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L'agente Leone è stupito, ma vuole vederci chiaro. Torna a casa, indossa mascherina, guanti e occhiali protettivi, nonché una tuta di plastica, con tanto di cappuccio e lampada frontale.
Torna al bosco con delle cesoie e procede alla liberazione della sconosciuta che lo osserva intimorita.
Non appena è libera, la afferra per un braccio e la accompagna nel suo cortile.
Apre la porta di una piccola dependance, accende la luce e la fa sedere su un divano con una fodera panna a fiori fucsia che odora leggermente di muffa. La esamina cercando di non starle troppo addosso ma capisce in fretta che le ferite sono solo graffi superficiali, per fortuna. Le spine più che altro le hanno rovinato i vestiti e strappato qualche ciocca di capelli.
La ragazza si stringe le ginocchia al petto e lo fissa con un misto di inquietudine e rassegnazione.
«Coraggio. Dimmi tutto, ora. Non lo sai che bisogna restare a casa?» la voce dell'agente le arriva smorzata dalla mascherina, ma il suo tono non è affatto morbido.
La guarda con occhi che scintillano autorità.
Janis china il capo, appoggia la fronte alle ginocchia.
«Io non ce l'ho una casa... sono una senzatetto...»
«Oh...» l'agente sobbalza, da sotto la tuta cerata che comincia a tenergli un caldo pazzesco.
La ragazza inizia a singhiozzare. Prima sommessamente, quasi a non voler farsi sentire. Ma presto il pianto si fa incontrollabile.
Piange così tanto che Nicolas si chiede come faccia a tenere dentro sé tutta quell'acqua.
Le porge dei kleenex, poi una bottiglia d'acqua. Infine se ne va, chiudendola dentro a chiave.
Appena dentro casa si libera della tuta insopportabile, dei guanti, della mascherina. Scalda al microonde un altro paio di monoporzioni surgelate, ci infilza dentro una forchetta di plastica. Fa per uscire, ma poi si ricorda.
Le protezioni...
Tentenna, indeciso.
Quando riapre la porta, calza solo i guanti e la mascherina.
Appoggia la monoporzione sul tavolo rosso di formica, proprio sul centrino di pizzo avorio, dall'aria smorta.
Poi si appoggia contro la porta d'ingresso, mantenendo le distanze di sicurezza.
«Hai il raffreddore? Ti senti bene? Hai qualche sintomo di malessere?»
«Solo una gran fame. Per il resto sono sana come un pesce» Janis si avventa sul cibo e lo divora come se non vedesse un pezzo di carne da quando è nata.
È sporca da far schifo e puzza. I suoi vestiti hanno l'aria di averne viste troppe.
Nicolas armeggia con la stufa e la accende.
«Lo vedi quell'armadio? Quello grosso, lì, in fondo alla camera da letto? Ci sono tutti i vestiti di mia madre... era vecchia. È morta l'anno scorso. Volevo dare via tutto ma non trovo mai il tempo. Prendi quello che vuoi, fatti una doccia. Resterai qui, per adesso. Non si può violare il lockdown» dice semplicemente, ma il suo è un ordine.
Janis spalanca gli occhi. Spinge la sedia all'indietro facendola strisciare sulle piastrelle in graniglia con un rumore che sembra riecheggiare il suo disappunto. Poi sparisce in camera da letto, dove si trova anche il bagno.
Ne riemerge dopo mezz'ora. I suoi capelli lunghi, di un biondo cenere, sono ancora bagnati. Indossa un abito chiaro a fiorellini stretto in vita e con lo scollo a v e un golfino di lana giallo. Nicolas ricorda quel vestito indosso a sua madre in alcune vecchie foto di quando lui era piccolo e lei ancora magra.
Janis si sdraia sul divano a fiori e, per un attimo, all'agente sembra che il suo corpo sia scomparso, mimetizzato quasi perfettamente con la fodera. I gusti di sua madre in fatto di stoffe erano piuttosto monotoni, si accorge.
La ragazza si è infilata degli spessi calzettoni di lana beige. Quelli che sua madre metteva quando andavano a sciare.
Chiude gli occhi.
«Puoi andare a dormire nel letto, se vuoi. Puoi anche indossare un pigiama. Puoi fare come a casa tua, qui dentro...» e solo mentre lo dice, Nicolas si accorge che le sue parole sono state superficiali e sciocche. Ma quale casa? Lei non ha nessuna casa, lo ha già detto.
Janis riapre gli occhi, infatti. Lo guarda con un misto di curiosità e sospetto. «C'è troppo spazio, nel letto. Non ci sono abituata.»
«Dove dormi, di solito?»
«Adesso stavo in un centro sociale. Ma la polizia ci ha fatti sgomberare giorni fa, per via della quarantena. Vietati gli assembramenti. E poi ho visto che la gente era impazzita. Saccheggiava i supermercati, si spintonava. Si picchiavano per del disinfettante... i posti in cui andavo di solito erano chiusi. Non c'era nemmeno più un locale notturno in cui infilarsi aspettando che passassero le ore più fredde. Un vero schifo. Così ho preso un treno qualsiasi, per vedere che aria tirava altrove. Andava bene qualsiasi posto. Ma il treno su cui ero si è fermato nella stazione di questo paesino e non è più ripartito. Ed eccomi qui» si gira sulla schiena e fissa il soffitto.
«Da dove vieni? Dove sei nata, intendo dire...» chiede Nicolas, notando che la ragazza ha un leggero accento russo. E poi ha due occhi di un verde-blu che non ha mai visto addosso a nessuno. Solo certi mari caribici o sardi hanno quel colore così intenso e cangiante.
«Sono moldava» si gira di nuovo a guardarlo, per vedere che effetto gli fanno le sue parole.
Nicolas ha il fiato corto, sotto la sua mascherina soffocante.
Il suo nome sembra più inglese, lei almeno lo pronuncia all'inglese, ma in effetti potrebbe essere di derivazione greca. Oppure non è il suo vero nome.
Lei sembra subodorare lo scetticismo di lui. «Sì, il mio nome è inglese. L'ho sempre sentito pronunciare così. Mia madre mi ha abbandonata in fasce in un orfanotrofio in Moldavia e lì mi hanno chiamata sempre così. Fine.»
«E quanti anni hai?»
«Sui miei documenti c'è scritto che sono nata il primo gennaio 1997.»
«Stai rispondendo a tutte le mie domande perché sai che sono un poliziotto?»
Le scappa un sorriso. «E perché, se no? Sono praticamente in arresto!»
L'agente Leone si rabbuia. «Non è così. È il lockdown. È il coronavirus. Non posso mica lasciarti a gironzolare. Devi restare qui. Penserò io a darti da mangiare. Vivrai qui e man mano si capirà cosa si può fare» sospira.
La ragazza lo guarda per un lungo istante. «Prima che tu vada, posso vederti in faccia?» chiede a bassa voce.
Nicolas viene preso in contropiede per l'ennesima volta, quella sera. Si sente strano. È come se quella mascherina che tiene sul viso, rappresentasse più di quanto sembra. È come se mostrasse che veramente non possiamo mai essere visti dagli altri completamente.
L'agente scopre di essersi sentito immensamente solo. Nell'ultima settimana, ma forse da tutta la vita. Schiacciato da infinita burocrazia e da leggi che ne limitano sempre più l'azione, con l'anima che si sgretola giorno dopo giorno, come vernice vecchia su un muro stanco.
Avere qualcuno nella dependance lo fa sentire come se fosse Natale. Come se nell'aria ci fosse qualcosa di speciale, qualcosa di autentico per cui lottare.
«Qui in casa non è prudente» sorride. «Esco fuori. Tu mettiti alla finestra e guardiamoci attraverso il vetro.»
Lei sorride di rimando. Poi sbadiglia. Uno sbadiglio enorme. Deve essere distrutta. Le palpebre le calano sugli occhi. E in un baleno dorme il sonno degli innocenti.
Vorrebbe poterci riuscire anche l'agente Leone.
Ma d'altronde lei ne deve aver passate così tante, in giro là fuori... per lei trovare qualcuno di solidale che la aiuta deve essere la prova tangibile e costante che esiste una Provvidenza Divina. E che la bontà umana ancora sopravvive.
Ha fiducia nelle persone e nella vita, nonostante tutto. Glielo si legge sul viso disteso, nella purezza del suo sguardo affaticato.
Nicolas si alza, prende una coperta di lana dall'armadio e gliela posa delicatamente addosso, facendo attenzione a non toccarla. Tra poco la stufa si spegnerà e avrà freddo. Lei dorme come un sasso. Non sembra nemmeno che respiri.
Nicolas chiude la porta, stavolta non a chiave. Non vuole farla sentire prigioniera. Spera che abbia capito la gravità della situazione e che collabori. Non se la sente proprio di tenere sotto sequestro una persona. Però torna a controllare nel bosco.
Poco oltre il roveto colpevole di averli fatti incontrare, c'è uno zaino frusto. Nicolas lo raccoglie ne esamina accuratamente il contenuto, cercando droga o altre schifezze.
Non ci trova niente di simile, solo qualche logoro effetto personale. Lo svuota. Lo tasta lungo tutta la sua superficie. Nessun doppio fondo. Ma durante la perquisizione la tela si strappa.
Merda. E non c'è nemmeno lo sputo di un negozio aperto in cui possa comprargliene uno nuovo. Pazienza, vorrà dire che gliene darà uno dei suoi, oppure lo ordinerà su internet. Quello almeno funziona ancora... 

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