IV

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L'assunzione per uno strizzacervelli abbacchiava l'entusiasmo, il desiderio più recondito era diventare un insegnante. Lasciò la porta aperta del nuovo ufficio e dispose il giaccone sull'appendiabiti a forma di gru. Osservò incuriosita l'arredamento, lo studio mancava di carattere, gli apparve asettico e sterile, setting consueto per la cura di squilibrati.

Indossato il camice celeste, occupò la postazione e si sedette alla scrivania.

Un uomo in abito gessato la salutò entrando.

«Buongiorno»

«Buongiorno Dottore».

Una scatola gli copriva in parte il volto e il busto prestante. Il tono di voce baritonale rivelava acume e intelletto.

Lei lo squadrò dal basso verso l'alto, calzava mocassini lucidi e un pantalone a righe argentee. La giacca arginava il colletto spiegazzato della camicia color albume. Infine notò la lettera psi ricamata sull'estremità della cravatta che lo strangolava.

Non riusciva a vedere com'era. Fino ad allora le fu arduo immaginarsi il Dr. Elsinki Richard: si chiese se era un uomo come Carl Gustav Jung, stempiato e con folti baffi oppure un attraente giovane psichiatra.

Posato il contenitore strapieno di riviste su un tavolino antiquato, l'uomo accolse Melissa con un caloroso e inaspettato abbraccio. Aveva un viso familiare ma non ricordò se l'avesse mai visto: un'espressione ammaliante, sopracciglia inamidate, dentatura bianca splendente, capelli brizzolati, una tenebrosa facciata da scoprire. Chiariti i cavilli burocratici del contratto lavorativo, firmarono una moltitudine di fogli riguardanti privacy, riservatezza, obblighi e doveri. La coda dell'occhio di Melissa scrutava ogni dettaglio, soprattutto la percentuale di ferie e malattie che le sarebbero state concesse. La quinta pagina riportava le sproporzionate cifre dello stipendio, c'erano tre zeri preceduti da un altro numero, inebetita sorrise fino a sfiorare le orecchie con gli angoli delle labbra, felice come una bambina il giorno di Natale. Ultimati i convenevoli, le fu affidato il primo compito: riempire le mensole con dei tomi da spolverare. Tirò fuori un libro marroncino con incisioni bianche, un classico della storia della psicoanalisi, l'interpretazione dei sogni di Sigmund Schlomo Freud.

Lo aprì casualmente al capitolo sessantanove, rigo primo.

Hysteria, il termine deriva da hysteron: utero. Nella visione ottocentesca questa patologia, tipica delle donne altolocate, veniva trattata nelle cliniche sanitarie con l'adempimento dell'orgasmo mediante trattamento manuale da parte del terapeuta.

«Che schifo». Pensò, e riprese a leggere.

Sintomi fisiologici: paralisi, cecità momentanea, perdita di coscienza e della parola. Fasi acute emotive e stati semi allucinatori con riferimenti a divinità.

Rifletté con malizia sui caratteri delle parole sottolineati da una stilografica antiquata e terminò quella pausa letteraria.

Il Dottore fece diverse telefonate a dei colleghi e risolse delle incombenze appuntando postille sulla rubrica.

Ispirata da quelle parole spiò il Dr. Rich attraverso la fenditura della porta accostata agli stipiti, la pelle lattea prese a incendiarsi dalla fronte fino alla scollatura. Sebbene fosse un uomo sulla quarantina d'anni, salvaguardava il corpo come un trentenne.

«N – non guar- guardare»

«N – non guar- guardare».

Farfugliò sibilando lettere affettate.

Agitata e tremolante catalogò i volumi in ordine alfabetico per distrarre lo sguardo dalla sensualità ed erotismo che il camice bianco spargeva dovunque.

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