Primo giorno

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Era da ormai tempo che Elio osservava Cecilia da lontano, ne disegnava gli occhi, poi voltava pagina, incrociava il suo braccio e ne disegnava una parte, spesso il polso, perché credeva fosse una parte del corpo che dice molto sul soggetto. Guardandolo ne si può capire la muscolatura, la fatica che prova, la forza che esercita, a volte l'etá, e spesso insieme alla mano ne si capiscono le espressioni. Per questo il ragazzo non era solito alzare lo sguardo per incrociare quello di Cecilia, spesso per il troppo imbarazzo ma altre volte per il semplice fatto che ne capisse lo stato d'animo giá dai pochi arti che ne disegnava di lei.
Tutto ciò che gli passava per la testa aveva sempre avuto l'abitudine di appuntarlo sul suo sketchbook. È come se avesse delle visioni e spiegarle a parole poteva essere complicato per uno come lui che non parlava spesso.

Cespuglio riccio e ramato, occhi chiari, muscolatura minuta, naso pronunciato ma con un certo suo fascino e altezza media per la sua etá. Passione per il disegno, più di preciso per disegni di architetture di cittá, palazzi, edifici alti, monumenti, castelli. Per questo se ne andava per la sua città cercando costantemente un nuovo soggetto, oltre le persone che conosceva sulle quali aveva queste visioni particolari.

12 settembre, il quarto liceo era alle porte, non era mai stato un tipo molto studioso, faceva il minimo indispensabile perché aveva delle convinzioni tutte sue ed ogni suo gesto aveva un fine quasi come di ribellione. Pensava infatti che quell'istituzione allenasse esclusivamente gli studenti nel memorizzare regole, date, avvenimenti ed era raro trovare qualche insegnante che sapesse spiegare ai ragazzi cosa in realtà spinse le persone di un tempo ad agire in un certo modo, le cause di ogni decisione, di ogni attrito, di ogni rivoluzione. C'era però il professor Dubois, con deducibili origini francesi, che aveva un qualcosa di diverso. Occhialuto, capelli sempre sfatti, con un fare sempre sospettoso nel suo modo di aggiustarsi la giacca che portava anche nelle stagioni più calde. Un paio di baffi che distoglievano l'attenzione dal suo sguardo lo rendevano un uomo di cui era difficile distinguerne le emozioni. Se qualcosa gli stava bene quell'aria di insoddisfazione lo pervadeva costantemente nonostante tutto, quasi ad eliminare di proposito la voglia di migliorarsi
da parte degli alunni.
È per questo che Elio ne provava una certa stima, sia per il suo fare che per i suoi ideali, come se gli leggesse negli occhi, attraversando la difficile barriera che erano i suoi occhiali profondi, la stessa sensazione che egli stesso provava: un certo rigetto nell'istruzione basata sulla semplice memorizzazione di un contenuto.
Forse anche lui, come Elio, mentre tornava a casa si faceva domande sulla sua stessa materia, sul come e sul perchè a tanti artisti passava sempre per la testa qualcosa di strano, sul perché bisognasse dannarsi e disperarsi per trovare la giusta ispirazione per produrre un capolavoro.

Elio non rimuginava sulla vita degli artisti, preferiva invece riflettere su quella delle persone attorno a sè. Spesso non capiva l'atteggiamento degli altri e rimaneva quindi ore a pensarci, alla fine si dava una spiegazione addizionando man mano i gesti e le sensazioni che gli facevano percepire. Non coglieva mai l'occasione di poter effettivamente porre quesiti alle persone, se qualcosa non gli era chiaro avrebbe potuto domandare, ma preferiva invece cercarsi le risposte da solo, era come se odiasse comunicare perché gli sembrava superfluo, o più profondamente ne era intimorito. C'era come una barriera tra lui e loro. Non c'era mai stata forse l'occasione di poter interagire, il suo aspetto da spirito stanco e affaticato per via delle ore di sonno mancate lo facevano apparire come un dannato ed egocentrico adolescente che non aveva voglia di ascoltare quei futili problemi da ragazzini.
Elio, per quanto assurda la contraddizione col suo aspetto esteriore, tendeva invece sempre a mettersi in secondo piano, che si parlasse di amici, cioè quei quattro ragazzi con cui di tanto in tanto si incontrava fuori scuola alla pista di skate, o di famiglia, vale a dire i suoi genitori Caterina e Leonardo, sempre in pensiero per il loro figlio minore emarginato dalla società. Il maggiore pareva invece cavarsela bene a Londra col suo nuovo lavoro da scaffalista di una biblioteca in periferia.
Il sedicenne assonnato e riccioluto non avrebbe mai pensato che un giorno come tanti, per un minimo incidente, si sarebbe dato inizio ad una ricerca incessante in una di quelle materie che non si studiano a scuola ma che per qualche motivo, l'avrebbe avvicinato a quelle persone delle quali lui ne aveva solo disegnato l'aspetto.

