La luna non è sempre magnanima con i suoi figli.
Essi vengono al mondo per sua volontà; la notte ammirando la sua splendida luce con occhi da lupo e il giorno aspettando la sua ricomparsa, i loro occhi e corpi umani in fermento.
Taehyung e Jungkook...
Quos amor verus tenuit, tenebit. Il vero amore non smetterà mai di legare coloro che ha legato una volta.
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Jungkook non sapeva come si era fatto convincere: era lì, davanti la porta dell'ufficio del preside, e si guardava attorno guardigno.
Gli tremavano le mani, si accorse. Probabilmente era il pulpito della sua coscienza che gli urlava di non compiere gesti di cui si sarebbe pentito, forse era il suo corpo che in qualche modo si rifiutava di assecondare la sua mente: la ragione - pensava - gli era stata estirpata dal cervello dalle manacce usurpatrici di Jimin.
Quello era l'unico modo in cui Jungkook riusciva a giustificare le proprie azioni, in quel momento.
La porta si aprì con un cigolio, che echeggiò piano nel corridoio vuoto della scuola. L'ufficio del padre era sempre rimasto uguale nel corso degli anni, sin da quando lui era solo un bambino che gironzolava per la stanza stringendo tra le mani la sua figure di Iron Man. La luce illuminava la stanza, entrando dalla grande finestra che dava sul giardino principale della scuola. Le grandi tende blu cobalto erano spostate di lato, lasciando intravedere il paesaggio al di fuori: grandi nuvoloni scuri ricoprivano interamente il cielo, un vento gelido scuoteva le foglie gialle negli alberi.
Da lì a poco si sarebbe messo a piovere, constatò il corvino.
A quell'ora, quando l'ultima campanella era già suonata da mezz'ora, non doveva esserci più nessuno in giro. Al massimo avrebbe incontrato qualche collaboratore scolastico, che gli avrebbe puntato un mocio contro se solo avesse osato calpestare il pavimento bagnato.
Jungkook strinse tra le mani l'orlo della giacca della divisa, che erano sudaticce a causa della tensione. Entrando di soppiatto nell'ufficio di suo padre, dopo avergli rubato la chiave di riserva quella mattina, gli sembrava l'atto più terribile e ingrato che mai potesse compiere. Il rumore dei suoi passi sul parquet riempì la stanza: per come si stava comportando, sembrava un ladro pronto a rubare un capitale della banca più grande di Seoul. Postura rigida, mani tremanti, muscoli intorpiditi: se non fosse uscito al più presto da lì dentro l'ansia l'avrebbe soffocato.
"Dove sarà mai..." sussurrò a bassa voce, mentre dopo aver calpestato il tappeto di cachemire si dirigeva verso la scrivania. Su di essa erano adagiati soltanto pochi documenti ordinatamente riposti, in un angolo una piccola fotografia di famiglia era sistemata in una cornice di legno. Jungkook fissò brevemente quella foto di famiglia: i suoi genitori, i suoi zii, lui e Jong-in... nessuno sorrideva. Sembrava che un'atmosfera di rigidezza e serietà li ingessasse tutti nei loro sguardi freddi e composti. Nessuno poteva dimostrare la propria umanità con un sorriso: sorridere voleva dire mostrare la propria debolezza, i propri sentimenti. La famiglia Jeon, agli archetipi delle vette sociali della nazione, semplicemente non poteva.
Con uno scatto il corvino aprì il cassetto scorrevole della scrivania: piccole cartelline gialle fecero capolino, su di esse erano incisi centinaia di nomi. Jungkook deglutì. Non sapeva che suo padre raccogliesse informazioni su tutte le persone presenti al liceo, i nomi erano così tanti che Jugkook si mise le mani ai capelli. "Maledizione!" Fece scorrere un dito sulle bustine di carta. Il tempo scorreva sempre più in fretta: si aggiustò gli occhiali sul naso con un gesto veloce, mentre i suoi occhi erano impegnati a leggere sempre più velocemente i caratteri .