9. L'amore di un demone vestito da angelo

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A svegliarmi furono esattamente due cose: l'odore di polvere e le voci sommesse che giungevano da un'altra stanza

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A svegliarmi furono esattamente due cose: l'odore di polvere e le voci sommesse che giungevano da un'altra stanza. Non fu necessario riordinare le idee perché, al contrario di quella che era divenuta la norma degli ultimi tempi, rimembravo alla perfezione quanto accaduto. Era impossibile scordare l'apocalisse che voleva colpire Sark.

Il materasso su cui ero sdraiata era fin troppo morbido, con le doghe cigolanti, e le coperte ritraevano tante piccole api svolazzanti. Le pareti erano tappezzate di poster di cantanti che neanche conoscevo e buchi che un tempo dovevano aver ospitato dei chiodi; sulle mensole, apparentemente senza ordine, sostavano cd di vario genere e pupazzetti di Star Trek. La vecchia camera di Alexander era bloccata nel passato, proprio come la mia.

Dalla tapparella abbassata filtrava un filo di luce plumbea che si andava ad abbattere sulla porta di legno chiaro. Seguendola con lo sguardo, rabbrividii: come avrei potuto dire a coloro che si stavano prendendo cura di me che la persona per cui avevano pianto fino a un paio di mesi prima infestava i miei incubi? Cosa avrebbe significato per tutti noi?

Io stessa non volevo trarre conclusioni sbagliate, magari un comportamento errato da parte del siniscalco aveva indotto strani pensieri nella mia mente, magari non era mai stato un mostro... Dio, ma chi volevo prendere in giro? La ragazza dei miei sogni aveva paura di lui, scappava disperatamente da lui. Consideravo la razionalità soltanto perché si trattava della famiglia Guille, eppure non avrei mai potuto cancellare il modo in cui i suoi occhi mi avevano tormentata da sempre, impedendomi di instaurare rapporti intimi con gli altri uomini, o la maniera in cui si era insediato sotto pelle, divorandomi ogni notte.

Avevo scoperto la sconcertante verità, sentivo conati di vomito senza avere nulla nello stomaco e da lì a poco qualcuno sarebbe entrato a controllare la situazione. Come sarei riuscita a guardare Alexander senza sovrapporre il suo viso a quello di suo padre?

Il vero incubo era appena cominciato.

Ogni cosa era andata storta da quando avevo rimesso piede sull'isola e nessuno mi aveva accolta a braccia aperte, anzi, mi avevano fatto trovare ulteriori disgrazie. Solamente mia madre mi aveva trattata come una volta fin da subito. La mamma... Chissà come avrebbe reagito se avesse saputo, chissà se la sua corazza sarebbe crollata.

Mi sembrava di essere stata catapultata in un romanzo, tuttavia ero consapevole che quella terra ne aveva avute per l'intera popolazione: papà, Sibyl, Ashby, Alexander... Neppure loro se la passavano bene.

Fu proprio il moro a spalancare l'uscio, sostituendo la puzza di chiuso con il suo profumo. Le sue iridi, splendenti come non mai, erano tremolanti e terribilmente preoccupate. I suoi capelli erano distrutti, non mi sarei sorpresa di intravedere le punte colorate di stress. Era bellissimo, ma io non facevo che realizzare di chi fosse il figlio. Come poteva nascere un angelo da un demone?

Morsi a sangue il labbro per impedire alle lacrime di scivolare oltre i condotti e vidi il mio tormento disegnarsi di riflesso sul volto di Alexander. Il diavolo mi rammentò quanto le sue unghie fossero in grado di affondare nella carne, facendo sgorgare rii vermigli. Provavo quelle sensazioni sul mio corpo quando dormivo, quando lui infliggeva dolore alla fanciulla della mia fantasia, e ora individuavo quella medesima sofferenza nel ragazzo che avevo davanti.

Si affermava che gli avessi strappato il cuore abbandonandolo all'altare, che lo avessi ridotto in brandelli trasferendomi all'estero, che lo stessi ricostruendo pian piano e che possedessi il potere di disintegrarlo quando lo avessi desiderato. La realtà era che anche il mio cuore gli era sempre appartenuto, addirittura in un periodo di amnesia. Era sempre stato insieme a lui, occultando la grave infezione che portava con sé, una macchia nera che si diramava e cresceva come un reticolo di nervi, che si nutriva della sua essenza come un fungo.

Percepivo il nucleo del pianeta chiamarmi e avrei risposto volentieri se Alexander non si fosse chinato su di me, se non avesse respirato contro i miei brividi, ostinandosi a spazzare via il male. Le sue braccia mi avvolsero delicatamente, attente a non scalfire le mie ginocchia fragili e rannicchiate contro il busto. Le sue mani strinsero appena il tessuto dietro la mia schiena, infondendomi lo stesso calore del sole. La sua guancia sfiorò la mia, facendomi captare la sua tenerezza sotto il primo strato raffreddato.

Non registrai l'istante in cui lo agguantai con un'energia che non credevo possibile. Mi ritrovai soltanto con le gambe abbandonate di lato, la fronte nascosta contro il suo collo e la faccia bagnata. Non sapevo come lui fosse finito seduto sul letto, facendolo scricchiolare rumorosamente. Sentivo solo un'intensa stretta al petto che mi provocava potenti tremori e gemiti incontrollabili che si moltiplicarono quando la morsa scoppiò, librandosi al mio interno. Ero a pezzi, ma ero amata. Volevo urlare per quanto le emozioni mi stavano soffocando, uccidendomi e sollevandomi verso il cielo al contempo.

Ero persa nell'Acheronte e mi sosteneva il battito di un discendente del diavolo.

Il mio pianto comunicava tutto quello, tutta l'angoscia per non poter spiegare ad Alexander il perché non potevamo stare vicini e tutta la gioia per aver riconosciuto il legittimo proprietario della mia anima.

«Mi dispiace», mi udii sussurrare diverse volte.

Mi dispiace per averti fatto male. Per il mio egoismo. Per non poter ricordare i dolci anni trascorsi assieme. Per non poter dimenticare chi siamo.

Mi accarezzò le ciocche sfibrate. «Shh, angelo mio.» Si scostò, prendendomi il viso fra le sue dita. «Va tutto bene, sono qui con te.»

Le parole mi causarono maggiori singulti mentre scuotevo la testa senza riuscire a emettere una frase logica e lui tentava di rassicurarmi.

«Ti prego, ascoltami» mormorò, asciugandomi le guance. La sua voce tremolava, ma i suoi occhi erano metallo fuso come al solito. «Non devi aprirti con me se non vuoi, però esiste chi può ascoltarti come si deve. Ti supplico, non sai quanto fa male vederti così.» Continuava a lasciarmi moine lungo la chioma, le spalle, le braccia, sino ad afferrarmi con leggerezza le mani. «Io farò qualsiasi cosa per aiutarti, ma ti prego, non smettere di lottare.»

Le mie pupille si impegnavano davvero a concentrarsi su quelle speranzose del giovane, tuttavia le percepivo scorrere all'impazzata così come ciascuno dei miei sensi. Ogni mio poro desiderava ancorarsi a lui, eppure altrettante parti di me erano già spacciate. Visualizzavo a sprazzi il suo profilo, però comprendevo benissimo la sua sincerità, la determinazione nel voler salvare uno spirito corrotto. Ma mentre lo ammiravo, con le tenebre che mi aspettavano, la sua figura serafica si alternò a quella del demonio e improvvisamente non fu più la sua colonia a tingere l'ambiente, non fu più la sua dolcezza a confortarmi.

Sentivo il suo tocco ruvido sull'epidermide, mi rizzava i peli e mi sporcava di letame. Coglievo il suo timbro roco e il tanfo di fumo. Intravedevo il suo sudore attraversare il capo pelato, scivolare per il ghigno e cadere dritto dentro di me.

Per la prima volta in quella giornata, urlai.

«Scarlett» strillò il Seigneur, sbattendo la porta contro la scarpiera.

Alexander si ritirò di scatto, allontanandosi dal nido che aveva cercato di costruire. Io invece mi raggomitolai a ridosso della testata del letto, con le mani a proteggere la faccia.

La scena non piacque per nulla a mio padre. «Sono qua, ti porto a casa» asserì dopo aver fulminato il giardiniere che se ne stava lontano con le spalle incurvate e l'espressione stravolta. Mi prese fra le braccia, coprendomi con il suo giaccone, e la sua barba brizzolata mi stuzzicò.

«Grazie, Elizabeth. Davvero», si rivolse alla madre del moro, ferma sulla soglia. Anche lei era in totale apprensione per me e le sue iridi scure erano capaci di raggiungere i miei lati più profondi, proprio al pari delle perle del figlio.

Tentai di protestare quando papà superò la donna, ci provai sul serio a dichiarare che non era colpa di Alexander, ma la bocca non ubbidì, avvertivo ferree cuciture su di essa. Fui costretta ad andarmene dinanzi al suo sguardo tormentato che sperava con tutto se stesso che la cordicella rossa non si rompesse.

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