Prologo

400 14 4
                                    

Vedeva ancora i suoi occhi.

I lunghi e pallidi tronchi che si affollavano sulla collina sembravano delle braccia rinsecchite. Dal basso della terra si ergevano verso la volta celeste che, ombrosa, era la casa di un cielo instabile. E questo, appena coperto dalle foglie di quelle fronde confuse, continuava a tingersi di grigio con zaffate di nubi plumbee, cariche.

Se non fosse stato per l'affanno che gli squassava il petto o per gli occhi vacui e pieni di lacrime amare, probabilmente, si sarebbe perso nella contemplazione. E quella sarebbe stata la prima volta, sì, la prima della sua miserabile vita. Avrebbe osservato le cime lontane pur mantenendo i piedi per terra, immersi nella neve chiara, e sarebbe volato lontano – ancora più su, dove la luna giocava a nascondino dietro la promessa di una bufera. Chissà come si sarebbe dimenticato anche della minaccia che aveva alle spalle e del significato delle parole che vi erano battute sopra – Jedem das Seine: una vera beffa.

Perché si sentisse così vuoto era un mistero bello e buono. Fino a quel momento non avrebbe mai pensato che fosse possibile trovarsi dall'altro lato della barricata, tantomeno che a farlo vacillare potesse essere la tipica incostanza degli ultimi tempi.

Allora deglutì a vuoto. Le braccia pesanti, distese come macigni lungo i fianchi. Cercò di cancellare ogni cosa con una semplice passata di straccio: chiuse gli occhi, li strinse forte e sentì le palpebre premere le une contro le altre per qualche istante – interminabile, come la nebbia dell'anima. E nel vacuo grigiore che sapeva di sangue, le sue narici percepirono il pungente abbraccio dell'inverno.

Tutto quel complesso di negazione aveva forse un senso?

Il gelo nelle ossa, lungo la schiena. Non sarebbe stato in grado di dimenticare nulla, ne era conscio, e se anche si fosse impegnato per farlo, la sua persecuzione sarebbe stata l'ombra di quello sguardo carico d'odio. Riusciva quasi a vederla, a percepirla sulla pelle. Un suono sordo, impalpabile.

«Jedem das Seine» mormorò con una certa stizza, colmo di un'apparente ironia che fece ridacchiare un po' il suo vicino – un tipo strano che conosceva da quando era finito lì, lo stesso che gli aveva mostrato l'ampio margine d'azione che un uomo come lui poteva avere oltre il recinto.

E questi non rispose – non subito perlomeno. Si limitò a ridere tra sé e sé, con l'aria assorta e gli occhi rivolti lontano, verso quello stesso cielo che sapeva di sangue.

«Sarebbe un vero peccato se lo facessi» soffiò poi, lasciandosi andare a un piccolo sorriso di scherno; eppure, i suoi occhi color dell'oceano non si spostarono affatto per osservare Till Zeigler o le sue mani che stringevano la Luger con un accenno di tremore.

Lui sapeva tutto, ogni cosa, e sebbene Till non avesse mai compreso come fosse possibile tanta arguzia o dialettica, in quel momento non sembrò pensarci molto.

«Jedem das Seine» replicò con tono sommesso, sentendolo mugolare appena con fare contrariato – probabilmente riteneva che quella giustificazione fosse idiota.

«Tanto sangue per nulla...» Solo un soffio, mentre nell'aria saliva un suono sordo e i suoi occhi rimanevano lì, fissi verso l'alto.

Cuore di ferroDove le storie prendono vita. Scoprilo ora