8. La perversa attrazione per il male

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Una falena dorata non avrebbe dovuto svolazzare tutta sola per i campi baciati dalle prime e lievi ombre

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Una falena dorata non avrebbe dovuto svolazzare tutta sola per i campi baciati dalle prime e lievi ombre. Non in maniera tanto distratta, almeno, alla ricerca di una farfalla molto più maestosa. Carezzando il terreno desolato e impregnando l'aria della sua delicata fragranza, non si rendeva conto di disegnare un'irresistibile scia per i predatori in agguato.

La falena lo sapeva, io lo sapevo, eppure perseveravamo entrambe nel nostro testardo tragitto.

Il mare seguiva i nostri spostamenti, silenzioso e apparentemente pacato, e ci guardò imponente quando giungemmo sullo stretto istmo che separava Little e Great Sark. I novanta metri d'altezza sul livello della Manica non ci spaventavano e nemmeno le gracili ringhiere che i muratori avevano aggiunto da poco ci potevano bloccare. Eravamo guerriere, eroine troppo prese da noi stesse per considerare il pericolo.

Ma il diavolo lo sapeva ed era sempre un passo avanti.

Trovai subito Alexander, al margine dell'unico sentiero che passava dal Chief Pleas. Ogni sabato pomeriggio andava a salutare suo padre e di certo non avrebbe mancato l'appuntamento quel giorno in cui era tradizione commemorare i defunti.

Il cimitero si ergeva nel nucleo dell'isola, su una collina, dietro una chiesa dai muri scrostati. Era uno di quelli privi di recinzioni, con lapidi deteriorate e altre estremamente curate. E come qualsiasi cosa a Sark era la location perfetta per un film dell'orrore; con ogni probabilità avrei anche potuto scovare cripte segrete sotto i sepolcri.

Io non avevo nessuno a cui portare i fiori lì, la tomba di famiglia era costruita all'interno della Seigneurie e comunque i parenti che mi erano stati a cuore – e che avevo davvero conosciuto – avevano rifiutato il seppellimento.

Le anime dei peccatori desideravano la libertà, la vera libertà, più degli innocenti.

«Posso farti compagnia?» domandai con il fiatone, emettendo una nuvoletta che mi gelò il naso.

Il giovane sussultò prima di voltarsi per metà, permettendomi di individuare le lunghe ciglia nere e le labbra arrossate. Indossava un cappello di lana e nel notare la barba corta pensai a come sarebbe stato bello avere le mani calde e posargliele sulle guance, giusto per assaporarne completamente la morbidezza. Era imbacuccato con una spessa sciarpa intorno al collo e nonostante ciò restava ancora affascinante, con quella bellezza nascosta nei particolari che apparteneva soltanto a lui.

Aggrottò le sopracciglia folte, lanciando una sbirciata alla via. «Dov'è Sibyl?»

«Oh, non ti arrabbiare con lei» cominciai a blaterare. «Al momento ha un guaio da risolvere e poi sai che è difficile tenermi al guinzaglio.»

Parlavo con lui con una tale leggerezza... come se fossimo stati vecchi buoni amici, come se non vi fosse stato un passato da temere, grande quanto un macigno, in mezzo a noi.

Prese del tempo per replicare, forse indeciso se adirarsi o lasciare perdere. Alla fine si abbandonò a un sorrisetto. Dio, lui sarebbe stato capace di soffocare le emozioni più terribili in qualunque situazione. Si metteva semplicemente a mostrare i denti brillanti e la gente ci cascava pure. Tuttavia io ero diversa, io trasportavo parecchi demoni e lo vedevo tutto ciò che un angelo ferito era in grado di celare dietro le ali lucenti.

«Lo so» mormorò in un misto di divertimento e apprensione. Sembrava che la sua voce divenisse più profonda ogni dì che trascorreva, ammorbata dagli incubi che ci circondavano. «Non importa, adesso ci sono io.»

Mi cinse le spalle in un modo così naturale che a malapena me ne accorsi, in fondo un tempo ero fatta per essere incastrata contro il suo corpo. Non capii bene se il brivido che mi scosse fosse dovuto alla brezza o a quel contatto, ma un'ulteriore tenue stretta da parte del ragazzo cancellò ogni dubbio. La caratteristica colonia mi stuzzicò, costringendomi a infossare il viso nel colletto della giacca per nascondere possibili chiazze vermiglie. I miei capelli si impigliarono alla cerniera del taschino che era cucito sulla manica del suo giaccone, però non mi scomposi, neanche quando un paio vennero strappati.

