avanti con lo studio e forse riuscirò a laurearmi la prossima estate. Devo scriverlo nei propositi dell'anno nuovo.

Mancano due settimane a Natale e poi l'ultimo dell'anno. Devo iniziare a farmi venire in mente qualcosa per i regali. Che cosa regalo a Erre? È il primo Natale che passiamo come una vera famiglia, considerando che è venuto a vivere da noi a gennaio. Se penso alla litigata furiosa che avevo avuto con mamma quando mi aveva detto che lei e il suo compagno, da un sacco di tempo, volevano fare un passo avanti nella loro relazione, mi rendo conto di essere stata egoista.

«Tu e tua sorella, ormai, siete grandi. Ho diritto anche io a rifarmi una vita!». E aveva ragione. Quindi Erre ha fatto armi e bagagli e ha portato la sua enorme stazza in casa nostra. Non ho mai capito cosa ci trovi, mia madre, di affascinante in lui. È alto, molto alto, con una bella pancia rotonda, una calvizie pronunciata e degli enormi baffoni neri fuori moda. Mamma è una all'antica, un po' ingenua e molto sognatrice. Forse lui ha visto questo in lei, un'anima da proteggere. Ma lei cos'ha visto in lui?

«Gli ha visto nelle mutande!», mi viene improvvisamente in mente il commento acido e spontaneo di mia sorella, un giorno che ne avevamo parlato.

Mi scappa un sorriso.

«Di solito parli da sola o è solo lo stress?». Mentre grido per lo spavento, il bicchiere mi sfugge dalle mani, ma per fortuna la caduta viene attutita dallo spesso tappeto che usiamo dietro il bancone. Da quanto tempo Mat è lì? Insomma, quando è entrato? Perché non mi sono accorta di niente?

«Che vuoi dire?», balbetto penosamente.

«Eri, tipo, incantata. Fissavi un punto a vuoto, pensavo ti stesse venendo un accidente e poi ti sei messa a ridere. A caso», mi guarda come se fossi un'aliena e a me non viene nessuna risposta intelligente.

«Scusa», dico. Sono proprio un'idiota!

«Gli altri sono arrivati?», chiede. Lo guardo. «Botte e gli altri. Abbiamo un compleanno stasera e mi hanno detto che ci saremmo trovati qui». Quindi è solo questo il motivo. Perché, che cosa pensavi, razza di stupida? Che fosse venuto per te?

«Fa gli anni Mirko, giusto?»

«Lo conosci?»

«Sì certo, anche se non l'ho mai frequentato. Conoscenza così, si fa per dire», specifico. «Comunque no, non ci sono ancora»

«Allora mi dai una birra», dice lui estraendo il portafoglio e poggiandolo sul tavolo. Stappo la bottiglietta e gliela metto davanti.

La carta d'identità sfugge dal portafogli sgualcito. Io faccio la sfacciata e la prendo prima che ci arrivi lui. Guardo la fotografia nella quale avrà massimo quindici anni e lo trovo tenerissimo. Chiunque abbia avuto la sfortuna di vedere la foto della mia carta d'identità è ancora in terapia e non si è più ripreso.

Matthew Piras, leggo. Ha venticinque anni. C'è scritto studente, ma non ne ha la faccia. Torno sul cognome. Piras...

Il suo cognome mi dice qualcosa. Adesso che ci penso credo di aver sentito nominare Mat, qualche volta, da mia sorella Nicole. Credo sia un amico del suo ragazzo. Com'è piccolo il mondo.

Quando arrivano i suoi amici la serata si anima un po'. Per qualche minuto regna la confusione, la compagnia è numerosa. Faccio i caffè, distribuisco le birre e poi tutti escono al freddo, pronti per la serata. Esce anche lui, senza una parola. Per fortuna che ho praticamente finito il turno. Stasera è volata senza che me ne rendessi conto.

Velocemente pulisco e riordino il locale, lavo i bagni, spengo le luci dei frigo e preparo i sacchi della spazzatura fuori dalla porta. Mentre mi cambio sento la porta aprirsi.

«Siamo chiusi, mi dispiace!», urlo dal magazzino. Veloce infilo il giubbino e torno in sala, perché non posso lasciare il banco scoperto e, al buio, vado a sbattere contro Mat.

«Ehi, attenta!», esclama lui, tenendomi per un braccio. «Ti sei fatta male?», chiede.

«No, no, tranquillo», rispondo in qualche modo. «È che spengo sempre le luci prima, per far capire che siamo chiusi, così mi sono precipitata. Avevi bisogno?», sicuramente per te farò un'eccezione.

«No». Lo guardo e riesco a vedere il suo profilo, grazie all'illuminazione della tettoia esterna. Ha gli occhi che luccicano.

«Allora perché sei entrato?»

«Non ti ho salutato prima», dice. Il suo tono di voce è calmo, tranquillo, completamente padrone di sé. «Così lo faccio ora». Credo che il mio cuore stia rallentando. Mi sembra di non sentirlo più. Sicuramente ho smesso di respirare, altrimenti non potrei essere così immobile. Sono un blocco di ghiaccio.

«Ok», sussurro. Non sono in grado di dire nient'altro.

Lui fa un passo avanti.

«Senti, mi stavo chiedendo...», comincia. E proprio in quel momento la porta si apre di nuovo ed entrambi ci voltiamo di scatto, come se avessimo preso la scossa. Oddio! Questo contatto con la realtà mi ha sconvolta!

«Ciao!». Robbi. Dritto e impacciato sulla soglia della porta.

«Ciao», dico io, sbattendo le palpebre.

«Sono venuto a prenderti. I sacchi li ho già buttati. Se sei pronta andiamo»

«Sì», dico, prendendo la borsa. Per un secondo guardo Mat, che ovviamente non sta guardando me, e mi chiedo che cosa stava per dirmi. Non è venuto dentro solo per salutarmi, quella era una scusa. Accidenti!

«Sei il suo ragazzo?», chiede Mat, avvicinandosi alla porta.

«Si, e tu sei..?»

«Mi chiamo Mat». Si stringono la mano e poi esce. Faccio un sospiro rassegnato. Ma che diavolo mi sta prendendo?

Afferro le chiavi del locale e spingo Robbi fuori, dopodiché chiudo tutto a doppia mandata.

Attraverso il pezzo di strada fino al parcheggio, passo davanti al gruppetto in partenza. Qualcuno mi saluta gentile.

Quando salgo in macchina, dal lato del passeggero, vedo che Mat mi sta fissando.

IL CONFINE DI UN ATTIMODove le storie prendono vita. Scoprilo ora