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Catturare le galline addormentate non è troppo difficile, soprattutto se si è in due. Basta afferrarle con entrambe le mani, affinché non aprano le ali e starnazzando sveglino le altre, e poi infilarle negli scatoloni e richiudere immediatamente il coperchio.
Si quietano subito, vedendo il buio.
Janis prende anche abbondanti manciate di paglia pulita con cui preparare loro un lettino.
Le capre hanno il collare, e Nicolas trova due corde annodate come un guinzaglio appese ad un gancio vicino al loro recinto.
Il vecchio Tobia deve averle abituate a essere portate a spasso, qualche volta. Janis riesce a legarle e le caprette si incamminano alla cieca, un po' stranite.
Dopo appena una manciata di passi, però, si spaventano per qualcosa e fanno uno scatto subitaneo in avanti. Purtroppo, Janis non è abbastanza veloce a mollare la corda, e questa le abrade le dita, lungo il legamento interfalangeo collaterale laterale del medio e dell'anulare. Un male tremendo che la raggiunge come una frustata, facendole vedere tutto nero per terribili secondi, durante i quali non urla ma inizia a tremare violentemente, reggendosi la mano ferita nell'altra.
Riesce solo a pensare a quanto sia perfetto un corpo umano, fintanto che funziona. Ci vuole un istante a guastarne la perfezione, e un tempo indefinito, ma sempre lungo, per riaggiustarlo. E poi viene la morte, a decomporlo lentamente.
Chissà perché siamo vittime di ingiustizie come questa? È chiaro che vada tutto alla rovescia, perché la logica imporrebbe il contrario. Un solo pensiero per creare, millenni per disfare. Ma quella logica funziona solo con i guai e gli sbagli. Ma perché?
Si concentra su pensieri esistenzialisti-filosofici come questi, per non pensare a ciò che le sta capitando e al dolore che sente.
Leone la raggiunge trafelato. Ha indosso dei guanti da lavoro, robusti, e ha riacciuffato le caprette che erano tornate di corsa nel loro recinto. Le ha legate al gancio da traino della sua auto e intende procedere a passo d'uomo fino a casa, facendosi seguire dalle bestiole.
«Ma che ti è successo?» si precipita accanto a lei, che gli mostra le dita aperte.
La ferita non sanguina, ma la carne viva pulsa dolorosamente ad ogni minimo spostamento d'aria. Janis si sente vacillare. Vuole bendare quell'abrasione immediatamente, per non averla continuamente sotto gli occhi. Come è inevitabile stuzzicare con la lingua un taglietto sul palato, che si rimarginerebbe se solo la smettessi, così lo è per una ferita fatta all'improvviso. Non puoi smettere di guardarla e di sentirti male nel farlo.
Nicolas si acciglia.
«Avevi detto che sapevi badarci, alle capre» la rimprovera.
«Ho dimenticato di mettere i guanti giusti» geme Janis.
«Andiamo via, forza. Questo posto è pieno di batteri. A casa ci guardiamo meglio.»
Salgono in macchina, in silenzio.
Nicolas guida adagio.
Le caprette belano incuriosite, le galline dormono.
Sembra la scenetta di una ninnananna per poppanti, pensa Leone.
Non sa davvero se sia stata una buona idea portarsi a casa quella mini fattoria, ma non poteva certo far morire di stenti quei poveri animali, così cari al vecchio Tobia... solo mentre ci pensa si rende conto che Tobia è il nome del fattore della canzoncina per bambini più famosa del mondo.
Scuote la testa tra il divertito e lo scocciato. Per seguire le fantasie di una vagabonda come Janis, adesso si ritrova a canticchiare come uno scolaretto all'asilo infantile. E lei si è ferita. E la sua macchina immacolata puzza di pollaio da far schifo.
Una volta dentro al cortile, chiude il cancello e conduce le caprette sotto una piccola tettoia adiacente al garage, sull'erba. Le caprette preferiscono mettersi a brucare e lui le lascia fare, tanto da lì non scappano. L'indomani penserà ad attrezzare il capanno come stalla.
Sistema le scatole con dentro le galline nel pollaio, e apre i coperchi. Domani penserà a fare di meglio anche per loro.
Poi apre la portiera di Janis.
«Coraggio, scendi.»
Lei obbedisce, rifuggendo il suo sguardo.
«Non sono arrabbiato. Sono solo preoccupato. Già c'è Sara in ospedale, e ora ti sei ferita anche tu.»
Janis gli lancia un'occhiata tra il fiducioso e il colpevole, ma non dice niente.
Non appena mettono piede nella dependance, i cucciolini si tirano a sedere tutti insieme, sentendo dei rumori. Qualcuno lancia un solo abbaio. Gli altri stanno seduti e ciondolano leggermente.
Il cagnolino chiaro e un fratellino tutto nero con la codina corta vengono loro incontro, sollevando i musetti tondi verso l'alto, per guardare i nuovi arrivati. Leone non resiste e dà una carezza a quello nero, ma la Rossa comincia subito a fare il diavolo a quattro.
L'agente si spazientisce.
Prima era solo come un cane in una villetta di due piani con del verde intorno, mentre adesso la sua casa si sta trasformando nell'Arca di Noè e a lui tocca adattarsi agli animali.
