Chapter Three: Incubi Ricorrenti e Posti Segreti

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"Le perdite sono positive: Lo so, è difficile

 da accettare, ma è così. Dobbiamo imparare

 a perdere, visto che prima o poi perderemo

 ogni cosa.

-Bracialetti Rossi"

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Incubi Ricorrenti e Posti Segreti

Mi svegliai di soprassalto, un altro incubo, sempre il solito, quello che da tempo ora mai non mi lasciava più dormire proprio tranquillamente.
 
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Stavo seduta sul letto con un libro in mano, mia madre era di sotto a preparare la cena.
Mio fratello era uscito con mio padre, quella sera giocava la loro squadra del cuore, e nonostante la tempesta i due non avevano resistito alla partita che aspettavano da tutta la stagione.
 
Successe tutto molto velocemente, mia madre mi chiamò per la cena, qualcuno bussò alla porta. Non sapevo che quel qualcuno avrebbe portato una brutta notizia, probabilmente la più brutta della mia vita.
 
Fu tutto veloce, sentii un urlo strozzato di mia madre, la sentii singhiozzare, ero un poliziotto, indossava una brutta divisa, era di un colore triste.
 
Parlò con mia madre e poi se ne andò.
 
Mia madre non parlava, aveva lo sguardo perso nel vuoto, era come se qualcosa le fosse stato strappato al improvviso, come se fosse successo qualcosa, piangeva, singhiozzava, chiamò la nonna.
 
La nonna arrivò poco tempo dopo, piangeva pure lei, non riuscivo a capire perché, cos’era successo, cosa poteva essere accaduto per aver stravolto le vite di due persone. Cosa poteva aver turbato due donne a tal punto da continuare a versare amare lacrime.
 
Mi ricordo che la nonna disse che tutto si sarebbe aggiustato. Non sapevo di cosa parlasse. Mamma la guardò e le mimo una specie di “lei non sa niente” cosa dovevo sapere.
 
Era tardi, ero ancora sul divano, mamma continuava a piangere, aveva fatto molte telefonate, aveva parlato del ospedale. Se qualcuno stava lì non era un bel segno, nonna mi teneva abbracciata, era tardi.
 
Derek e papà non tornavano. Mi stavo preoccupando.
 
Poi tutto ebbe un senso.
 
Mamma che parla di un incidente a zia Kate, l’ospedale, papà e Derek che non tornavano, la mamma che piangeva, la nonna che non capiva.
 
Senza che me ne accorgessi lacrime amare iniziarono a rigare anche il mio volto, mamma e nonna non se ne erano accorte, iniziai a singhiozzare pian piano, nonna si girò verso di me, mamma fece lo stesso, mi videro rannicchiata in un angolo del grande soggiorno color panna.
 
Avevo capito tutto. Loro lo avevano capito.
 
Nonna mi venne ad abbracciare, come se non volesse lasciarmi andare. Avevo dodici anni, e stavo abbracciata a nonna come un koala, come una bimba di cinque.
 
Avevo capito che non avrei rivisto Derek e papà tanto presto. Avevo capito che forse non li avrei rivisti.
 
Mamma aveva smesso di piangere, io no, io mi ero chiusa in me stessa. Ero dentro una bolla. Io e le mie sofferenze. Avevo chiuso fuori il resto del mondo.
 
Mamma mi si avvicinò, mi abbraccio. Mi guardò con uno sguardo dolce, di una donna che aveva sofferto, e che ancora ora soffriva.
 
Mi disse che papà e Derek avevano fatto un incidente.
 
Mi disse che erano in ospedale.
 
Mi disse che però non erano vivi.
 
E in quel momento il mio mondo crollò. Avevo pianto, avevo pianto tanto, forse troppo, eppure non avevo ancora elaborato del tutto la mia perdita.
 
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Facevo quell’incubo da cinque anni ormai. Quasi tutte le notti tornava a perseguitarmi.
Pensandoci bene però, quando dormii a casa di Harry non sognai papà e Derek, quel ragazzo ha un potere magico su di me.
 
E così, risvegliata dal mio dolce sonno, a causa della cosa più brutta che la vita mi aveva riservato mi addormentai pensando a un dolce angelo con occhi verdi e fossette.
 
Mi risvegliai verso le due del pomeriggio. Sfaticata com’ero la sera prima mi ero dimenticata di mettere la sveglia. Quindi mi ritrovavo a dover fare tutto di corsa come al solito.
 
Scesi le scale e mi recai in cucina, dove trovai mia madre seduta su uno sgabello della piccola isola con il portatile davanti. Sicuramente stava finendo uno dei suoi numerosi articoli. Da quando papà e Derek erano morti si era gettata a capofitto nel lavoro, ritagliando però una parte del suo tempo da dedicare sempre a sua figlia. Infatti io la consideravo la mia più grande confidente. Era come una migliore amica. Una di quella che sa mantenere i segreti però.
 
-Dato che ieri avresti potuto fare invidia a Usain Bolt da come sei corsa via di casa dopo che ti ho chiesto spiegazioni le pretendo ora.- Il sorrisino divertito che aveva sul volto fece sorridere anche me. Non avevo mai avuto un ragazzo, e forse questa mancanza era pesata più a lei che non a me.
 
