Capitolo 7.

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Avevo la mente invasa da statistiche, luoghi sperduti del nord Europa e un conte francese che non riusciva a scrivere una sola parola in inglese correttamente.

Iniziavo sul serio a detestare i francesi.

Solitamente la nobiltà non aveva chi faceva il lavoro sporco al posto loro, poi?

E allora perché proprio a me era capitato un cavernicolo francese che non aveva azzeccato nemmeno un tempo verbale, e che si ostinava a parlarmi di cose di cui io non conoscevo nemmeno l'esistenza?

Avrei avuto bisogno di Google traduttore per interpretare ciò che mi scriveva via mail.

E come se il conte dei miei stivali non bastasse, Worley mi stava alle calcagna come una sanguisuga. Osservava ogni mio singolo movimento, come se da un momento all'altro, avessi potuto far saltare in aria l'intera Azienda.

Era frustrato per il divorzio con la moglie (e la capivo, povera donna, quell'uomo era un troglodita insopportabile), perché il figlio se la faceva con ogni segretaria o, in generale, con ogni essere che respirava, e perché a ciò, si era aggiunto un problema con l'ennesimo taccagno francese che all'ultimo momento, aveva ritirato l'accordo preso.

Peggio di così non poteva andare.

Avere un capo stracolmo di problemi personali e non, stava a significare solo una cosa: stress psicologico a non finire per chiunque lavorasse a contatto con lui.

E io ero la sua preda preferita. Soprattutto dal momento che Troy non veniva in azienda da un pezzo, e quindi Worley poteva sfogarsi in qualunque modo su di me.

L'unico diversivo che avevo in quel posto, era Thais, e quando si faceva vedere, la mia cara, dolce e fidata amica Nora.

«Lily!» tuonò il mio capo dal corridoio.

Eccolo all'attacco.

Era passato ad usare il mio nome, quando si era accorto che ero un osso duro, e pensava che così facendo, potesse intimidirmi in qualche modo.

«Mi dica, signor Worley.» scattai in piedi, e mi diressi da lui.

Aprì di scatto la porta, e ci scontrammo.

Accennai un sorriso che lui non ricambiò.

«Stai parlando con il conte di Montford?» chiese, burbero.

Oh, il conte di Montford. L'ignorante che non spiaccicava una sillaba in inglese.

«Ci sto provando.»

Alzò un sopracciglio. «Ci stai provando? Che cazzo vuol dire "ci sto provando"?» mi urlò in faccia.

Dovetti mordermi la lingua per non mandarlo a quel paese, giuro.

«Vuol dire,» risposi calma, «che il conte di Montford non sa dire una sola parola in inglese. Non azzecca un solo tempo verbale e scrive in un'altra lingua che non è il francese. E non è semplice capirlo.»

«Nelle tue referenze c'era scritto che avevi un'ottima conoscenza del francese.» mi scrutò attentamente. «O hai mentito?»

Sbuffai.

Avevo mentito, ma questo lui non doveva saperlo. Così cercai di tirar fuori la spara palle formidabile che sapevo essere quando mi cacciavo nei guai.

«Non ho mentito, signor Worley. Ma davvero, confonde continuamente l'inglese con il francese, e non c'è stato verso di farlo parlare solo in francese, nonostante le mie suppliche.»

Per fortuna. Perché non ci capivo una sola parola in quella lingua.

«Cazzo. Francese di merda.» bofonchiò.

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