Un'altra volta ancora

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I fell into a burnin' ring of fire

I went down, down, down

And the flames went higher

And it burns, burns, burns

The ring of fire, the ring of fire

(Ring of fire, scritta da June Carter, cantata da Johnny Cash)

Le dita pizzicarono leggere le corde tese della chitarra, intonando l'inizio di una canzone che non suonava più da qualche anno: una ballata lirica, lenta e vagamente struggente, rimasta in classifica per sessantatré settimane. L'aveva composta una sera lontana di giugno – creava testi e musiche con una rapidità disarmante, riservandosi di limarne ogni dettaglio anche per mesi. L'impulso a plasmare nuove melodie e frasi che si sposavano perfettamente tra loro era qualcosa che gli apparteneva, annidandosi nella parte più profonda, insondabile e antica della sua anima oscura.

C'era qualcosa, in lui, di sbagliato, spezzato, storto.

Che non riusciva ad afferrare, di cui aveva un'eco lontana solamente quando l'alcool lo stordiva, il distorsore della chitarra rombava, la folla eccitata invocava il suo nome alzando le braccia al cielo, come al cospetto d'un magnifico dio pagano.

Allora c'era la scintilla. Una flebile luce che s'accendeva nella profondità di una memoria bucata, rischiarando l'immensa solitudine di un re assiso su un trono, la cui voce incantata conquistava schiere di fedeli – armate di uomini e donne disposti a tutto. Il pensiero gli provocò un'inebriante vertigine: un sussurro, implacabile, gli suggerì che l'estremo isolamento era il necessario e giusto prezzo da pagare per il potere – i corpi dei sovrani appartengono alla gente fin dai tempi in cui il tocco delle loro mani era considerato magico, divino, miracoloso.

Rise della propria follia, domandandosi se avesse appena spento una sigaretta a base di tabacco o addizionata con qualche altra strana droga capace di friggergli il cervello. Si leccò le labbra che sapevano di whisky terminando la prima strofa, ma senza avventurarsi nel ritornello.

Lo spartito originale di quella canzone non gli apparteneva più. L'aveva regalato assieme a molti altri oggetti di cui si era disfatto senza troppi sensi di colpa, perché i beni materiali in fondo sono questo – feticci inutili, buoni solamente per costruire la maschera che tutti, più o meno consapevolmente, sfoggiavano.

Qual era il suo vero volto? Che cosa avrebbe visto allo specchio, se l'avesse tolta?

Ciò che era davvero importante, lui l'aveva perso – c'erano stati un luogo o un tempo in cui era riuscito a stringere tra le dita qualcosa d'eccelso e aveva permesso che gli sfuggisse, smarrendosi in esso e con esso, ma non ricordava più né dove né come né perché. Si alzò dalla poltrona imprecando, per dirigersi a passi svelti e regali verso il bagno della suite, confrontandosi col suo riflesso: i capelli scuri, generalmente pettinati all'indietro, pendevano scarmigliati e vagamente arricciati sul viso magro e scolpito, gli occhi verdi, aguzzi e attenti, saettavano nervosi da una parte all'altra della stanza, le labbra sottili erano increspate in una smorfia di divertita commiserazione, di bieco compiacimento.

La cosa oscura dentro di lui grattava e ringhiava e rideva d'una risata secca e perfida.

Infilò la testa sotto il rubinetto aperto. L'acqua gelata gli bagnò i capelli, corse sulle sue guance affilate, scivolò fino ad arrivare al naso e alla bocca. Non aveva bisogno di leggere lo spartito, per suonare la traccia che aveva accennato sovrappensiero: ricordava perfettamente ogni nota, accordo, evoluzione, come tutte le altre sue armonie, squisitamente rock o ballate che fossero, ma quel foglio scritto fittamente apparteneva alla sola persona cui aveva mostrato uno spiraglio l'abisso – un brivido gelido lo colse. La mano fasciata tornò a dolergli.

Lacci stretti tra Fedeltà e IngannoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora