Capitolo 15

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Il fiato pesante, il suo corpo su di me, la mia schiena premuta contro il pavimento mentre respirare diventa sempre più difficile.

E no, purtroppo per me, che sono in astinenza ormai da fin troppo tempo, non si tratta di una scena a luci rosse. Certo, sempre che un cane grosso quanto un cavallo che ti monta come fossi un toro da rodeo non sia considerabile da qualcuno come eccitante. Quel qualcuno, sia chiaro, non sono io.
Io sono solamente la povera vittima sacrificale che a quanto pare è stata simpatica a un cane fin troppo grande, pesante e forzuto perché sia reale.

Quel cane, quello che mi sta usando da cavalluccio a dondolo o che mi ha scambiato per un tenero esemplare dell'altro sesso sbavandomi tutto addosso, è Spugna. Spugna come il mio personaggio preferito di Peter Pan. Forse Niccolò non ha poi un gusto così pessimo come credevo in quanto a personaggi, devo ammetterlo.

«Daje Spugna! Vai a farti un giro!», esclama il ragazzo in questione, fingendo un tono scocciato che viene tradito sul finale da una risata.

«Lo trovi divertente?!», sbraito cercando di divincolarmi e, se solo potessi vedere il mio amico in faccia, sono sicura che lo vedrei ridere anche con gli occhi, con quelle piccole rughe che gli si formano tutto intorno rendendolo adorabile. Quelle rughette che ogni volta mi dissuadono dall'idea di prendere a schiaffi il viso su cui risiedono.

«No», dice trattenendo chiaramente una risata, per poi fare una pausa. «Lo trovo esilarante, France'», esclama prima di scoppiare in una fragorosa risata, che esplode ulteriormente quando il cane in questione mi lecca una guancia e io emetto un verso disgustato, portando subito la mano a tentare di asciugarmi il più possibile.

«Niccolò, sinceramente, vaffanculo!», sbotto quando mi accorgo che non ha nemmeno la minima intenzione né di aiutarmi, né tantomeno di smetterla di ridere.

Certo, deve essere divertente per lui vedere la sua vendetta spiattellatagli davanti agli occhi, arrivata senza che lui dovesse impiegare il benché minimo sforzo.

Era talmente arrabbiato con me per averlo ignorato, che quando sono arrivata a casa sua non voleva aprire la porta, nonostante io abbia tentato la sua tecnica di metaforicamente appendermi al suo campanello. A quanto pare, è così abituato ad applicare questo metodo, che ne è totalmente immune se qualcuno tenta di torcerglielo contro.

Quando ho iniziato anche a bussare, urlando di sapere fosse lì dentro, mi ha risposto con un "no, non c'è nessuno, va via!". Non appena se n'è reso conto, è scoppiato a ridere, così come me, e ha aperto la porta, tirandomi a sé in un abbraccio.

"Ma vaffanculo France', ti sembra sparire così?", mi ha chiesto stringendomi a sé, mentre camminava all'indietro trascinandomi dentro casa.

"Disse quello che è sparito per un mese".

"Io non ero a fare baldoria da un mio amico", ha ribattuto, sottolineando la parola amico con tanto di virgolette mimate con le dita di entrambe le mani.

"Sai, sei carino quando sei geloso", gli ho detto, un sorrisino stampato sulle labbra, per poi ridere di gusto nel vederlo arrossire visibilmente prima di negare tutto e incolpare una malattia campata in aria per l'improvviso rossore su tutta la sua faccia, e non solo sulle guance.

E quello è stato il nostro modo silenzioso per sotterrare l'ascia di guerra, con qualche battutina e la nostra immancabile ironia. Perché è vero, lo prenderei a schiaffi un minuto sì e l'altro pure, ma non riuscirei a stare senza di lui, non più. Ho come trovato la versione maschile di me. Due caratteri talmente forti da essere incompatibili se messi a confronto, ma allo stesso tempo incapaci di starsi alla larga a vicenda. Come se il bisogno dell'altro fosse più forte della voglia di prenderlo a schiaffi, il bene che supera il male, gli alti che prevaricano i bassi.

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