Capitolo Ventisette

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Così come una nave resta ferma al porto solo in attesa di salpare, allo stesso modo Shawn aveva atteso pazientemente otto giorni per afferrare Lauren quando occhi indescreti non erano nei dintorni e soprattutto per essere sicuro che non l'avrebbe colpita prima di avere quantomeno una risposta.

«Perché se ne è andata?» Non le diede nemmeno il tempo di ambientarsi nel suo sguardo cupo che già otto giorni di cauto silenzio le ringhiavano addosso.

«Questi non sono cazzi tuoi.» Si divincolò dalla presa, restituendo sia l'intensità dello sguardo che la rottura acerba delle labbra.

«Sono cazzi miei eccome. Io l'ho lasciata andare, per te.» L'indice fremeva contro di lei come se ogni muscolo del suo corpo si ribellasse al controllo che stava esercitando su i suoi impulsi violenti.

«Tu non l'hai lasciata andare, è stata lei a lasciarti.» Precisò, ma questo non rasserenò il suo viso.

«Ciò che intendo dire è un'altra cosa.» Portò le braccia conserte, ma non era lui a doversi proteggere, e Lauren lo sapeva. «Io e te non ci siamo mai piaciuti, ma abbiamo una cosa in comune che piace ad entrambi. Se tu fossi nei miei panni, staresti qui a dirmi lo stesso, solo che tu mi avresti già colpito.» Nessuno dice che non possa ancora farlo.

«Shawn,» sospirò come se non avesse buone notizie o ulteriore pazienza. «È meglio così. Le passerà.» Ma mentre abbassava lo sguardo, però, non si capiva a chi le due si stesse rivolgendo. «Dovresti andare tu da lei.» Le sue labbra si induirono più in quel momento che prima, mentre ponderata se dargli un cazzotto per zittirlo.

«No, Lauren. Lei non se ne è andata per colpa mia, e non tornerà per merito mio.» Sciolse le braccia solo per andarsene, lasciandola a fare i conti con il peso delle sue parole e delle sue responsabilità.

*****

Per quanto sapeva che le sue parole non avrebbero avuto effetto, ogni giorno cresceva la delusione e la rabbia nel vedere Lauren seduta al tavolo con loro invece che in viaggio. Ciò a cui non si rassegnava era inciso sul volto della corvina. Le sue occhiaie parlavano chiaro, ma le sue labbra non si decidevano a confessare. Sapeva che anche lei piangeva quando nessuno poteva sentirla. Lo sapeva perché aveva lo stesso aspetto che aveva visto in sé stesso la mattina allo specchio. Non sopportava il pensiero, però, che anche Camila stesse assistendo allo stesso scempio ogni mattina, e tutto quello sarebbe stato possibile risolverlo semplicemente prendendo un aereo che Lauren si sognava ogni notte.

«Come sapete le trattative sono quasi giunte al termine.» Nonostante stessero celebrando una vittoria, Alejandro ingollava il whiskey come se bruciarsi lo stomaco fosse l'unico modo per allontanare le altre sensazioni. «Dopo lo spiacevole evento, purtroppo, abbiamo dovuto alzare il prezzo e promettere trenta milioni invece che dieci.» Squadrò cagnesco i presenti, ricordando uno ad uno di non essersi dimenticato dell'insidia.

«Stavolta le cose andranno per il verso giusto. Voglio una squadra che segua...»

I passi concitati di William, uno dei ragazzi incaricati di tenere sotto controllo le vie informatiche e le minacce esterne, interruppero l'arringa di Alejandro. Tutti lo rimirarono come se fosse già un cadavere solo più ansimante.

«Signore, devo parlarle.»

Solo le labbra di Alejandro si contrassero solo perché la mano brandiva il bicchiere. «Stiamo facendo una riunione.»

«Temo di non poter aspettare, signore.» Si ricordò almeno di abbassare il capo fra un affanno e l'altro. Beh, almeno era conscio del suo destino.

«E invece dovrà aspettare. Come stavo dicendo...»

«Signore, abbiamo un codice viola!» Sputò tutto d'un fiato, zittendo qualsiasi brusio nella stanza.

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