11. Il suo nido sicuro [parte II]

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Mi risvegliai lentamente, mi godei per intero il tepore del piumone e l'irresistibile odore di casa. Non rammentavo più la sensazione di un sonno privo di sogni, non ero nemmeno certa di essere davvero nella dimensione reale.

Ci pensarono gli occhi gonfi a catapultarmi con asprezza nelle braccia della verità e allora la faccia dilaniata di papà comparve nella memoria assieme a quella famelica del siniscalco. Ancora, ancora e ancora finché un mugolio non interruppe il supplizio.

Mi sollevai con cautela e intercettai una massa informe sul divano, oltre le morbide lenzuola che sapevano di iris e oltre la ringhiera del soppalco. Il sangue si addensò sulle guance nel constatare che pure il più esiguo particolare di Alexander fosse sufficiente per rallentare il battito atterrito del mio cuore. Come potevo bramare la compagnia di un discendente di Satana? Come potevo gestire il rapporto infetto se non ero neanche in grado di comandare me stessa?

Come sempre, imprigionai il resto dell'universo in un angolo e provai a concentrarmi sulla luce.

Non avevo idea di quando avessi perso conoscenza né dove fossero andati gli ansiolitici che avevo cosparso in giro; il giardiniere si era occupato di tutto come al solito, si era preso cura di me e aveva perfino alzato le serrande cosicché potesse entrare qualche tenue raggio di sole. Non controllai l'ora mentre scendevo i gradini con le ginocchia molli, non mi interessava. Il mio sguardo era solo per lui. Avevo bisogno di lui per non precipitare.

Sembrava un bambino, raggomitolato com'era sul sofà troppo stretto per la sua stazza. I ciuffi onice erano totalmente arruffati, uno aveva addirittura formato una specie di corno sul lato, e le ciglia lunghe posavano serene sul viso diafano. Non le vedevo neppure le impurità che decoravano i lineamenti, per me era di una purezza tale da far male.

Non riuscii a fermare i polpastrelli. Sfiorai la fronte ampia e liscia, le sopracciglia folte e disordinate, la linea dritta del naso. Mi sporsi pure per assaporare meglio le note ambrate della sua colonia, che pareva non evaporare mai. Avrei quasi desiderato morderlo... se solo fosse stato tutto diverso.

Un altro gemito lo strappò dalla pace e io mi scostai, dapprima imbarazzata per la brutta cera che immaginavo di avere e in seguito sconcertata dalla vampata di ossigeno che avevo percepito nel contatto con lui. Si trattava del medesimo e immediato sollievo donato dalle pastiglie.

Quando non udii ulteriori suoni tornai a osservarlo e il rossore riapparve sulle mie gote.

«Sei qui» bisbigliò meravigliato.

Le perle grigie mi fissarono a fondo senza soffermarsi sui segni che testimoniavano il pianto, anzi mi analizzarono in una maniera che mi fece incrociare le caviglie. Ma non tentai di celarle perché Alexander mi stava spogliando come un qualsiasi uomo avrebbe fatto davanti a delle gambe fasciate da leggings, no. Lo feci perché nessuno mi aveva mai guardata come si guardano le stelle in montagna o i tramonti sul mare, con incanto e incredulità.

A quel punto non mi importò più della chioma scomposta e delle occhiaie violacee, lui mi aveva già prelevata da molti baratri.

Si rese improvvisamente conto dello stato dei suoi capelli e li sistemò nervoso. «Puoi sederti se vuoi e...», lanciò un'occhiata al cucinotto, «Ehm... Posso offrirti un tè?»

Annuii, incapace di fare altro. A lui i gesti venivano naturali, a me al contrario venivano i brividi. Mi accomodai, avvolgendomi addosso il panno che aveva utilizzato per dormire, e seguii i suoi spostamenti, smettendo di chiedermi come mai non fossi ancora scappata. Non esisteva nessun altro luogo in cui avrei voluto rifugiarmi, non dopo quella notte. Eppure...

C'era sempre un eppure.

«Come stai?» domandò poi a bruciapelo, raggiungendomi con le tazze fumanti.

