Non mi ero del tutto ripresa dallo shock quando arrivai al cimitero celtico dopo il pranzo. La giornata era più calda delle solite temperature di maggio e decisi di lasciare lo scialle a casa.
Avevo raccontato a mia madre durante il pranzo dell'incontro con le galline di quella mattina e si era sbellicata dalle risate.
Ridere le faceva bene, la vedevo meglio dopo una bella risata.
Il mio umore ne aveva quindi risentito, riuscendo così ad accantonare quello sguardo feroce come un avvenimento su cui sorvolare. Anche se mi dava ancora un senso di inquietudine a cui non ero in grado di soprassedere.
Ero invasa da una miriade di pensieri, perciò il mio corpo percorse in modalità automatica tutto il sentiero.
Dall'ingresso del bosco centrale che riempiva per un terzo l'isola, mi infilai tra la fitta vegetazione e arrivai nel luogo sacro ai nostri antenati, nascosto alla vista ottusa e distruttiva che era stata la chiesa cristiana nei secoli.
I grandi alberi di betulla bianca vegliavano su ciò che era rimasto di un'antica radura, in cui erbe e fiori di ogni tipo, da poco spuntati dal terreno acido e povero, riempivano la vista e l'olfatto.
Tra le numerose radici secche coperte da muschi e le immense fronde degli alberi ancora in vita, emergevano massi di pietra scura, incisi in una lingua ormai sconosciuta.
Mi fermai nel punto dove finivano gli alberi e iniziava la radura.
In una zona laterale erano ancora ben saldati a terra alcuni pilastri di granito, posti in semicerchio, al cui centro era situata una sorta di altare rudimentale, molto probabilmente usato per cerimonie e offerte.
Tra i libri della biblioteca non avevo ancora trovato nulla che parlasse di quelle pietre e mi chiedevo spesso se fossero solo nostre, una caratteristica propria della nostra isola.
Almeno mi piaceva pensarla in tal modo.
Dall'altro capo della radura, seduto con una gamba penzoloni e una ripiegata sull'altare, noncurante della storica sacralità del luogo, stava appolaiato il mio amico.
Era intento a raffinare con il coltello una freccia, ricavata da uno dei medesimi rami con cui si riparava dal sole.
− Se non sei a pescare sei a cacciare, eh?− dissi senza preavviso, facendolo sobbalzare, concentrato com'era nel suo lavoro.
Bash sbuffò, evidentemente infastidito dal disturbo e senza smettere di lavorare sulla freccia mi rispose.
− Come giustifico l'uscita sennò? Almeno porto della carne a casa.
Poi mi guardò meglio e aggiunse.
− Che ti è successo in testa?− mi chiese sbalordito.
Avevo ancora la chioma arruffata di questa mattina.
Sebbene mia madre avesse provato a sistemarli i capelli non erano tornati affatto al loro posto, ancora scossi dallo scontro con i volatili. La treccia era ormai un ammasso indistinto di ciocche che non ne volevano sapere di stare legate assieme.
Decisi di provare a sistemarla una volta raggiunto il pescatore.
Avanzai lungo la radura per raggiungerlo, schivando qua e là pietre tombali e vecchie radici, soppesando la volontà di raccontargli o meno le vicende di quella mattina.
Alla fine cedetti.
− Non ho dormito molto bene stanotte, il motivo penso ci arriverai, e così non mi sono alzata in tempo per la messa. Quando ho cercato di fare colazione con un uovo, ho avuto un incontro ravvicinato con le mie galline. Il risultato è stato qualche beccata e un cuscino di piume in testa.
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La biblioteca nel faro
Historical FictionInghilterra, 1665. Céline Wallowick, quasi sedici anni, è la guardiana del faro. Ha osservato da lassù la vita monotona dell'isola che chiama casa da troppo tempo ormai, è ora di cambiare aria e di vedere il mondo. E quale miglior modo di piantare...