Capitolo 13

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Tempo.
Il concetto più relativo cui riesco a pensare. Un secondo o dieci giorni, come sono? Veloci? Lenti?
Negli ultimi dieci giorni ci sono stati ottocentosessantaquattromila secondi. Alcuni mi sono sembrati velocissimi, neanche li ho notati. Altri sono sembrati eterni. E mi ritrovo a galleggiare in questi ultimi, adesso. In quelli che sembrano non passare mai.

Guardo l'orologio della stazione. Dodici e cinquantasette. E sono ore che è fermo lì. E sono ore che sono fermo qui, davanti al binario nove con un cartello in mano. Sembro uscito da un film, è una cosa che non si vede tutti i giorni.

È divertente.
La città dei due mari non è solita a questo genere di cose. I passanti mi guardano incuriositi, probabilmente si domandano chi possa mai avere un nome tanto buffo, come quello che ho scritto sul mio cartellone.

È stata un'idea mia, a lei è piaciuta.
Però non so se abbia colto il motivo alla base di tale scelta. La realtà è che sono geloso del suo vero nome e non voglio condividerlo con nessuno. Nemmeno con gli estranei che mi vedranno, quando lei arriverà. Se ci avessi scritto sopra "Marlena", tutti i presenti l'avrebbero letto e io non l'avrei sopportato. Il suo nome me lo sono guadagnato, l'ho vinto a una roulette impossibile sfidando la fortuna. Mi venderei l'anima, piuttosto che cedere così un tale segreto.

Arriva. Un treno, arriva! Che sia il suo?

Mi protendo in avanti, sulle punte. Come bastasse a vedere meglio, a scrutare nei vagoni.

Niente. Ho visto male, si ferma sulla corsia opposta.
Sbuffo, ma quanto ci mette?
Guardo l'orologio: dodici e cinquantasette, ancora. Possibile? Controllo sul mio. Dodici e cinquantasette. Cazzo...
Un altro treno. La volta buona?

Si ferma proprio in corrispondenza della linea gialla di fronte a me. Sì, dev'essere per forza il suo. Una voce metallica ne annuncia l'arrivo. Finalmente.
Mi preparo: tachicardia varia e cartello al petto, per nasconderla. Gente che scende, una folla sparsa. Parenti che si ricongiungono, studenti con trolley e valige al seguito e gente che sembra non avesse di meglio da fare che prendere un treno, stamani.
Cerco di evitarli, di non lasciarmi soffocare dalla calca, di restare visibile in quel marasma. Alzo il cartello sulla testa, sperando mi veda lei perché io non riesco a vedere proprio nulla.
Schivo. Scanso. Evito. Urto. Mi scuso. Piroetto. Sfilo.
Pian piano si disperdono tutti. Il capostazione si assicura che i vagoni siano vuoti e che nessuno sia rimasto oltre la linea di sicurezza. Poi fa chiudere le porte, il treno riparte per raggiungere il deposito.
E io resto solo e con il cartello tra le mani. Che dalla testa si abbassa. Lentamente, al salire di una bruciante delusione.

Non è venuta?

Il sorriso si spegne.

Perché...?

Ma poi tutto si fa buio. Due mani mi coprono gli occhi da dietro. Sono fredde, dita sottili. Non le riconosco. E nemmeno la voce che mi sussurra all'orecchio.
«Indovina chi sono?»

Lo so chi sei, anche se non mi hai mai parlato prima.
Lo so chi sei, anche se non mi hai mai toccato prima.
Lo so chi sei, anche se non mi hai mai incontrato prima.
Io so tutto di te, come tu sai tutto di me.
Perché... è tutta la vita che ti aspetto.

Poggio le mie, sulle sue. Non voglio che questo contatto si sciolga presto, è un momento magico e devo farlo durare il più possibile. Mi sento i battiti nelle orecchie. Le prendo la mano sinistra e me la poggio sul petto.

