Capitolo 7, il declino.

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Certe volte nella vita si arriva ad un punto in cui non ci importa più niente.

Rimaniamo indifferenti nei confronti del mondo, degli uomini, del male, del bene.

Il mondo non ci ha mai dato niente di positivo, ci accorgiamo.

Gli uomini sono tutti uguali, arroganti, presuntuosi, orgogliosi.

Il male? Ormai è diventato parte integrante delle nostre lunghe e tristi giornate.

Il bene? Un raro momento di luce, quando in un cielo coperto di nuvole grigie cariche di pioggia una si scosta leggermente dall'altra, abbastanza che un raggio possa filtrare e raggiungere la terra.

E io ero arrivata a quel momento della mia vita.

Nel mio cuore c'era posto solo per l'amore che nutrivo per lui, non ricambiato. Il resto era ombra. Deserto.

Fu così che cominciai a farmi male.

Sentivo, o meglio, non sentivo.

Non c'era alcun sentimento dentro di me che non fosse di totale indifferenza in ciò che c'era fuori di me, e rabbioso e acido odio nei miei confronti.

Così tanta rabbia tenuta dentro che adesso si faceva strada tra le macerie del muro che ero riuscita con fatica e sacrificio, ad innalzare.

Misantropia, è la parola che cerco.

Odiavo tutto. Ma anche niente.

Mi importava di niente, eppure di tutto.

La prima volta che guardai la lametta in modo diverso, fu uno di quei giorni che erano stati troppo assolati in confronto al buio che regnava al mio interno, uno di quelli in cui arriva la notte e ti senti perduto.

Avevo fatto qualcosa di sbagliato e sentivo il dolore crescere. Dolore, odio, rabbia, paura. Perdere il controllo è un attimo. Incidere la tua stessa carne con una lama è un attimo. Rendersi conto di ciò che si è fatto poi, è un'altra storia.

Una volta che cominci non finisci più.

Peggio della nicotina, delle droghe.

Peggio dell'amore, delle dipendenze.

Vedi il tuo sangue scorrere dalle gambe, dove ti sei ferita, e una sensazione di piacevole torpore ti invade. Ma non è MAI questa la risposta giusta. Lenire il dolore con il dolore non è che una soluzione temporanea, per riuscire a dormire qualche ora in più. O per mangiare un boccone ancora, quando pensi di esser sazio.

I giorni passano, e il mondo si rabbuia.

I tuoi occhi si fanno torbidi, la tua anima non risplende più di candida luce propria. La sporchi. La sporchi ogni volta che tagli, ogni volta che scrivi ciò che provi, sulla tua pelle.

Devi smettere di punirti prima che sia troppo tardi.

Io mi accorsi di star perdendo il controllo, quando esso già non esisteva più nella mia testa.

Ero perduta.

Come se non bastasse si aggiunse anche il rifiuto totale del cibo.

Cominciai lentamente, senza accorgermene. Con dapprima scarso interesse, mi chiedevo quante calorie ingerivo. Poi sempre più presa. Capii che nella pasta c'era tanto grasso. Che gli zuccheri erano ovunque. Che così sarei ingrassata, e non andava bene.

Il mio corpo decise che non aveva fame. E io non gli davo niente.

Il poco che gli davo all'inizio lo vomitavo.

Dopodiché smisi totalmente di mangiare, a volte per giorni.

Mi pesavo molte volte al giorno, dalle tre alle nove volte.

E ad ogni aumento di grammo decidevo cosa fare.

Pesavo 50 kg a quella visita dal dottore.

Non mi piaceva affatto quel numero, era troppo.

Il mio cervello stabilì che 48 poteva già essere più ragionevole. Non soddisfacente, certo. Ma ragionevole.

Raggiunsi i 48. Ma non era abbastanza.

Scesi lentamente, nel mio amaro declino. E con me cadevano a pezzi le ossa, la carne, il mio cuore, la mia emotività.

Quando si cade, si cade tutto insieme, in una volta.

Il processo di autodistruzione che avevo avviato era tutto ciò che mi dava la consapevolezza di essere ancora umana.

E mi aggrappai a quello, per assicurarmi di non essere morta.

La mia morte la stavo costruendo inconsapevolmente ogni giorno di più.

Una rosa d'inverno.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora