8) Il 107° reggimento.

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Austria, novembre 1943.

Alla fine, Peggy Carter rivelò la sua vera faccia, mostrandosi una stratega militare esemplare, capace di ipotizzare qualsiasi risvolto negativo e di trovare anche le soluzioni più efficaci.
A darle man forte nella missione di recupero in Europa ci fu pure Howard Stark, ora profondamente coinvolto in tutto ciò che riguardava i due supersoldati in quanto, soprattutto, scienziato dietro la parte tecnica dell'esperimento Rebirth.
La SSR aveva ceduto a malincuore la fonte dei loro ultimissimi studi, tutto per merito dell'osservazione di alcuni membri riguardo l'abbondanza di campioni organici da studiare, e ci volle ben poco perché decidessero di utilizzare quella missione come propaganda anti-nazifascista. Però, Leader Collins stonava non poco accanto a "Captain America" e fu così che le affibbiarono il nome in codice Agente Patriot, cominciando a delineare un personaggio perfetto per attirare ancora più consensi.
Elaine e Steve s'erano quindi ritrovati in un aereo di fortuna pilotato da Howard, mentre Peggy faceva loro le ultime raccomandazioni: dopotutto, era imperativo che tornasse vivo almeno uno di loro ed era indubbio che lei preferisse - per una ragione a cui non voleva dar troppo adito - Rogers.
«Avrei preferito un atterraggio meno improvvisato» sussurrò la sergente, dando una leggera gomitata al compagno di missione, e d'istinto si guardò le gambe, incredula fossero ancora integre. Di certo non si sarebbe mai aspettata di doversi buttare letteralmente giù da un aereo.
«Shh, non parlare che ci sentono» fu la veloce risposta di Steve, più ansioso che mai.
Di per sé il boschetto che stavano attraversando produceva già abbastanza rumori, bastava qualche loro passo per far scappare i pochi uccelli appollaiati sui rami o per far echeggiare gli schiocchi dei rami spezzati, e le loro voci rischiavano soltanto di far peggiorare la situazione.
Elaine si strinse nelle spalle, arrivando a toccare con la guancia destra la canna del Thompson che teneva fissato alla schiena con una cinghia di cuoio, e alzò lo sguardo verso gli alberi spogli mentre con la mente vagava lontano, a un bar newyorkese pieno zeppo di soldati in licenza.
Stavano andando a recuperare il 107° reggimento, ma, più nello specifico, James Barnes, migliore amico di Steve e lei quel giovane sergente l'aveva già incontrato.
Ci aveva impiegato molto tempo prima di collegare quel nome familiare a una faccia - di certo Steve non aveva sprecato occasione per parlargliene -, però, appena s'era accesa la lampadina, aveva provato una strana sensazione alla bocca dello stomaco. Si ricordava a malapena il suo volto, era un ricordo lontano a cui aveva ripensato ben poco, ma cominciava a provare una preoccupazione viscerale.
Fu necessaria una camminata di quasi mezzora per raggiungere il margine del bosco, delimitato da un'ordinata successione di alti e robusti pini capaci di nascondere in modo eccezionale la base dell'HYDRA. I due supersoldati avrebbero voluto controllare la situazione nel perimetro dello stabilimento perché, per quanto si fidassero dei sopralluoghi aerei di Howard e di quelli terrestri a opera di una squadra speciale, poter osservare con i loro occhi sarebbe stata una prima fonte di sollievo. Eppure si attennero al piano, senza proferir parola: difatti, bastò un'occhiata di Elaine perché Steve l'aiutasse ad arrampicarsi sul pino più prossimo all'entrata principale.
La donna faticò a raggiungere un ramo al contempo solido e con una buona visuale, le scappò perfino qualche insulto quando alcuni aghi le si conficcarono sui palmi delle mani mentre cercava una posizione comoda per poter afferrare il Thompson. Le tremarono le braccia non appena riuscì a sfilarsi la cinghia di cuoio dalla schiena, ma strinse i denti nel tentativo di cacciare ogni brutto pensiero dalla testa: bastava mirare alle sentinelle, fare fuoco e, una volta ripulito il perimetro, precipitarsi verso la base per terminare la missione.
Elaine controllò che mirino e silenziatore fossero ben posizionati, lanciò un'occhiata a Steve che s'era posizionato a pochi metri di distanza dal pino e trasse un respiro profondo per recuperare lucidità.
"Sono la persona giusta per questo lavoro", s'incoraggiò mentalmente, "e nessuno riuscirà a fermarci".
La sergente aggiustò la presa sul mitra a canna corta, disattivò il controllo automatico e, dopo aver mirato con attenzione alla testa di una delle due guardie, sparò il primo colpo. Lasciò all'altro uomo giusto il tempo di dare uno strozzato allarme e poi lo uccise allo stesso modo, neanche l'ombra di pentimento a farle pesare il cuore. Era giusto che morissero.
Come Peggy aveva studiato, le sentinelle di stanza nella seconda entrata si affrettarono ad accorrere e ancor prima che potessero guardarsi intorno, furono brutalmente freddate.
Si sentirono a malapena gli spari, ma ciò non impedì ai pochi uccelli appollaiati negli alberi vicini di spiccare il volo verso il cielo perennemente grigio che, quel giorno, minacciava una nevicata.
L'insensibilità con cui Elaine aveva ucciso quegli uomini lasciò Steve senza parole perché, nonostante fosse diventato un soldato, rimaneva comunque un uomo altruista e dal cuore buono, incapace di volere davvero la morte di qualcuno - a meno che non gli si facesse un torto, chiaramente. Per questo si limitò a studiarla, cercando di carpire quante più informazioni possibili che potessero aiutarlo a imparare che uccidere degli essere umani, certe volte, era accettabile. Soprattutto se si macchiavano di crimini contro l'umanità.
Una volta che la sergente poggiò piede a terra, i due si scambiarono un'occhiata risoluta, quasi gelida, già concentrati sul prossimo obiettivo della missione: liberare il 107° reggimento.
Come delle vere e proprie macchine da guerra, accantonarono l'ansia dettata dal loro primo incarico di coppia - in favore di sentimenti ben diversi tra loro - e, senza ulteriori indugi, fecero incursione nella base dell'HYDRA.
«Liberarli è la nostra priorità» parlò finalmente Steve, non appena ebbero superato la recinzione per il momento priva di sorveglianti.
Data la natura della base, era indubbio che ci fossero decine di spie appostate negli anfratti più impensabili - se non addirittura qualche prototipo di videosorveglianza -, ma il piano architettato prevedeva che la sommossa creata dai prigionieri avrebbe causato abbastanza confusione da impedire ai nazisti di catturare i due supersoldati.
Si fecero strada verso la stanza adibita a prigione a suon di pugni e colpi di pistola e a ogni agente dell'HYDRA che cadeva al suolo, Elaine e Steve sembravano riacquistare forze ed energia. I loro movimenti li facevano assomigliare a degli animali imbestialiti, feroci nei colpi che sferravano, ma nelle loro movenze ferine sembravano aver trovato un accordo straordinario: se uno faceva un passo a destra, l'altro lo seguiva a ruota per impedire che si potesse infierire sul fianco scoperto; se uno scivolava a terra, l'altro era subito pronto a farsi carico dei suoi nemici per permettergli di rialzarsi.
La complicità instauratasi tra Captain America e Agente Patriot permise loro di raggiungere le celle abbastanza velocemente da non subire la seconda ondata di guardie mandate da Schmidt, che ormai aveva realizzato l'incursione, e il 107° reggimento si dimostrò pronto a dare filo da torcere ai nazisti.
Elaine scrutava con attenzione i volti dei soldati appena liberati alla ricerca di quel paio di occhi azzurri che sapeva appartenere a James Barnes: si ritrovò a scansare i colpi dei nemici, anziché affrontarli di petto, nel tentativo di superare l'ennesima porta che dava sbocco a chissà quante altre. Le mani le tremavano dal nervoso perché ricordava le emozioni che le aveva suscitato quell'uomo e non aveva alcuna intenzione di lasciarlo morire per mano di pazzi deviati.
«Elaine!» la richiamò Steve, non appena mise piede all'interno di un corridoio spoglio. La voce era appena udibile a causa del potente vociare dei soldati che si incoraggiavano a vicenda nel respingere gli avversari. «Qui non c'è, l'hanno ucciso... non può essere vero.»
«No, Steve, non fare così» mormorò la donna, asciugandogli sul nascere la lacrima che aveva preso a scivolare lungo una guancia. Non poteva immaginare il dolore che stava provando in quel momento - probabilmente, immaginare di perdere Elizabeth non equivaleva neanche a metà del suo tormento -, ma non accettava di vederlo gettare la spugna senza neanche averci provato fino in fondo. «Abbiamo ancora delle stanze da controllare, è sicuramente qui da qualche parte.»
Lasciarono che la porta si chiudesse dietro di loro con un tonfo sordo che riecheggiò nel corridoio scarsamente illuminato e il vociare confuso fu quasi azzerato, permettendo ai due soldati di decidere da che parte muoversi. Optarono per perlustrare l'ala sinistra - silenziosa tanto quanto l'altra -, ma non avevano ancora raggiunto la successiva stanza quando il rumore di passi pesanti li fece voltare verso il fondo dell'andito.
Due nazisti stavano scappando, diretti a delle scale nascoste che i due americani non avevano notato prima.
«Me ne occupo io» disse semplicemente Steve, scattando verso i fuggitivi senza permetterle di dire alcunché.
«Stupendo!» borbottò Elaine, raggiungendo l'ultimo caricatore pieno fissato alla cinta per sostituire quello presente nella sua semiautomatica di fiducia. Il Thompson lo aveva ceduto volentieri a un compagno d'armi che sembrava un po' più sveglio degli altri, sperando potesse aiutare nella liberazione.
Avanzò con cautela, l'arma ben stretta tra le mani e le orecchie tese per carpire qualsiasi suono al di fuori dell'ordinario, e le prime tre stanze che controllò si rivelarono essere inconcludenti - due uffici senza alcun documento utile e una sorta di ripostiglio con divise di soldati e medici accuratamente piegate.
La quarta porta si rivelò chiusa a chiave e ci volle ben poco perché Elaine decidesse di sfondarla; dopotutto, ragionò, se la stanza era inaccessibile significava che nascondeva qualcosa di abbastanza importante da rischiare il tutto per tutto. Avvicinò dunque la pistola alla serratura, esplose un unico colpo, sperando bastasse per farla scattare, e per essere ancora più sicura la colpì con un calcio.
«C'è qualcuno?» domandò, un po' ingenuamente, ancora prima d'aver dato un'occhiata al nuovo ambiente. Perché, se lo avesse fatto, avrebbe notato senza troppe difficoltà l'uomo steso su una sorta di lettino posto nel fondo della stanza, vicino all'ennesima porta spalancata.
Fu con un sussulto che Elaine realizzò la presenza di qualcun altro e per la prima volta da quando aveva messo piede nella base dell'HYDRA si ritrovò a tentennare sul posto: poteva essere James Barnes, da lì non riusciva a vedere bene, e temeva l'idea di ritrovarselo davanti privo di vita, gli occhi vitrei fissi su un soffitto fin troppo pulito rispetto al pavimento macchiato di rosso.
"Non c'è tempo da perdere," si rimproverò lei, stringendo i denti e obbligandosi ad avanzare.
Aveva ucciso a sangue freddo, come poteva avere paura di scoprire il volto di un uomo?
«Oh Cielo!» le sfuggì, appena incrociò lo sguardo del sergente Barnes. Bastò rivedere quegli occhi azzurri - e ora alquanto stanchi - per recuperare il ricordo del loro primo incontro a New York e un abbozzo di sorriso le incurvò le labbra.
Eppure quello non era un buon momento per essere felici.
«Elaine» mugugnò James, aggrappandosi a quell'unica reminiscenza abbastanza limpida da essere afferrata.
Nella sua mente affaticata dalla stanchezza e dalle torture subite vorticavano mille e più pensieri che il giovane uomo cercava di seguire, di comprendere, e quasi non si rese conto d'avere difronte proprio Elaine finché non avvertì le mani veloci della donna lavorare sulle cinghie che ancora lo tenevano bloccato al lettino.
Da parte sua, la sergente si ritrovò a trattenere il fiato: non avrebbe mai immaginato che James si potesse ricordare di lei.
«Sì, sono io» lo rincuorò, lanciando un'occhiata verso il corridoio dalle pareti grigiastre. Aveva sentito dei passi pesanti scendere le scale di metallo poste all'altro capo dell'androne e la tensione cominciava a pesarle sul petto, rendendole i movimenti delle mani meno fluenti. «Ora, però, devo chiederti di collaborare perché dobbiamo uscire da qui il prima possibile.»
Elaine osservò una goccia di sangue scivolare dall'orecchio alla base della mascella mentre James faticava a mettersi seduto, chiaro segnale che il timpano era perforato. Per quanto i suoi studi potessero essere incompleti e approssimativi, imputava quella ferita a un impatto contro una superficie dura avvenuto all'incirca tre giorni prima dati i due lievi ematomi violacei presenti poco sotto gli occhi.
«Collins!» riecheggiò nel corridoio, anticipando l'arrivo di un trafelato Steve Rogers.
James, alla vista del suo migliore amico, sembrò ritrovare abbastanza forza da avanzare velocemente di qualche passo, ma un giramento di testa lo fece vacillare ed Elaine fu svelata ad andare a sorreggerlo.
«Sono qui, l'ho trovato» rispose lei, attenta a non alzare troppo la voce per evitare fastidi a Barnes.
Nel giro di pochi secondi, una zazzera di capelli biondi sporchi di fuliggine fece capolino dallo stipite della porta e gli occhi azzurri di Steve si spalancarono dallo stupore nel rivedere il suo migliore amico in condizioni alquanto precarie, la maglia sgualcita e chiazzata di sangue e il volto pallido di chi ha visto il peggio della vita. Il capitano si affrettò ad affiancare James per evitare che tutto il suo peso gravasse su Elaine e solo poi spiegò a grandi linee chi e cosa aveva incontrato nel suo inseguimento.
«Si è tolto la faccia? Sei sicuro di stare bene?» gli chiese la donna, lanciandogli un'occhiata sbalordita. A causa della fretta aveva capito ben poco del suo resoconto, ma quel "teschio rosso" l'era rimasto ben impresso nella testa: come diamine poteva esistere una cosa simile?
«Dopo ti rispiego, ma ora muoviamoci prima che esploda tutto» le rispose lui, strattonando in avanti l'amico per fargli accelerare indelicatamente il passo.
James azzardò qualche commento sarcastico su Steve - l'ultima volta che l'aveva visto era molto più magro, appena più basso e incapace di approcciarsi a una ragazza senza arrossire -, ma oltre a ciò sembrava essere piuttosto fuori dal mondo con lo sguardo che si spostava con ansia dal suo migliore amico, all'ambiente circostante costellato di soldati nazisti uccisi, per poi fissarsi su Elaine. Dopotutto, l'unico suo pensiero razionale in quel momento riguardava proprio il loro primo incontro e non gli dispiaceva affatto d'averla rincontrata, anche se, però, avrebbe preferito un'occasione ben diversa.
Il trio fu accolto all'esterno da una ventata gelida, accompagnata da piccoli fiocchi di neve che avevano già cominciato ad attecchire al suolo, e fecero giusto in tempo a mettere un centinaio di metri tra loro e la base dell'HYDRA prima che questa saltasse in aria, eliminando qualsiasi prova utile per scoprire i loschi affari dell'organizzazione filonazista.
I cuori dei tre soldati sembrarono fermarsi nell'istante stesso della deflagrazione e negli sguardi che si scambiarono emerse il terrore di morire lì, in terra straniera e lontani dalla propria patria, con la nostalgia degli affetti familiari ormai troppo lontani, irraggiungibili.
«Dobbiamo muoverci, non c'è tempo da perdere» spronò Steve, non appena l'effetto dell'onda d'urto fu passato. Strinse gli occhi un paio di volte prima di riacquistare una vista pulita e subito riprese sottobraccio James, ancora destabilizzato da chissà quali strani esperimenti, pronto anche a caricarselo sulle spalle pur di saperlo lontano da lì e al sicuro.
«In mezzora dovremmo essere all'accampamento» proseguì il biondo, incamminandosi nella giusta direzione, e l'occhiata che lanciò a Elaine gli bastò per comprendere che stava abbastanza bene da poter mantenere un'andatura veloce.
La donna, dal canto suo, soffriva ora di un terribile mal di testa e la spalla su cui poggiava James aveva preso a formicolare fastidiosamente, ma rimase zitta, accogliendo con un mezzo sorriso la stretta che le diede il sergente Barnes all'avambraccio.
Camminarono nel bosco innevato guardandosi le spalle, terrorizzati all'idea di essere braccati da nemici nascosti, come fossero loro quelli che avevano commesso atrocità senza alcun freno.
Quando arrivarono all'accampamento sospirarono di sollievo, rasserenati all'idea di essere finalmente circondati da volti amici, ma inconsapevoli che l'HYDRA aveva appena cominciato a giocare.
Dopotutto, tagliata una testa, altre due prenderanno il suo posto.




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Ehilà!
Da quanto tempo volevo pubblicare questo capitolo? Un'eternità, lo ammetto!
Godetevi questo po' di Bucky perché non tornerà per svariato tempo: lo so, sembra un controsenso dare così poco spazio a uno dei protagonisti principali della storia, ma giuro che si recupererà tutto più avanti.
Be', che altro dire... mancano solo quattro capitoli alla fine di questa prima parte - mi sembra fin un sogno, era da secoli che non portavo a termine qualcosa!

Senza paura »Bucky Barnes [sospesa]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora