Una dea all'inferno

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Oscurità e morte erano due costanti di quel posto desolato che lei chiamava casa. Si muoveva agile ed elegante nel labirinto di cadaveri urlanti che si estendeva all'infinito tutto intorno a lei. Una mano le strinse all'improvviso la caviglia ed ebbe un sussulto, ma non osò guardare quell'essere agghiacciante che la supplicava di liberarlo. Continuò a guardare dritto davanti a sé finché le bocche fameliche di Cerbero non ebbero finito di punire quell'insulto, maciullando gli ultimi brandelli di ossa che restavano alla misera ed indefinibile figura che un tempo era stato un uomo. Un uomo che veniva dal suo stesso mondo. Chiuse gli occhi fingendo di non sentire quelle urla disumane e si sforzò di ricordarlo: il sole caldo sulla pelle, il profumo dei fiori, i colori sfavillanti della natura, lo sguardo languido di sua madre... Un ricordo simile era dolce quanto il miele, ma questo luogo invece era amaro, orribile nelle sue mostruosità. Soddisfatto, Cerbero le leccò le dita dei piedi come ad aspettarsi un ringraziamento. E lei glielo diede. Gli sferrò un calcio sul muso. Il cane a tre teste vacillò guaendo, scosse il muso incriminato e tornò fedele al suo posto accanto alla padrona. I suoi occhi di fuoco la scrutarono privi di sentimenti.

Non c'erano pietà né affetto in quel mondo perché erano debolezze. Era stata tutta colpa delle sue debolezze se lei ora era lì e aveva giurato a sé stessa che non avrebbe ripetuto lo stesso errore. Avanzava senza una meta, in un silenzio fatto di urla e dolore. Il fuoco infernale era ciò che odiava di più perché non la riscaldava, anzi era freddo e puzzava... la legna che lo alimentava era carne umana dopotutto. I suoi lugubri pensieri furono interrotti dal ringhio minaccioso di Cerbero: era tornato alla sua destra come sempre, le tre fameliche bocche mostravano i denti aguzzi e luridi di sangue al nuovo arrivato che si era inginocchiato poco distante da lei. Ade l'aveva rapita, resa sua schiava a letto con il patetico titolo di Regina degli Inferi, le aveva cambiato nome e le aveva dato quel dannato cane, affinché le facesse compagnia, quando in realtà era solo l'ennesima guardia carceraria che le doveva impedire la fuga. La pesante corazza del demone risuonò rudemente quando si rialzò.

"Saluti, oh mia Regina! Il nobile Sovrano di questi regni richiede la vostra presenza a corte immediatamente!" tuonò autoritario e rispettoso allo stesso tempo.

"Arriverò non appena avrò terminato la mia consueta passeggiata." il tono di lei era freddo.

"Ma nobile Proserpina!" non ebbe tempo di concludere la frase...

"Il mio nome è PERSEFONE!" urlò con tutto il fiato che aveva in corpo.

All'udire ciò Cerbero si scagliò contro il cavaliere di Ade tagliandogli la gola con una poderosa zampata. Gli artigli ricurvi ed immensi, neri come la pece, si tinsero di un rosso che aveva vita propria, l'unico colore che tingeva quei luoghi di morte. Un mugolio strozzato fu l'unica cosa che rimase di quel demone dopo che il cane ebbe finito di divorarlo.

Persefone  sgranò gli occhi e rise sfrenatamente, non sentiva altro che l'odore del sangue e ormai le piaceva.


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