Erano passati anni dalla prima volta che Elio prese la metro da solo, si sentiva impaurito, sapeva che non era un posto sicuro e avere la responsabilità di sè stesso in un luogo come quello lo faceva sentire perso, aveva paura di dimenticare la strada, aveva paura di dover chiedere aiuto a quegli estranei a cui lui non aveva mai rivolto direttamente il suo sguardo ceruleo, aveva paura che tra tanta gente in spazi piccoli, lui avrebbe potuto sentirsi sopraffatto, sovrastimolato. Ma tutto ciò non era un buon pretesto per evitare questo passaggio importante nella sua vita, dato che il suo liceo si trovava in centro cittá ed era complicato per il padre accompagnarlo in scooter ogni mattina, dato che egli lavorava da tutt'altra parte, in uno di quegli uffici amministrativi ai piani alti di qualche edificio.
Per rincuorarsi, quella prima mattina, si infilò le cuffiette e chiamò la madre per avere compagnia, ma i tempi cambiano e le persone crescono, la mattina di quarto liceo infatti preferí ascoltare della musica che potesse calmare la propria ansia da prestazione per il primo giorno al quale fingeva di essere indifferente. Invece, come al solito, gliene fregava e come. Uscito dal tunnel della metro si sfilò le cuffiette per qualche minuto, come per porre attenzione più a ciò che vedeva che a ciò che ascoltava, alzò il mento e vide un'imponente nuvola nera che gravitava su tutta la zona della scuola e dintorni. Abbassò nuovamente il capo e con un gesto rapido e abituale si riposizionó le cuffiette, alzandosi il cappuccio della felpa blu notte tanto quasi da non farsi riconoscere.

Si incamminó verso la scuola e vide già da lontano in cortile tanti gruppi di ragazzi parlanti esattamente come li aveva lasciati il precedente giugno. Niente era cambiato se non qualche taglio di capelli ed il portone d'entrata che pareva ritinteggiato da qualcuno non del mestiere.
Si diresse verso il suo gruppo di compagni di classe che, per quanto non andasse tutti d'accordo, erano pur sempre legati da quell'odioso rituale scolastico che li aveva tenuti assopiti sui banchi quei tre anni per sei ore al giorno nella stessa stanza.
C'era chi in quegli anni trovó dei buoni amici anche nel gruppo classe, e che quindi non smettevano di discorrere l'un l'altro su come fossero andate le vacanze estive. C'era poi chi invece, come Elio, rimaneva seduto sul muretto lì di fianco ad aspettare che suonasse la campana per ricominciare tutto daccapo. Silenzioso e disinteressato però, amava ascoltare gli altri parlare delle loro vite, aveva imparato un mucchio di cose avendo avuto Anna come sua vicina di banco, che di continuo blaterava con con la ragazza del banco avanti su tutti i pettegolezzi della scuola. Così ogni volta che durante gli anni precedenti scendeva dallo scooter vecchio e scapestrato del padre, si incamminava verso il portone e rivolgeva uno sguardo diverso verso ogni componente nel cortile, sapendo ogni loro segreto e imparando pian piano l'ipocrisia dell'essere umano.
Sentì, qualche mese prima del termine della scuola, anche pettegolezzi su Cecilia. Sentendo questo nome sobbalzó ma non voltò mai lo sguardo verso le due. Aveva sempre avuto per tutti quegli anni una posizione precisa che gli consentiva di sentire perfettamente ogni parola e addirittura di capire ogni verso o ghigno che Anna o l'altra potessero emettere: era mezzo sdraiato sul banco, reggendosi il capo con la mano e dando praticamente le spalle alla sua compagna. In quell'occasione si limitò ad avere una certa espressione più interessata del solito e per concentrarsi meglio sulla discussione delle due iniziò a fissare un punto impreciso del pavimento, che tramutò poi in un fissare il cesto dell'immondizia. Il professore di chimica, notando la disattenzione dell'alunno, continuò a parafrasare le parole del libro ma nel frattempo appoggió il testo sull'avambraccio per alzarsi e avvicinarsi al secchio. Diede poi un leggero calcio ad esso che provocò un fastidioso rumore di metallo, per il quale Elio subito si destó:
- Bianchi, la vedo molto interessato a questo oggetto da arredamento della classe.
La classe un po' perché la situazione sembrava richiederlo, un po' per abbindolare l'insegnante, scoppiò in un fragoroso ma cauto ghigno.
- Mi scusi prof.
incroció lo sguardo del docente, si sistemó composto sulla sedia, afferró la matita ed iniziò a sottolineare parti del testo. L'uomo di mezz'etá quindi, quasi contento di non aver ricevuto futili scuse ma solo una gentile risposta pentita, si aggiustò i tondi occhiali dorati che gli donavano una limitata visione del libro, e ritornò a leggere.

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