-Giorno mamma, sto bene anche io non preoccuparti.- Mi rivolsi a lei in tono ironico scoccandole subito dopo un sonoro bacio sulla guancia sinistra.
 
-Non la passi liscia ragazzina. Sputa il rospo.- Mio padre avrebbe detto le stesse identiche parole, aggiungendo un da quando in qua ti piacciono i ragazzi, credevo mi avresti sposato una volta diventata maggiorenne.
 
-Allora, come ti ho detto ieri Harry è il mio nuovo istruttore di nuoto. E’ parecchio simpatico anche se all’inizio sembrava un vecchio brontolone. Ha gli occhi verdi, i capelli castani, è tipo tre volte più alto di me, ed è molto carino. Stasera usciamo e non credo di doverti raccontare altro.- Precisai, la vedi restare partecipe per tutto il tempo, annuendo a tratti facendomi capire di aver inteso tutto o quasi.
 
-Dunque credo che stasera non sarai a cena con me, giusto?- Annui leggermente, anche se io e Harry non avevamo parlato di una cena. Al massimo sarei rimasta senza cenare.
 
Salutai mia madre che in fretta corse al lavoro e con molta calma andai a farmi una doccia calda.
 
Mi spogliai pian piano e accesi l’acqua aspettando che si scaldasse. Entrai nella doccia e l’acqua calda iniziò ad avvolgermi rilassandomi i muscoli. Uscii dalla doccia e subito la temperatura decisamente troppo bassa dell’aria mi fece rabbrividire.
 
Andai nella mia stanza e pian piano inizia a vestirmi. Misi dei jeans grigi a sigaretta e ci infiali sopra una felpa nera di una taglia più grande della mia, misi le mie immancabili all star nere e scesi in soggiorno aspettando l’arrivo di Harry.
 
Non avevamo concordato un orario preciso, avevo soltanto detto in serata. Erano le sette e io mi ero appena seduta sul divano, quando suonò il campanello.
 
Mi alzai lentamente dal divano per andare ad aprire.
 
Trovai Harry al di là della porta in tutta la sua bellezza. Camicia bianca messa all’interno dei jeans scuri che avvolgevano perfettamente le sue lunghe gambe allenate.
 
-Buonasera piccola- Aveva esclamato dopo avermi fissato dall’alto al basso per una manciata di minuti che parve infinita. Ovviamente io come una cogliona ero arrossita al suo “piccola” non ero abituata a farmi trattare così dai ragazzi. Avevo dato il primo bacio a quindici anni, ma non ero mai andata oltre, e non avevo mai avuto una relazione più di tanto seria.
 
-Ciao Harold- Esclamai seguita da una risatina. La sua faccia a quel nome si trasformò quasi in una smorfia di disgusto, che però fu quasi subito ritrasformata in un sorriso giocoso.
 
Presi la borsa e le chiavi, chiusi la porta e con la mano stretta salda in quella di Harry mi incamminai verso la grande ranger rover che ci attendeva.
 
Appena entrata nella spaziosissima auto un dolce calore mi invase, accompagnato da un buon profumo di vaniglia. Harry mise in moto e partimmo. La meta mi era sconosciuta. Durante il viaggio si sentiva solo la radio che in quel momento trasmetteva la dolce melodia di “lego house” di Ed Sheeran. Il riccio seduto alla mia destra canticchiava di tanto in tanto le canzoni che senza senso passavano alla radio.
 
Uscimmo dalla città, eravamo in mezzo ai boschi. Mi stavo chiedendo dove mi avrebbe portata. Harry era molto concentrato, con la mano destra teneva il volante mentre con la sinistra scalava qualche marcia.
 
-Harry, dove stiamo andando?- Chiesi con voce flebile quando vidi il riccio accostare e un piccolo parco alla nostra sinistra.
 
-Ti ho portato nel mio posto.- Rispose a tono. Non capivo cosa intendesse con quell’affermazione. Tutti avevano un proprio posto. Quello che faceva la differenza era ciò che si faceva in questo posto. Certa gente pensava, certa piangeva, certa urlava, o più semplicemente stava in silenzio ad osservare il panorama.
 
Imboccammo l’entrata del parco, ci fermammo da un venditore di hot dog e ne comprammo due da consumare come nostra cena.
 
-Quanto è?- Chiese il riccio al ragazzo probabilmente straniero che ci aveva velocemente consegnato gli hot dog.
 
-Sono cinque sterline.- Esclamo il ragazzo dagli occhi marroni e la pelle olivastra. Harry annui, mi passò il suo hot dog e con un gesto veloce estrasse il suo portafogli dalla tasca posteriore dei suoi skinny jeans neri. Pagò il ragazzo e ricominciammo a camminare, fermandoci solo poco dopo in una panchina abbastanza isolata dal resto del parco, illuminata però da un piccolo lampioncino.
 
-Avrei benissimo potuto pagare la mia parte.- Esclamai ad un certo punto, un po’ per spezzare quel silenzio e un po’ perché era la verità.
 