Indossava una semplice t-shirt nera che gli ammantava il petto snello e dei pantaloni di tuta grigi da cui spuntavano i piedi scalzi. Distolsi rapida l'attenzione, sconvolta da quanto lo trovassi attraente.

Non risposi e mi fiondai invece nelle sue iridi, alla ricerca della fiducia che era capace di propagare. «Sai, ho deciso che andrò da qualcuno che mi possa aiutare» confessai in un soffio.

Mi sorrise comprensivo, tuttavia non gli sfuggì il mio tono tremolante. «Io ti starò vicino» ribadì, posandomi sulle spalle una seconda coperta.

Trasalii quando mi sfiorò con le dita gelate. Continuavo a sentirmi nel posto giusto e sbagliato allo stesso tempo; continuavo a captare aliti del buio e bagliori della luce, disperazione e conforto.

«Anche se mio padre crede che tu sia l'obiettivo degli scherzi?» Feci una smorfia nel pronunciare l'ultima parola.

Si rabbuiò. «Sicura di volerne parlare?»

Perseverai a guardarlo, ma in realtà ero fatta da tanti pezzi di vetro attaccati con un filo di colla.

Sospirò e il suo respiro mi solleticò le labbra. «D'accordo. È vero, ho ricevuto anch'io delle rose, però non volevo farti preoccupare.»

Un tremore mi sconquassò, rischiando di far strabordare la bevanda. Come stavamo conversando tranquillamente di qualcuno che ci voleva distruggere, come stavo ignorando che papà avesse da poco avuto una terribile crisi, come mi stavo illudendo di avere accanto una persona qualunque!

Alexander fraintese la ruga sulla mia fronte. «Sono soltanto bruttissimi scherzi, non farti prendere dal panico. Io...», esitò per richiamare la mia attenzione. «Sto indagando, ho chiesto a mia madre la lista di tutti i clienti delle ultime settimane perché tanto al Chief Pleas non fanno niente.»

Non sapevo come fossi capace di starmene lì, quieta in casa sua – in casa nostra. Ogni sua parola era una stoccata nelle mie viscere, ogni suo respiro era contaminato dall'essenza del diavolo, ogni suo sfioramento era accompagnato dai suoi calli ruvidi.

«Quella chiave è la mia copia, vero?» sparai angosciata.

I suoi occhi individuarono l'oggetto alla cui estremità spiccava la targhetta con scritto "dependance". Era ancora sul tavolino davanti a noi, proprio dove l'avevo lasciato e dove forse ero solita depositarlo dato che Alexander rimase parecchi istanti a contemplarlo con espressione assente.

«Dopo che non ti sei presentata all'altare nessuno ha saputo niente finché non ha telefonato tua nonna.»

Il suo timbro pareva pacato, eppure sospettavo che al suo interno fosse tutt'altro che idillico.

«Una parte di me avrebbe voluto raggiungerti, chiederti scusa per aver bruciato le tappe, ma ero così ferito...» Scosse il capo come per cancellare le spiacevoli riflessioni e io attesi con il battito azzerato per una volta.

«Quando ti ho rivista, che non ricordavi, mi è caduto il mondo addosso.»

Senza accorgermene, avevo iniziato a piangere.

«Ho rischiato di far impazzire tuo padre nel tentare di capire, ma lui sembrava più addolorato di me.»

Papà che si prostrava sulla moquette impolverata di camera mia. Papà spaventato da me. Papà che singhiozzava fra le braccia della mamma.

Ebbi un violento singulto. Allora anche il giardiniere si era accorto del malessere che affliggeva il Seigneur, allora non era una fantasia prodotta dalla mia mente malata.

Finalmente Alexander mi inquadrò e a essere sinceri ebbi tremendamente paura di quello che scorse sul mio viso, perché quel qualcosa gli fece liberare una lacrima solitaria che gli scavò la pelle, portandosi dietro il sapore inconfondibile del dolore.

Non lo sapevo per quanto tempo rimanemmo così, a fissarci dilaniati dal destino e sorreggerci con inviti silenziosi. Vicini e distanti, amanti e sconosciuti, Alexander e Scarlett.

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