Capitolo 7

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«Tu!», esclamo tirando un pugno al ragazzo che mi trovo davanti non appena apro la porta di casa, in seguito al suono ritmico che ormai riconoscerei ovunque del campanello. «Ti sembra che io debba scoprire che sei un cantante famoso per sbaglio?». Gli tiro un altro pugno, giusto per sfogo personale e per creare un teatrino che, come previsto, lo fa ridere.

«France', non vorrei deluderti, ma con la giacca non sento niente», dice riferendosi ai pugni, e io sorrido.

Certo, come potrebbe sentire qualcosa, ricoperto di vestiti com'è?

«Infatti questo era l'aperitivo, per la portata completa aspetto che ti spogli».

Le sue sopracciglia si inarcano e un sorriso furbo fa capolino sulle sue labbra, lasciandomi subito intendere a cosa stia pensando.

«Posso fare una battuta brutta?», chiede infatti.

Uomini. Tutti uguali.

«Provaci e te lo trancio».

Mi guarda e solleva di nuovo le sopracciglia, questa volta in una smorfia che sembra di stupore più che di malizia. E se ne sta lì, immobile a fissarmi da dietro i suoi occhiali scuri, o almeno questo è quello che immagino dato che questi mi impediscono di vedere i suoi occhi. Odio non poterglieli vedere, è una cosa che non ho mai sopportato quando parlo con qualcuno. Ho bisogno di vedere lo sguardo del mio interlocutore, mi aiuta a sentirmi più a mio agio. Eppure, con Niccolò non mi sento a disagio nonostante questa sua abitudine di tenere gli occhiali da sole a coprirgli gli occhi, cosa che invece mi destabilizzerebbe con chiunque.

«Dai, entra». Mi sposto leggermente per lasciarlo passare, e lui inarca un sopracciglio nella mia direzione mentre mi oltrepassa, sicuramente per guardarmi con circospezione mentre chiudo la porta dietro di noi. «Tranquillo, il tuo amichetto là sotto non rischia», lo rassicuro, e lo vedo sorridere. «Per ora», aggiungo con tono minaccioso, tanto che lui immobilizza e torna a fissarmi, almeno finché non scoppio a ridere e gli faccio segno di lasciarmi la giacca, così che possa appenderla.

«Non si scherza con le palle di un uomo, France'».

«Uomo», gli faccio il verso mimando anche le virgolette con le dita e lui ride leggermente, per poi darmi della bastarda. Wow, siamo già arrivati al punto di poterci insultare liberamente. Certo che è successo in fretta, eh. «Comunque mio padre non è a casa», lo informo, pensando che sicuramente sia qui per lui e chiedendomi quale malanno lo tormenti oggi.

«Lo so», mi risponde semplicemente per poi camminare fino al salotto con me al suo seguito. Fai pure come se fossi a casa tua, non fare complimenti. «Oggi è lunedì e sono le undici, fa ambulatorio in via Cavour», scrolla le spalle, poi si china davanti al mobile della televisione sotto al mio sguardo interrogativo. «Sono qui per te», mi informa con una naturalezza tale, che fa sembrare la cosa come la più normale del mondo.

Eppure, così normale non è, perché altrimenti non ne sarei rimasta così stupita e il mio stomaco ora non si troverebbe stretto in una morsa che non saprei decifrare. Non sono mai stata brava a dare un nome ai sentimenti, il che mi ha fregata il più delle volte, mettendomi in posizioni scomode da cui non sapevo come uscire, oppure mi ha semplicemente confusa, come sta succedendo ora.

«Ehi non stare lì imbambolata a fissarmi, ho una rivincita da concederti!», esclama agitando in aria i controller che tiene in mano, facendomi ridere.

Vuoi la guerra, Moriconi?

Lo raggiungo e gliene strappo uno di mano con fare deciso per poi sedermi sul divano e lanciargli uno sguardo di sfida mentre mi raggiunge.

«Sei pronto a perdere e toglierti gli occhiali, Moriconi?», chiedo rifacendomi alla scommessa della settimana scorsa.

«Ho vinto Sanremo, raggio di sole. Credi davvero non sia in grado di vincere anche questa gara?».

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