Capitolo 12.

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Arrivammo davanti casa di Ronda in un silenzio di tomba. Troy aveva spento persino la musica, e nell'abitacolo c'era un'atmosfera così tesa che si poteva tagliare con il coltello.

Entrambi avevamo fatto i conti con il passato. Ed erano stati conti difficili, colpi forti, quelli che solo il passato può gettare su una persona.

Quando feci per togliermi la cintura di sicurezza, gemetti, colta improvvisamente da un forte dolore al braccio destro.

Troy si fermò sotto il palazzo a tre piani in cui abitava Ronda, senza spegnere la macchina.

Sì, era davvero arrabbiato.

Ma io lo ero di più. Perché lui avrebbe voluto risolvere tutto con le botte, come se quella fosse la soluzione. L'unica.

«Ti fa male?»

«Cosa?»

Fece un cenno con la testa al braccio che stringevo.

«Un po'.» ammisi. «Ma niente che non passi con una borsa di ghiaccio.»

«Già.»

Lui era messo peggio. Aveva un livido violaceo sotto uno zigomo, dei tagli sul naso, e un occhio nero.

Restammo in silenzio per qualche minuto, poi mi decisi ad aprire la portiera. Non aveva senso quello che era appena successo, ed entrambi eravamo in imbarazzo. Avevo scoperto, involontariamente, una parte importante del suo passato, e lui non sembrava esserne particolarmente contento.

Ma lo capivo, non lo sarei stata nemmeno io al suo posto.

L'unica cosa che volevo che sapesse, era che io non lo avrei giudicato.

«Troy, io... volevo solo dirti che non ti giudico.»

Si voltò per guardarmi, e non seppi decifrare l'espressione dei suoi occhi.

«Intendo, bè, per quello che ho scoperto involontariamente.»

Un guizzo passò nel suo sguardo, e vi lessi solo rabbia.

«Non ne avevo dubbi.» rispose, solo.

Okay, la situazione si era fatta ancora più tesa e imbarazzante.

«Allora...buonanotte.» gli dissi.

Rispose con un cenno della testa.

Chiusi lo sportello, e corsi verso il portone con le chiavi già in mano.

Stavo scappando? Sì.

Avevo paura di parlare. Avevo paura di sapere cosa fosse appena successo. Avevo paura di fare mente locale, e capire che nonostante gli anni, nonostante tutti, il mio dannato, maledetto istinto, stava di nuovo per rovinarmi la vita.

Aveva ragione Troy: io ero composta unicamente da istinto. Impazzivo se cercavo di razionalizzare qualcosa. Io ero fatta così, non ci pensavo due volte prima di fare qualcosa. Ero sempre spinta da qualcosa dentro di me, una specie di pulsione, che mi faceva commettere per lo più guai.

E se a volte era anche bello gettarsi a capofitto senza riflettere, molte volte invece era doloroso per me e per gli altri, perché non sempre c'era un materasso ad accogliere le mie cadute, in modo da non farmi sbattere la testa.

Spesso la sbattevo. Era successo un miliardo di volte.

Il vero problema, era che avevo imparato poco e niente da quelle cadute di testa. E quella sera ne era stata la chiara dimostrazione.

Quando entrai nell'appartamento, Okley corse da me leccandomi tutto il viso, e annusando gli abiti sporchi e sudici che ancora avevo addosso.

Mi lasciai andare con le spalle contro il portone, e mi sedetti a terra.

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