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Sono stata lasciata sola in questo viaggio e non mi riferisco al viaggio in treno che sto affrontando, no no, ma agli otto mesi che mi aspettano prima di diventare madre. Phil se n'è andato un sera di maggio dicendo che per colpa mia non stava vivendo la sua vita, lui vuole viaggiare, portare avanti il suo titolo di studio e un figlio non l'aveva preventivato.

Nemmeno io l'avevo preventivato ed ora mi trovo in viaggio diretta a casa, la mia vera casa, nel luogo dove sono nata e cresciuta, dove per mamma e papà sono ancora la loro bambina nonostante abbia compiuto 21 anni allo scoccare del nuovo anno.

Non sanno che aspetto un figlio, e non so quando troverò il coraggio di dirglielo.
Spero solo che la pancia stenti a crescere anche se la mia corporatura minuta non mi sarà di grande aiuto ancora per molto.

Porca puttana, metterò al mondo un esserino urlante con due braccia, due gambe e una testa pensante. Il mio cuore manca un battito e contengo a stento la paura di non essere in grado di fare la madre, in parte perché questa gravidanza non era assoluta nei miei programmi ma soprattutto perché Phil sarà una parte genetica di questo bambino e lui non vuole saperne nulla.

Mi specchio nel riflesso del vetro, I miei capelli castani sono troppo lunghi, forse li dovrei tagliare;
seguo i profili del mio viso magro e mi soffermo sui miei occhi chiari, pensavo fosse solo una diceria ma brillano davvero di una luce diversa. Mi perdo poi a guardare fuori dove sta piovendo, sono le ultime piogge prima del caldo torrido che segna l'inizio dell'estate.

Manca poco al capolinea, una volta scesa dovrò solo aspettare che papà venga a prendermi e sono certa che nell'abbracciarlo metà delle mie paure verranno annientate.

Mi risveglio appena in tempo per rendermi conto che il capotreno sta camminando nella mia direzione con uno sguardo carico di preoccupazione.
«Signorina, va tutto bene? Il treno è fermo già da dieci minuti e tra poco dovrò ripartire.»

Sbatto le palpebre più volte cercando di capire dove mi trovi.

Oh giusto, il treno, casa.

Rassetto le mie cose abbandonate sul sedile al mio fianco, recupero i miei bagagli e riempiendo il capotreno di scuse mi affretto ad abbandonare il vagone.

Il cielo si è rischiarato, il sole di fine maggio sta già asciugando le piccole pozzanghere ai lati del marciapiede, e la stazione brulica di gente con ombrelle colorate sottobraccio.

Controllo il telefono e ho una sola chiamata persa di Luisa, la mia coinquilina non che amica con la quale ho condiviso la casa fino a poco prima della mia partenza.
Le mando un sms per avvisarla del mio arrivo:

"Arrivata sana e salva.
Ci sentiamo presto.
Baci K "

Premo invio e prima di dover fare una gincana per il parcheggio della stazione in cerca di mio padre decido di chiamarlo.

Servono sette squilli prima che mi risponda.
«Ehi, sono appena scesa dal treno, dove sei?» il rumore all'altro capo del telefono non promette nulla di buono.

«Scusa farfallina mia, sono stato bloccato a lavoro, una cavalla stava partorendo, era podalico e... oh, ma non ti preoccupare a momenti arriveranno lì a prenderti, ora - sento un rumore in sottofondo e la voce di mio padre si allontana dal telefono - ti devo proprio lasciare. A dopo» e riattacca.

La sua farfallina un corno.

Porto le mani sul viso sfregandomi eccessivamente gli occhi ancora assonnati. Si, sono una persona pigra e si, lo stato interessante in cui mi trovo non mi lascia via di scampo. Una serie di sbadigli mi accompagnano in perlustrazione verso la strada.

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