«Non lo so, parlami ancora e vediamo se indovino.»
Sussurra ancora.
«Dai che ci riesci, fai un piccolo sforzo.»

Ha una voce calda, impostata, suadente. La tiene bassa, la modula, la controlla alla perfezione, come una che ci lavora. O ci ha lavorato in passato. Una speaker radiofonica, un'attrice, una doppiatrice o qualcosa del genere. Oppure è solo un talento naturale, un dono. Divino.

«Hai una voce fantastica, lo sai?»
«Davvero?»
«Sì. Non sarei riuscito a immaginarmela più bella.»
«Grazie. La tua invece fa davvero schifo...»

Mi fa ridere. Ha ragione, è sgraziata e stonata. Spesso roca, il più delle volte nasale. Continua a parlare lei e mi scioglie sempre più.

«Meno male che il resto è oltre ogni aspettativa. Altrimenti non sarei scesa proprio dal treno.»
«Davvero?»
«Certo che no, stupido...»

Mi lascia andare, girandomi attorno.
È lei. È la stessa della foto, solo in 3D. Bellissima. Un fiume di pece sulla testa, carnagione chiara quasi pallida. Labbra rosse e carnose, screpolate, che spiccano sotto occhi contornati di una sottile linea di matita nera.

Ha uno sguardo che racchiude tutte le meraviglie del cosmo.
Affascina. Penetra.
Sono occhi famelici, occhi affamati.
Occhi che ti guardano dentro.
Che ti divorano.
E mentre lo fanno, t'incantano.

Ci fissiamo da meno di mezzo metro. In silenzio, sul punto di fare qualcosa che però nessuno dei due ha il coraggio di fare. Fuoco vicino alla benzina, ma non abbastanza da innescare l'incendio.
Mi tende una mano, presentandosi.
Ma a cedere all'emozione sono io, sono troppo emotivo. È il mio difetto migliore. L'afferro, quasi la sollevo da terra. La riesco a sorprendere solo per un istante, perché poi mi stringe anche lei. Attorno al collo. E forte.

Non ci vedevamo da tanto. Da quando ci siamo conosciuti. Un mesetto, all'incirca. Decisamente troppo tempo.

«Non ci credo che sei qua. Sei vera! Tu... sei vera!»

Non risponde. La sento sorridere e stringere di più, più forte, più a lungo. Profuma di buono, dev'essere la maglia o i capelli o non lo so nemmeno io cosa.

La sua aura? La sua anima? È qualcosa che trascende lo spazio e le leggi della fisica e della biologia e mi penetra dentro fino a sconquassarmi definitivamente.

Non provo questa sensazione da così tanto di quel tempo che mi fa male. La forza che mette nella stretta mi uccide e rinascere e sentire desiderato e voluto. E io m'ero dimenticato ci si potesse sentire così, perché con il tempo ci si abitua a tutto. Anche alla noia e all'indifferenza, all'apatia. Al nulla.

È sempre per colpa del fottuto tempo che inizi a credere di non avere più il diritto di sentirti così. A non meritarlo più. E lentamente, senza rendertene conto, smetti semplicemente di sentire. Di sentirne il bisogno. E i giorni passano uguali e il sole che guardi nel cielo è sempre lo stesso. E ti credi come lui ma sbagli, tu sei cambiato. Sei un giorno più vecchio e un giorno più stanco e un giorno più vicino alla fine.

E poi arriva un abbraccio come questo, che ti ammazza per l'intensità e ti resuscita subito dopo. Che ti lava via tutto il buio che ti porti dentro e semplicemente riprendi a respirare.
A vivere.
E c'è una sola parola che riesce a fuoriuscire dalla tua bocca, quando ti trovi davanti un simile miracolo.
«Grazie!».
E lei non si stacca e ti sussurra ancora nell'orecchio.
«Per cosa?»
E ti sorprendi che riesci a parlare, ancora una volta.
«Di avermi salvato...»

Take On Me [Completa - In Perpetua Revisione]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora