Alfabeto

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Questa storia è stata scritta per il contest "Sfida a colpi di penna" del profilo EditorialTheGirls , per la traccia A: "Il vostro protagonista si risveglia in un pianeta a lui sconosciuto e la civiltà che lo abita comunica solo a pernacchie. Tenta di spiegare e chiedere aiuto, ma così facendo dichiara guerra... Il vostro protagonista riuscirà a tornare a casa, ma come?"

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La vita è ciò che facciamo di essa.
I viaggi sono i viaggiatori.
Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo.
(F. Pessoa – Libro dell'inquietudine)

Il fatto insolito successe il giorno in cui Christoffel Hoffeldorf si laureò.

Non eravamo mai stati amici, però mi invitò alla cerimonia, un po' per cortese indifferenza, un po' perché smaniava di esporre la sua tesi sul paradosso di Fermi alla platea più gremita possibile. Poco gli importava che la folla che lo ascoltava fosse composta da semplici curiosi – che lo avrebbero di certo riconosciuto come il giovane più promettente nella sala – parenti o, come nel mio caso, astronomi.

Avevamo, per breve tempo, cercato di conquistare la stessa ragazza; ma alla fine le sue erudizioni avevano avuto lo stesso effetto della mia sagacia. Tuttavia, secondo Hoffeldorf, condividere quel tipo di esperienza legava due maschi tedeschi in maniera indissolubile.

Meditai a lungo su quale fosse la scelta migliore da fare, e alla fine mi risolsi a declinare l'invito per il ricevimento (al quale mi sarei sentito senz'altro a disagio, non conoscendo nessuno), ma accettare quello alla discussione della tesi. Avrei assistito all'ampollosa esposizione delle sue considerazioni riguardo l'esistenza di vita extraterrestre, al suo – per dirla con parole dello stesso Hoffeldorf – accademico stupor mundi.

Non appena ebbi terminato la colazione, troppo distratto dalle circostanze per studiare, feci per uscire dallo studentato, con l'intenzione di recarmi a noleggiare un abito da cerimonia. Il telefono della mia stanza squillò, bloccandomi, mentre stavo per varcare l'uscio. Con fare annoiato, alzai la cornetta, e mi ritrovai al cospetto della tonante voce del professor Pfannkuchen.

«Abbiamo riscontrato un problema col radiotelescopio» mi annunciò, dopo le solite domande di rito sulla mia salute. «Questa mattina, alle otto e trenta, ha inviato all'Istituto un segnale che non riusciamo in nessun modo a spiegare. Potresti andare a verificare di persona?»

Il professor Pfannkuchen era un tipo simpatico. Portava degli occhialetti tondi sul faccione rubicondo, che sembrava una luna piena appena sorta, e il periodo che aveva passato in Italia gli aveva fatto prendere l'abitudine di gesticolare quando voleva porre enfasi su concetti particolarmente importanti. Era grazie a lui se, dopo quello spiacevole incidente con la cupola dell'osservatorio, non ero stato cacciato dal corpo di ricerca ma piuttosto trasferito nel novero di chi usava, per captare onde radio, parabole smisurate.

Gliene ero – e gliene sono tuttora – molto grato, ma il suo salvataggio implicava, come effetto collaterale, il fatto che si sentisse libero di telefonarmi a qualsiasi ora del giorno e della notte, e che a ogni suo "potresti...?" corrispondesse, di fatto, un ordine.

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