Prologo

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Avete presente quando si avvicina il tramonto e, non si sa bene per quale strano motivo, il cielo si tinge di rosa, rosso, arancione e l'unica cosa che vorresti fare è stare lì, immobile, a fissarlo finché non scompare?

Sono una di quelle persone che sta sempre col naso all'insù, innamorata del cielo, delle stelle, della luce che si tinge di colori particolari, ma anche della luce della luna, sempre così elegante nel suo bianco. Quelle persone che si emozionano quando il cielo assume tonalità fuori dall'ordinario, ma non di quelle che per questo fa fotografie su fotografie, perché io sono ben consapevole che nemmeno la macchina fotografica migliore al mondo potrebbe rendere giustizia a certi spettacoli. Solo l'occhio umano può coglierle, certe meraviglie, ed ecco perché quando ne scorgo una, la fisso finché non scompare, con la speranza di imprimerla nella mente, come fosse una foto fatta di ricordi e non di pixel.

E chiunque lo sa, chiunque sa che quando il mio sguardo si alza e la testa si reclina all'indietro, oppure quando mi spiaccico contro una finestra, col naso schiacciato contro il vetro per vedere da più vicino, nessuno deve disturbarmi. Sono i miei momenti, quelli che tengo per me, in cui chiudo il mondo fuori e con la mente mi illudo di poter volare. Quelli in cui mi isolo e lascio indietro per un po' tutto ciò che mi circonda, le ansie che mi stringono il petto, le paure che mi impediscono di camminare, la cattiveria della gente che mi frega sempre.

Chiunque lo sa, tranne chi sta suonando con insistenza al campanello di casa, come se ne dipendesse la sua stessa vita.

Guardo l'ora sullo schermo del mio cellulare, le 17:23. Tipico.

Il martedì e il giovedì, dalle 16 alle 18, mio padre utilizza una stanza del nostro appartamento nella periferia romana come ambulatorio per visitare i pazienti. Fino a qualche anno fa, si spostava quotidianamente tra tre ambulatori in zone diverse della città, poi il proprietario di uno di questi ha deciso di darlo a un altro medico nelle giornate che erano sempre spettate a mio padre, così si è dovuto arrangiare e mettere su uno studio in casa nostra, in modo da non buttare via due giornate di lavoro. Peccato che ora, avendo capito che si tratta di casa sua, i pazienti abbiano preso a presentarsi qui a qualsiasi orario di qualsiasi giorno, convinti di trovarlo anche fuori ora di ricevimento. Come se lui non lavorasse negli altri giorni della settimana, in altri ambulatori della città.

Decisa ad ignorare quello che con ogni probabilità è un paziente che cerca di incontrare mio padre in un giorno in cui non riceve qui, torno a guardare il cielo che da rosa sta diventando rosso.

Ma lui non sembra deciso a ignorare me, tanto che continua a suonare al campanello, rischiando di causarmi una crisi di nervi e costringendomi a camminare con passo pesante fino alla porta, così da far cessare il rumore aprendola e trovandomi davanti a... un eschimese?

Mi volto di nuovo verso la finestra e sì, confermo quanto mi ricordavo, oggi è una giornata di sole nonostante sia inizio febbraio. Eppure, mi trovo davanti una persona, non tanto più alta di me, anzi, ricoperta come se vivesse in Islanda. Una giacca a vento nasconde il suo corpo, il cappuccio, sotto cui vedo spuntare una spessa cuffia, gli fascia la testa, al collo porta una grossa sciarpa che gli copre anche la bocca, mentre gli occhi sono nascosti da due lenti scure. Sta per arrivare una tempesta di neve di cui non sono al corrente o è solamente questo tipo a essere particolarmente strano?

Lo fisso, la mano ancora sulla maniglia della porta, pronta a richiuderla il prima possibile, in attesa però che lui dica qualcosa, ad esempio perché si sia attaccato al campanello del mio appartamento come se ne dipendesse la sua esistenza.

«Quindi?», chiedo spazientita, dopo qualche altro istante di silenzio in cui io lo fissavo in attesa e lui fissava me.

«Quindi cosa?», ribatte lui e, se solo non fosse così tanto nascosto da occhiali e cuffia, sono sicura che avrei visto la sua fronte corrugarsi in un'espressione confusa, stando al suo tono di voce.

«Mah, non saprei, dovresti dirmelo te. Sai com'è, hai rischiato di far saltare il mio campanello».

Con un potenziale paziente di mio padre non parlerei mai così, anche perché mi ucciderebbe non appena scoperta la cosa, ma questo sembra avere la mia età, stando anche alla voce giovane, quindi decido di prendermi questa libertà. Mal che vada mi manderà a fanculo e tornerà domani.

«Chi sei?», mi chiede lui, diffidente, e giuro che la mia mano freme all'idea di chiudergli la porta in faccia.

«Curioso, stavo per farti la stessa domanda. Io qui ci vivo, tu che scusa hai, mh?», ribatto incrociando le braccia, più per impedire all'impulso di chiudere la porta di sopraffarmi che altro.

«Ci vivi?», chiede, più confuso di prima, e sento che potrei tirargli un pugno sul naso, l'unica parte del suo corpo visibile, per sfogarmi. Mi sta esaurendo.

Gli indico, però, il campanello. «Sai leggere, sì? C'è il mio cognome, direi che è abbastanza evidente io viva qui».

«Sto cercando Stefano», mi dice lui, ignorando il mio facile sarcasmo. Scelta saggia, devo ammetterlo. Se mi si dà corda quando prendo la via del sarcasmo, mi lascio prendere la mano e difficilmente faccio marcia indietro.

«Non c'è, oggi è in via Mazzini», rispondo atona, ormai abituata a ripetere queste parole ciclicamente a qualche paziente di mio padre.

«Ma è dall'altra parte della città!», si lamenta, come fosse un bambino a cui ho appena negato una caramella, ma io alzo le spalle.

«Qui fa ambulatorio il martedì e il giovedì, oggi è mercoledì», replico, ormai come una poesia imparata a memoria alle elementari.

«Sì ma è importante, non posso guidare fin là, mi sento la tachicardia», sembra quasi implorarmi, tanto da farmi pensare possa davvero essere serio e farmi preoccupare un minimo.

«Hai provato a chiamarlo?», chiedo e lui annuisce. Sospiro e ci penso almeno tre volte prima di parlare di nuovo. «E va bene, entra, lo chiamo io, come ti chiami?», concludo sotto il suo sguardo sorpreso, facendogli cenno di entrare in casa e aspettando lo faccia per chiudere la porta dietro di noi. So che quando vede il mio numero, papà mi risponde sempre.

«Niccolò», risponde togliendosi il cappuccio, ma non accennando a scoprirsi più di così.

Ipocondriaco, mh?

«Senti, te l'ho chiesto per riferirlo a mio padre, non per fare amicizia, mi serve il cognome».

«Tu digli che è Niccolò, mi conosce così».

Annuisco seppur poco convinta mentre compongo il numero di mio padre col mio cellulare. Lui ha sempre chiamato tutti i pazienti per cognome.

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