-L ho fatto volentieri. Ti ho invitato ad uscire io, quindi era giusto che io pagassi. E poi non faccio mai pagare le mie piccole quando sono con me.- Mi rispose Harry dopo aver mandato giù l’ultimo boccone del suo hot dog.
Cosa voleva dire con le “mie piccole” forse trattava tutte così. Che poi non mi aveva riservato nessun trattamento speciale, quindi magari per lui era solo una semplice uscita tra amici. Quindi ero io l’unica che si faceva tutte queste paranoie inesistenti.
 
-Per “le mie piccole” intendo mia madre, mia sorella, e te in questo momento, non farti paranoie. Non ci provo con tutte se è quello che stai pensando.- Esclamò ad un certo punto. Gli regalai un leggero sorriso che lui velocemente ricambiò, forse provava qualcosa anche lui. Forse non ero l’unica a rimanere con una faccia da ebete ogni qualvolta mi scoccasse un leggero bacio sulla guancia. Forse anche a lui la vicinanza che si stava creando tra noi faceva sentire tante piccole farfalle nello stomaco.
 
Parlammo per un tempo che parve infinito. Scoprii che aveva diciannove anni, che frequentava ancora le lezioni, ma che questo era l’ultimo anno, che vive con sua madre, il suo patrigno, e sua sorella, e che verso quest’ultima era molto protettivo. Insomma faceva anche la parte del fratello geloso.
 
Ci alzammo dalla panchina in cui ormai avevamo piantato le radici e iniziammo a camminare. Un po’ perché ci si era appiattito il sedere e un po’ perché iniziavamo ad avere seriamente freddo. Ad un certo punto arrivammo sotto un piccolo gazebo circondato da rose rosse.
 
-Ecco, più precisamente è questo il mio posto. Vengo qui da quando i miei hanno divorziato. Avevo iniziato a sentirmi solo, e questo posto mi trasmetteva la tranquillità di cui avevo bisogno in quel periodo. Quando ho bisogno di prendere decisioni importanti, di pensare o più semplicemente di stare solo vengo qui. Sei la prima che porto.- Posso dire che a quella dichiarazione mi ero un po’ come dire, “commossa” ero la prima che portava in questo posto, nel suo posto, nel posto che sa da lui.
-Anche io ho un posto tutto mio sai? All’inizio era mio e di mio padre, lo scoprimmo per caso quando avevo più o meno cinque anni, e dal quel momento ogni volta che volevamo stare un po’ soli andavamo in quel posto. Credo che ti porterò un giorno. Poi mio padre andò a vedere una partita della squadra del cuore sua e di Derek, mio fratello, non tornarono più, un ubriaco li aveva centrati in pieno, non aveva visto il semaforo rosso. Morirono sul colpo. Da quel giorno quel posto è diventato solo mio, non lo condivido con nessuno.- Raccontai con le lacrime agli occhi. Non gli avevo mai accennato nulla sul mio passato, e probabilmente non si aspettava fossi senza un padre e un fratello. Lo vidi seguire attentamente ogni parte del mio racconto. Fece una faccia dispiaciuta una volta che finii di raccontare il tutto, ma ormai ero abituata alla compassione della gente.
 
-Non ti dirò che mi dispiace, dato che probabilmente sarai abituata a sentirtelo dire. Non voglio darti la mia compassione, niente del genere. Probabilmente credo potrò solo starti accanto, perché per esperienza personale so che la compassione della gente fa solo schifo.- E con un gesto repentino si avvicinò sempre di più al mio corpo, abbracciandomi delicatamente.
 
 Alzai lentamente lo sguardo sperando di incontrare i suoi occhi smeraldini e fu così. I suoi occhi color smeraldo incontrarono i miei color oceano, pian piano si avvicinò al mio viso, mi spostò una ciocca che in un moto di ribellione era fuggita alla mia perfetta coda di cavallo. Mi alzo e il viso e pian piano mi baciò. Un bacio delicato, dolce, e per nulla indiscreto. Dopo minuti che parvero infiniti ci staccammo e come telepatici ci sorridemmo. Sul suo viso comparvero due tenere fossette a contornargli le labbra che poco prima era state pressate sulle mie.
 
Avevo ancora un dolce gusto di menta sulle labbra quando arrivammo nel vialetto di fronte casa mia. Mi tolsi la cintura molto lentamente, non volevo lasciarlo andare, lo volevo a casa con me, volevo stare tra le sue braccia per sempre.
 
-Piccola, siamo arrivati. Ci vediamo domani.- Esclamò il riccio ad un certo punto. Gli sorrisi e feci per aprire la portiera, ma qualcosa, o meglio qualcuno mi fermò.
 
-Hei non dimentichi qualcosa?- Domando con una voce innocente e uno sguardo da bambino.
 
Gli sorrisi e pian piano avvicinai il mio viso al suo che aveva ancora un piccolo sorriso sulle labbra. Gli scoccai un dolce bacio sulle labbra che parve durare un tempo infinito e dopo un “Buonanotte Harold, a domani” chiusi la portiera dell’auto restando impalata come una stupida davanti la porta di casa mia.

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