«D'accordo, allora. Per di qua!»
Fa entrare Janis in casa sua.
D'altronde è lì che tiene il grosso delle medicine.
Lei sta ferma nell'ingresso, intimorita.
La casa dell'agente avrebbe bisogno di una bella svecchiata, sia nell'arredamento sia nei colori delle pareti. Per non parlare dei soprammobili e delle cianfrusaglie stipate ovunque.
Fosse per lei le butterebbe tutte. Lei è abituata all'essenziale, tutto ciò che è di troppo la manda in confusione e l'opprime.
«Sono qui» la chiama Nicolas da una stanzetta lì accanto.
È un piccolo bagno, in realtà, usato come lavanderia. Ci sono lavatrice e asciugatrice, un armadio delle medicine e nella vasca da bagno un secchio del mocio e dei detersivi.
Janis si siede sul bordo della vasca, ma Nicolas ha trovato quello che gli serve e le fa cenno di seguirlo di là.
La porta nella sala da pranzo, collegata alla cucina. È una bella sala, con qualcosa di antico. Il soffitto a volte è dipinto di un azzurro cupo, mentre le pareti sono giallo zafferano con colonne a vista di mattoni anticati. Il contrasto è piacevole e crea un ambiente allegro, nonostante i mobili di legno scuro segnati dai tarli.
C'è un ampio divano in pelle con un alto schienale imbottito.
Leone la fa cenno di sedersi lì e la imita subito dopo.
Quella vicinanza è necessaria, ma sorprende entrambi.
Nell'aria si sente una specie di magia, mentre lui le prende delicatamente la mano ferita tra le sue e la esamina.
Si accorge subito che non riuscirà mai a medicarsi da sola con due dita conciate in quel modo. E che non ha le fasciature giuste.
Ci vorrebbe una garza imbevuta di argento.
Acido ialuronico sale sodico + Sulfadiazina argentica, per la precisione.
La ferita è pulita e lui ci mette su un po' di pomata antibiotica e la fascia morbidamente, affinché respiri.
«Non devi sporcare la ferita. Domani vado in farmacia a prenderti qualcosa di più adatto. Ci metterà un po' a guarire. Nel frattempo tieni un guanto sulla mano sinistra, così eviterai infezioni.»
Si guardano negli occhi, la sola parte del viso che la mascherina lascia scoperti.
«Dovremo sempre portarla? Anche tra di noi?» chiede Janis in un soffio, e lui non è sicuro di aver capito bene.
Scuote la testa.
«Forse no... la mia fidanzata è in rianimazione per il Covid-19. Quanto pensi che ci voglia perché mi sospendano dal lavoro in via precauzionale? Da domani mi metterò in isolamento volontario finché non passerà abbastanza tempo da dichiararmi non più contagioso. E non importa se l'ultima volta che ho visto Sara risale a prima del lockdown. È la prassi. E io rispetto sempre le regole.»
«Quindi starai a casa tutto il giorno per un po'?»
L'agente annuisce.
«Pensi davvero che ti avrei lasciato da sola a badare a tutto lo zoo che ci siamo appena portati a casa?»
Janis non vede la bocca di Leone, ma dalle rughe formatisi intorno ai suoi occhi intuisce che sorride. Un sorriso che comunque non gli illumina lo sguardo, che resta triste e preoccupato.
Le scompiglia i capelli con una mano, poi torna a guardare davanti a sé. Accende la TV, meccanicamente.
Poi si appoggia allo schienale, mettendosi comodo.
In tutto questo, Janis è rimasta seduta, rigida come un manichino di legno, la mano ferita appoggiata inerte sulle ginocchia.
L'agente le sfiora una spalla con le dita.
«Puoi metterti comoda, se vuoi» la invita.
Sono già ad un metro di distanza. Janis si appoggia con cautela allo schienale. Senza poter far leva con entrambe le mani, anche un'operazione semplice come quella, si complica.
L'agente Leone ha acceso un canale che trasmette una vecchia serie TV di spionaggio, a cui Janis si appassiona. Le vecchie pellicole la rilassano sempre.
Poco dopo, Nicolas spegne la luce, premendo un interruttore lì vicino. A poco a poco, Janis lo vede sprofondare tra i cuscini dello schienale del divano.
Un sonno invincibile pare averlo seccato sul colpo.
Il suo corpo pesante scivola lentamente sulla pelle liscia del divano, finché Janis non sente la sua testa pendere mollemente sopra la sua. Si scosta, premendosi contro il bracciolo, ma poco dopo la testa dell'agente le raggiunge un fianco, fermandosi lì.
Fa tenerezza, con le gambe ancora in posizione seduta e il busto tutto reclinato sopra di lei, il naso e la bocca coperti dalla mascherina. Non dura molto, infatti. Nicolas si gira borbottando qualcosa nel sonno e si distende interamente sul divano, usando lei come cuscino.
Malgrado tutto, Janis non sta scomoda. È abituata a dormire un po' ovunque. Una volta si è fatta andare bene persino una cabina telefonica, a Londra.
Si accoccola contro il bracciolo, le gambe rannicchiate e la testa dell'agente appoggiata al suo fianco.
Chiude gli occhi.

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