3. Una rosa per ogni tua lacrima da consolare

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Negli ultimi tempi le tenebre erano diventate le mie migliori amiche: quando mi risvegliavo dai brutti sogni erano lì, quando strizzavo le palpebre a causa dei tremori erano lì, quando mi si chiudeva il cervello erano lì

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Negli ultimi tempi le tenebre erano diventate le mie migliori amiche: quando mi risvegliavo dai brutti sogni erano lì, quando strizzavo le palpebre a causa dei tremori erano lì, quando mi si chiudeva il cervello erano lì. Non mi terrorizzavano più, erano divenute la mia casa.

Nel buio della mia vecchia camera solamente la corazza gialla di Pikachu, il mio peluche preferito, brillava. Non lo distinguevo bene sul comodino, ma ero certa che mi stesse guardando con compassione e dovetti resistere alla tentazione di voltarlo verso la parete.

Un altro che aveva scordato quanto detestassi la pietà era mio padre, che avvertivo boccheggiare di continuo nel tentativo di dire qualcosa. Eppure era anche l'unica persona che si era degnata di preoccuparsi, scegliendo di restare nell'oscurità con me, e non aveva importanza che solo qualche ora prima non fosse stato per niente il papà che rimembravo.

«Hai bisogno di aiuto, principessa mia», si decise a sussurrare. «Tutti e due ne abbiamo bisogno» ammise in seguito.

Cosa voleva dire? Io avevo soltanto bisogno di spiegazioni, di riavvolgere il nastro. Alexander, matrimonio... Percepivo le gambe molli al solo pensiero. Mi nascosi contro il collo del Seigneur e lui mi lasciò vibrare in silenzio, districando i nodi dei miei capelli.

«Ehi» soffiò dopo un po', scostando il capo e facendomi il solletico con le punte delle ciocche che gli sfioravano la mascella. «Non dobbiamo affrontare subito l'inferno, capito? Facciamo che ti preparo una camomilla, ci dormi su e ti prendi del tempo, poi, una volta pronta, combatteremo ogni cosa assieme. L'abbiamo sempre fatto, giusto?»

Non era un tipo molto estroverso, tuttavia era perfettamente in grado di consolarmi quando serviva così come io ero perfettamente capace di cogliere la sofferenza che gli sporcava la voce. I lacrimoni vennero a bussare alla mia porta e le parole mi uscirono a vanvera: «Mi dispiace, papà. Ti ho lasciato solo. Ma perché non mi hai detto che stavi male? Perché...»

Accese di scatto l'abat-jour e mi diede un buffetto sul naso. «Shh! Non osare preoccuparti per me» affermò deciso. Le labbra, eppure, tremolavano e le vene erano in rilievo sulla fronte. Si rese conto che lo stavo osservando e si alzò in fretta, promettendo di tornare presto.

Il cuore mi batteva forte e non avevo il coraggio di riconoscere ad alta voce che qualcosa in me non funzionava. Il panico stava per impossessarsi del mio corpo, lo percepivo dal respiro che accelerava man mano. Mi fiondai a cercare i farmaci nella felpa dentro l'armadio, ma un balenio catturò la mia attenzione: nello specchio affisso all'anta c'era un fantasma. Toccai delicatamente le occhiaie violacee che mi solcavano il viso pallido e abbassai altrettanto veloce le dita nello scorgere le ombre che esse disegnavano sulle guance.

Poi, le mie iridi chiare individuarono nel riflesso il comò alle spalle. Lo scrigno dei segreti. Mi ci avvicinai con cautela, incerta sul contenuto, e l'odore di pagine vecchie mi inondò le narici nell'istante in cui feci scorrere il cassetto che custodiva i diari divisi per anno: potevo riesumare l'intero passato sino al 2015, quando ero partita per frequentare l'università. Allungai il braccio, però fui costretta a fermarmi. Non ero abbastanza lucida.

Trascorsi la notte a fissare il mobile di legno, a torturare la mente già piuttosto in poltiglia e a stringere forte la tazza di camomilla. Cosa temevo di scoprire? Di cosa necessitavo ancora per confermare i terribili sospetti? Cosa avrei dovuto fare successivamente?

Serrai di colpo il tiretto che avevo lasciato aperto e mi avvolsi col plaid impolverato, diretta all'esterno. Indugiai appena sulla soglia, esaminando la stanza che mi aveva accolta senza neppure concedermi la possibilità di sentirmi disorientata; non l'aveva fatto neanche quando prima di cena ero rapidamente entrata per cambiarmi e depositare la valigia sulla panca vicino alla finestra. Sembrava che qualcuno – e dubitavo si trattasse della mamma – si fosse impegnato per creare un'illusione in cui non avevo mai abbandonato l'isola poiché ogni oggetto era nella stessa collocazione di quattro anni precedenti. Mi chiesi se perfino le confezioni di lokum che avevo buttato sotto al letto non si fossero mosse.

Non disturbai nessuno nel raggiungere a passo felpato il laghetto del giardino, nemmeno quando misi il muso fuori ed esclamai di stupore di fronte ai colori dell'alba. Ero un morto che camminava, tuttavia almeno non mi ero dovuta imbattere nei macabri incubi. Restai ad ammirare le anatre addormentate che popolavano la riva e non mi spostai nel percepire le ossa raggelare, scosse dalla brezza di ottobre. Era quasi una bella sensazione.

La pozza era costruita un paio di metri a sinistra del sentiero, al di là delle aiuole curate e al limitare del modesto bosco che si estendeva fino al muretto che proteggeva il terreno. L'erba, che non presentava neanche un ciuffo più alto dell'altro, era bagnata dalla rugiada e inumidiva le mie ciabatte pelose. L'umidità mi schiacciava la chioma, innervosendomi, ma qualsiasi pena era sopportabile per un momento della giornata come quello.

Lo spalancarsi di una porta mi mise sull'attenti, eppure il rumore non provenne da dove mi sarei aspettata: una figura incappucciata emerse dalla dependance di fronte e si bloccò nel vedermi. Il primo istinto fu quello di gridare come una pazza "al ladro, al ladro", poi mi accorsi che conoscevo benissimo l'intruso e rilassai lievemente i muscoli, concedendo però spazio all'incredulità: iniziava sul serio a lavorare a quell'ora?

«Scarlett» mormorò subito, sollevando le mani per farmi capire che non aveva cattive intenzioni e avanzando come se gli avessi puntato contro una pistola.

Una parte di me era curiosa di comprendere la verità, di capire perché non lo ricordassi, tuttavia l'altra si struggeva all'idea. «Fermo lì» sibilai, notando che ci divedeva solamente il piccolo stagno. Egli ubbidì ed entrambi lanciammo una breve occhiata agli uccelli che avevamo destato.

Un debole fascio di luce fece capolino dalle montagne e illuminò il volto stanco di Alexander, facendomi dimenticare per un istante la ragione della mia repulsione. Le perle che possedeva al posto degli occhi abbracciarono sfumature acquamarina e gli zigomi si imporporarono per l'aria fresca, attenuando le ombre nelle palpebre inferiori. Il cappuccio sottolineava l'aurea misteriosa che lo rendeva affascinante e provai a concentrami invano su quel particolare per evocarlo in qualche maniera dai ricordi.

«Non ti farò pressioni» proruppe, fissandomi con intensità. «Hai bisogno di tempo, lo comprendo. Sappi solo che io ci sono, ci sono sempre stato.» Ignorando i tremori causati dall'ultima frase, mi soffermai per la prima occasione sul timbro limpido della sua voce e in automatico schiarii la mia. Mi vergognavo e non solo per il mio gracchiare, però in fondo mi ero già messa piuttosto a nudo con lui.

Dischiusi la bocca, ma il fruscio di un ramo che veniva pestato mi fece trasalire. I nostri sguardi sondarono in allerta la tenuta, non era raro incappare in un animale selvatico indesiderato, e presto intercettammo un'inquietante sagoma guizzare nella boscaglia.

«Che cos'è?» bisbigliò il moro, azzardando una falcata. Controllò agitato gli alberi, con le spalle ricurve, e quando udimmo uno scalpiccio scattò. «Entra in casa e restaci» mi ringhiò, correndo verso il suono.

«Alexander...» lo chiamai flebilmente, accennando a fermarlo con il braccio, eppure mi stavo già rivolgendo al vuoto.

La foschia si stava ritirando lungo i confini, i merli canticchiavano e il cielo si stava predisponendo per ingrigirsi; pareva non esserci pericolo. Accettai il suggerimento del ragazzo con una certa ansia, però soltanto per sfrecciare da mio padre affinché lo aiutasse, in fondo i cinghiali dovevano essere piuttosto aggressivi e invadenti per i campi coltivati.

Prima di aprire il portone, tuttavia, scovai dei petali scarlatti sparsi per il suolo davanti al portone.

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