Capitolo 11: L'incubo nella realtà

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Palmi a terra, spingo contro il suolo: è umidiccio. Apro gli occhi e osservo la mia mano cosparsa di fango, che perde e acquisisce di continuo la messa a fuoco. Il peso del mio corpo lasso mi spinge verso terra, dalla quale non mi riesco più ad alzare. Sono ancorato, pesante, ma scorgo di non essere più nella villa. Tutt'altro: sono nel mezzo del bosco. Incuriosito e infreddolito uso tutte le mie forze per alzarmi. Mi metto seduto e noto di essere su una pozzanghera, coperto dal fango. Mi alzo con uno scatto e capisco il motivo di tanto freddo: mi ero bagnato con il fango. Tra le fronde infuriava un monsone, che faceva urlare la selva nella sua placidità. Davanti a me un sentiero, mi incammino circospetto. Il buio mi strozzava, gli alberi come guardie col fucile spianato, pronte a spararmi. Quasi pareva mi volessero assalire e poi sopraffare, ma non avevano l'ordine di farlo. Io avanzavo inquietato, sentendomi soffocare ad ogni passo. La strada fangosa emetteva al calpestare dei miei piedi leggeri sguazzi, coperti dal forte vento freddo. Mi afferrai le spalle con le mani, stringendole per preservare il calore nel torso, ma sentivo sempre più freddo. Non c'era anima viva, pareva che ogni cosa fosse morta, sembravo l'unico in tutta la selva a vagare. Come un povero errante, mi guardavo circospetto, tentando di capire quale fosse la retta via. La via fisicamente era una, ma camminavo come verso il vuoto bianco, che di bianco non aveva nulla se non il gelo. Eppure continuai a camminare, pur senza sapere dove fossi. Iniziai ad urlare il nome di tutti, ma il vento gridava sibili nelle mie orecchie. Nessuna risposta. Tentai più volte di chiamarli, ma ogni mio tentativo fu vano. Ero in un turbine, che fischiava il suo stridulo canto tenebroso. Dopo pochi passi mi accasciai a terra, chiusi gli occhi e aspettai il termine della tempesta, ma nulla, nulla di tutto ciò riusciva a placare la tempesta. Chiusi gli occhi e provai a udire: passi pesanti e lenti si avvicinavano a me. Si facevano sempre più vicini, finchè non mi furono accanto, allorché aprii gli occhi e alzai lo sguardo: un'imponente orsa mi si parò davanti. Da steso a in piedi, fu un attimo, in atteggiamento di difesa, gambe divaricate, mani pronte all'attacco. L'orsa sollevò le zampe e poi l'intero corpo, mettendosi in piedi. Emanò dalle sue fauci un potente bramito, poi si lasciò cadere violentemente verso il suolo. Alzò le zampe da terra e iniziò a correre nella mia direzione, con la furia alla bocca. Mi scostai con un salto buttandomi a terra, svelto afferrai un bastone vicino, la bestia già caricava con furia. Poggiò le zampe accanto alle mie braccia e avvicinò gli aguzzi denti al mio collo, io posi entrambe le braccia avanti in segno di protezione, poi chiuse le fauci. Avevo posto le mani appena in tempo da bloccare la sua furia col bastone, che solido non si spezzava, mentre la belva tentava, spingendo con la bocca, di attaccarmi con i lunghi e pericolosi artigli. Mi graffiò la faccia, ma non potei smettere di spingere il ramo. Resistetti per pochi secondi, poi iniziai a dimenarlo a destra e sinistra, tentando di spingerla via in un secondo di debolezza. E così fu, approfittai di un suo attimo di vulnerabilità per scrollarla via, tirandole un pugno sul muso. Scosse il capo, fece un paio di passi indietro e io potei liberarmi. Ora digrignava i denti e si poneva in atteggiamento minaccioso, poi spalancò la bocca, mostrandomi le fauci e urlando. Eravamo lì, fermi, aspettando la mossa altrui, poi come un toro partì e feci altrettanto nella sua direzione. Presi il bastone con due mani e lo strinsi forte. Fu un attimo, trafitto, caddi a terra mollando il bastone, mentre l'orsa si accasciava a terra. Ero riuscito a colpirle l'occhio col bastone. Mi alzai a fatica, poi mi girai e la sentii in un lamento spegnersi. Mi avvicinai timoroso e la toccai con la mano, non senza esitazione, per verificare se fosse ancora viva. Non lo era. Mi girai, poi d'improvviso la sentii bramire ancora. Mi misi in guardia e feci un passo indietro, mentre lei si alzava. L'istinto era quello di scappare, ma quando si girò notai uno strano dettaglio: il bastone era scomparso e il suo occhio era a posto. Si avvicinò lentamente, ma io indietreggiai. Allora si fermò e mi fece segno con la testa, ma ancora non mi convinceva. Si stese e continuò a fissarmi, emettendo versi, posando la testa a terra e mettendo il suo corpo come un cerchio, chiudendolo su sé stesso. Feci un passo, poi un altro, con una mano avanti. Le fui vicino e lei alzò di scatto la testa. Un passo indietro, poi, lentamente, provai a toccarle una zampa. Mise la testa a terra. Mi avvicinai e la accarezzai, rendendomi conto che fosse molto calda. Mi stesi su di lei e lei mi avvolse. Sentii un piacevole tepore circondarmi, chiudermi e proteggermi dal freddo. Riconobbi l'orsa: era la stessa che mi aveva portato nel Great Void! Rimasi nel suo pelo per un po', coccolato dal caldo di quella sensazione, in mezzo al freddo che mi circondava. Il tepore conciliava il mio sonno, tanto che tentai di appisolarmi, essendo pure notte, poi un grido dal nulla:

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