Chapter Two.

136 9 2
                                    

HEILAA!

Ciao ragazze sono Olga, la creatrice di questa storia. Spero che tutto il mio lavoro vi piaccia. Vi avviso che magari all'inizio la mia FF potrà sembrarvi monotona e, soprattutto, uguale alle altre, ma vi prego di darmi fiducia, perchè saprò stupirvi! Un bacione!

La prima cosa che sento è il mio respiro, profondo e forte. Forse odo un sospiro, lontano. Muovo la mano, tastando del tessuto intorno a me, perché trovo troppo difficile aprire gli occhi e affrontare tutta quella luce. E sento delle lacrime, che mi chiamano. Che piangono e ringraziano il signore. E poi qualcuno mi abbraccia. E sono certa che quella è mia madre. Allora mi sforzo di aprire di qualche millimetro gli occhi; accorgendosi della mia difficoltà, qualcuno spegne la luce.

“Mamma” la mia voce risuona stranamente metallica.

“Samantha, piccola mia! Come ci hai fatto preoccupare, tu non lo sai! Abbiamo avuto così…” mamma continua a parlare, mentre io, appena sveglia ma terribilmente stanca, faccio solo finta di ascoltarla, preda del mal di testa, mentre anche il sangue che mi scorre in corpo mi provoca dolore.

Per fortuna, qualcuno la zittisce presto; la dottoressa.

“Signora, scusi, lasci tranquilla la ragazza. Ho bisogno di parlarle, ma per favore da soli. Se potesse uscire, mi farebbe un enorme favore”.

Mia madre mi abbraccia ancora, per poi allontanarsi dalla camera.

“Ciao, Samantha , sono la dottoressa Gemma Styles. Mi rendo conto che sarai molto stanca, ma devo farti qualche domanda ora che sei cosciente. Sai, per le inchieste..”

-         - Inchieste?- Penso.

“Per favore, muovi la mano destra per dirmi sì, e la mano sinistra per il no. Capito?” Chiede la dottoressa con un sorriso gentile. Muovo la mano destra.

“Hai dolore alla testa?” Mano destra.

“Ma ci vedi bene?” Mano destra. La dottoressa, appuntandosi le risposte, sembra sollevata da questa risposta.

“Respiri bene?” Mano destra.

“C’è qualche parte che senti addormentata?” Mano sinistra. La dottoressa abbassa il foglio su cui sta scrivendo e mi sorride.

“Ok, a parte i traumi, che guariranno, sembri non aver subito danni permanenti. Presenti qualche livido, molti graffi e una frattura alla tibia, ma comunque ti riprenderai. Ti ricordi cos’è successo?” Mano sinistra.

“D’accordo, cara. Allora ti racconterò io quello che so. I tuoi genitori sostengono che tu sia uscita con il tuo motorino per andare in un pub; a notte fonda non eri ancora tornata. Dei passanti ti hanno vista circa all’1 di notte, per terra, svenuta in una strada molto lontana dal pub in cui saresti dovuta essere. Lo scooter a quasi un chilometro di distanza, danneggiato dallo scontro con un auto. Il guidatore sostiene che ti sei alzata di fretta e sei scappata barcollando; ha cercato di rincorrerti, ma, essendo anziano, non è riuscito a raggiungerti. Ti torna qualche cosa in mente?”

“No…” comincio a parlare.

“Ok, sarò franca. Abbiamo trovato nel tuo corpo sostanze stupefacenti; pensiamo che, sotto il loro effetto, tu ti sia messa alla guida e per questo abbia causato un incidente.”

Gli occhi mi si riempiono di lacrime. Sono sicura di non aver preso nulla, non l’avrei mai e poi mai fatto. Tento di dirlo, ma, vedendo la mia agitazione, la dottoressa mi dice di stare tranquilla, perché i miei non sono arrabbiati ma solo preoccupati e si congeda; ma a me non importa dei miei genitori: io non sono quella che prende droga.

La realtà mi piomba addosso, pur senza che alcun ricordo si affacci alla mente. Appena mia madre rientra, DEVO dirglielo: “Mamma, io non ho preso nessuna sostanza, davvero” dico, strascicando le parole e balbettando un po’; “ho preso un drink però, devono avermi messo dentro qualcosa. Merda.”

“Non preoccuparti tesoro, non è questo il momento di parlare.” Dice lei, accarezzandomi la testa.

Quando mi sveglio, è ormai piena notte. Cerco di mettermi seduta, ma la tibia rotta non mi permette di fare granchè forza, perciò mi rassegno e alzo leggermente lo schienale del letto d’ospedale. La testa mi fa male, non so nemmeno che giorno sia. Trovo il cellulare sul comodino e, accendendolo, lo ritrovo pieno di messaggi di persone in pensiero eccetera. Scrivo solo a mio fratello Harry, sorpresa che non mi abbia scritto nulla. Domani lo chiamerò, ma ora è decisamente troppo tardi. Cerco poi di dormire, ma la testa mi tormenta e l’unica cosa che riesco a pensare è di chiamare l’infermiera per fare aprire la finestra della stanza in cui alloggio sola. Col senno di poi, avrei dovuto ringraziare mille volte l’infermiera per aver lasciato socchiuso l’uscio. Nella penombra, spunta una testa ricciuta.

“Ciao, sono Harry. Ti disturbo?”

Dentro di me mi chiedo chi sia mai il malato mentale che girovaga di notte tra le camere di ospedale.. Ma qualcosa nel suo sguardo, anche in quel buio, mi obbliga a dirgli di no, che può entrare. Mi vedo avanzare davanti un ragazzo in stampelle che si siede su una sedia di fianco al mio letto, spiegandomi che no, non è pazzo, ma solo un ragazzo stufo della sua riabilitazione troppo lunga; sta cercando compagnia giovane, a quanto pare. Mi fa sentire molto sollevata, dato che non so quanto dovrò rimanere rinchiusa lì dentro.

Parliamo per circa un’ora e non saprei raccontare a qualcuno neanche di cosa; l’unica cosa di cui sono davvero certa, è che Harry non mi ha dato nessuna informazione precisa su di se. Solo che si chiama Harry e che ha 22 anni. Scopro da sola, prima che se ne vada, che è un ragazzo estremamente intelligente, molto simpatico e che è il tipo che suscita curiosità e fascino.

Harry arriva puntuale per le quattro notti successive, intorno all’1 di notte e i dottori notano un buon miglioramento nelle mie ferite superficiali. Quando mia mamma mi dice che mi trovava molto migliorata anche nell’umore, arrossisco, pensando al mio nuovo amico.

Insane.Where stories live. Discover now