Dovevo ammetterlo: un po' mi sentivo al sicuro quando eravamo assieme, ero conscia che mi avrebbe protetta da chiunque, ma non sapevo chi mi avrebbe poi protetta da lui. Mi interrogai piuttosto su come facesse a essere tanto premuroso nei miei confronti dopo che... Beh, dopo tutto. Avevo paura a chiederlo, eppure con lui il timore era sempre affiancato dall'innegabile attrazione.

Il bouquet che reggeva nella mano opposta ebbe un fremito e io compresi che neppure quello sarebbe stato un ottimo istante per raccontarci, perché davanti alle nostre figure, abbracciata dal fango che agguantava pure i nostri stivali, c'era Hellier Guille.

Osservai Alexander chinarsi per depositare il mazzo di gigli bianchi, sostituendo quello appassito. Non potevo immaginare quanto dolore dovesse provare, rimasto senza il padre in giovane età. Non avevo mai voluto fargli le condoglianze, non gli avrei mai causato ulteriore sofferenza nel rammentare qualcuno che non c'era più. Ero con lui in quel momento, mi aveva accolta al suo fianco e significava molto per entrambi.

Gettai una breve occhiata alla foto del siniscalco, preferendo indietreggiare per concedere al figlio lo spazio che meritava. Credevo di non potermi ricordare dell'uomo perché pareva avessi rimosso proprio le ultime amicizie create, eppure ebbi tutt'altra impressione così come ero convinta che la morte fosse stata già lì, pronta e in attesa di potersi cibare dei petali freschi. La lapide sembrava addirittura asfissiare sotto l'alito angosciante della Mietitrice e il marmo liquefarsi a causa degli arti scheletrici che volevano ricongiungersi con il male che giaceva in quel punto.

Trasalii nel percepire all'improvviso l'ossigeno schiacciarmi violento verso le viscere della terra priva di vita, persino la luce cambiò all'orizzonte. Sulla costa scorsi la foschia lambire Silver Mines, la solitaria torre di pietra che controllava il promontorio occidentale, e risalire i prati verdi, felpata e velenosa. Una civetta squittì da qualche parte.

Conoscevo benissimo il motivo di quelle familiari sensazioni, esso era sempre stato con me e ora mi era vicino più che mai. La sua faccia non si era mai definita così chiara di fronte ai miei occhi sgranati, le sue unghie non erano mai state così agevolate nell'incidermi graffi invisibili, la sua risata non era mai stata così prossima e forte.

Non poteva essere reale.

Alexander non sarebbe riuscito a visualizzare quanto il mostro mi stava struggendo, non avrebbe dovuto e soprattutto non avrebbe voluto. E io non avrei dovuto concentrarmi sui dettagli che mi erano inizialmente sfuggiti e che adesso mi stavano scorticando, rivelandomi un'intollerabile verità. L'incubo si stava facendo strada nelle mie interiora, putrefacendo ogni organo che incontrava. Le mie difese vennero sconfitte, potevo udire ogni raccapricciante lacerazione che aveva il medesimo suono di ossa che si spezzavano.

Feci quello che mi riusciva meglio, sperando che il moro mi avrebbe perdonato anche quello. Non ero più veloce e agile di lui, ma dovevo comunque respirare. Forse gli avrei fornito una spiegazione fittizia più tardi, tuttavia in quell'attimo dovevo tentare di sopravvivere. Non avevo bisogno di percorrere molti metri, non con le gambe lunghe che mi stavano rincorrendo. Necessitavo solo di avvertire il vento sferzarmi il volto, di far screpolare la pelle per sentirmi viva e pensare che Satana non si stesse appropriando irreparabilmente dei miei tessuti.

Non arrivai tanto distante, la donna che si intromise nella mia traiettoria mi fermò. Ella trasmetteva tremori costanti, non era un porto sicuro, tuttavia la sua aura infetta mi chiamava. Aveva timore di me, però desiderava pure confortarmi. Le sue braccia erano sollevate in un ospitale rifugio, ma il suo sguardo luccicava di incertezza. Non aveva idea di come comportarsi con una come me, aveva paura che potessi sgretolarmi fra le sue mani.

E neppure io sapevo come agire dinanzi alla personificazione di Lilith, mi faceva pena e mi terrorizzava al contempo. Fu l'inconfondibile bocca scarlatta a persuadermi, in preda com'ero del disorientamento. Era socchiusa e leggermente tremolante, era un contrasto troppo intenso con la carnagione pallida, rappresentava il lato oscuro in collisione con quello luminoso.

«Mamma» ansimò trafelato Alexander mentre sceglievo di crollare contro il collo freddo della signora poiché era una mia simile, una contagiata.

Ora il male aveva un nome e un viso, e alla sua famiglia non sarebbe affatto piaciuto.

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