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Il mattino seguente Ruth entrò in classe con espressione d'animale ferito. Aveva occhiaie tanto violacee da affossare gli occhi scuri, in un viso pallido come gesso. 

Non aveva dormito. Era andato a letto accusando un mal di testa, per sfuggire allo sguardo di Elysia, che avrebbe letto ogni lettera di verità fino al fondo della sua anima, ma quando si era addormentata, l'incubo era tornato più feroce e soffocante di sempre. Si era risvegliata boccheggiando, in un bagno di sudore e lacrime. Il resto della notte era trascorsa fissando intensamente il soffitto, sentendo le membra diventare rigide e fredde, quasi entità separate dal suo corpo, fluttuanti nella gelida aria immota della sua stanza. 

Voleva solo che tutti la lasciassero in pace. Quella del giorno prima era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso: non aveva amiche, non le voleva. Desiderava solo che quel branco di ragazzine superficiali e odiose la lasciasse in disparte, a leccare le proprie ferite, piuttosto che cercarla solo per torturarla con promesse dolci dal retrogusto di fiele. 

Mentre si sedeva rigidamente al suo banco, udì dei bisbigli alle sue spalle. Sapeva che le sue compagne stavano parlando di lei, perché si era presentata a scuola con una faccia nient'affatto amichevole e i capelli in disordine.

Avrebbe voluto dire loro che era così che si presentavano le figlie bastarde delle fattucchiere. E se non avessero smesso immediatamente, forse avrebbe fatto loro un maleficio. Si chiese se la rettrice del Santa Barbara avrebbe acceso un rogo nel mezzo del giardino per bruciarla come un'eretica.

"Ruth?"

Riconobbe la voce che l'aveva chiamata. Strinse i denti, mentre apriva la cartella ed estraeva penna, calamaio e il quaderno, ignorando totalmente l'ombra che era comparsa al suo fianco e che la sovrastava. 

La sedia a lato della sua si mosse scricchiolando e subito dopo accolse il peso di qualcuno. Ruth continuò a fare ciò che stava facendo. Non avrebbe parlato con lei. Sapeva che era una creatura di Mary Rose.

"Ruth, per favore".

"Lasciami stare".

"Perché ti sei arrabbiata con me? Non è affatto vero quello che hai detto di me".

Ruth continuò ad evitare il contatto con gli occhi di Hazel. Si mise a rovistare nella cartella, facendo finta di cercare una matita scomparsa chissà dove. 

Questo fino a quando le mani dell'altra ragazzina non si tesero sulle sue braccia, stringendole forte e dandole uno strattone. Ruth per la sorpresa si voltò e si trovò a fronteggiare due gocce d'ambra incendiate di rabbia.

"Sei una maledetta stupida".

"Lasciami" sibilò, cercando di liberarsi da quelle tenaglie di carne e ossa. "E non ti permetto di parlarmi così, io..."

"Sono anche io adottata, Ruth".

La ragazzina smise all'improvviso di dibattersi. Fissò Hazel come se lei avesse appena bestemmiato. Subito dopo si crucciò.

"Smettila di mentire".

"Non sto mentendo, sei tu che non vedi oltre il tuo naso. Sono una figlia adottiva anche io, come te".

"Ma..."

"Quattro dei sette figli dei signori Anderson lo sono. Pensi di essere l'unica al mondo ad essere stata adottata? Beh, ti sbagli. Ed è ora che apri gli occhi".

Hazel la lasciò andare, le rivolse un ultimo sguardo pieno di risentimento e si mise a sistemare il banco per la prima lezione della mattina.

Ruth rimase lì, imbambolata, a fissare le spesse trecce della sua compagna di banco e chiedendosi cosa fosse appena successo. Le aveva detto la verità? E se era così... lei si era comportata come una matta il giorno prima. Aveva pensato fosse un intero complotto a suo danno. 

Era ancora lì che rifletteva su tutto ciò, quando Mary Rose entrò in classe, seguita a ruota dalla sua accolita Minnie. Non appena incrociò il suo sguardo, la ragazzina arricciò le labbra troppo spesse, mostrando i suoi piccoli, maligni dentini bianchi. 

"Il banco delle scartate" starnazzò, mentre Minnie ridacchiava approvando quel nome. Hazel non disse niente, Ruth nemmeno. Mary Rose attese qualche secondo, poi proseguì seccata: odiava quando nessuno rispondeva alle sue battute crudeli. 

"Il banco delle scelte" udì Ruth. Hazel lo aveva detto tra i denti, ma quel piccolo, sussurrato commento ebbe l'effetto di un'onda di tempesta in pieno viso per lei. All'improvviso si sentì molto sciocca per aver accusato quella ragazza di essere in combutta con tutte le altre. Da quanto tempo la conosceva? Meno di dodici ore? Eppure non si era comportata meglio di quel branco di sciocche, nell'appuntarle sulla blusa dell'istituto la medaglietta con il titolo di bugiarda e doppiogiochista. 

Si sentì molto triste al pensiero di non essere molto migliore delle altre. 

"Hazel".

"Cosa vuoi?"

"Mi spiace".

"Non è che magari tra mezz'ora cambi di nuovo idea e ti metti a correre lasciandomi sola sul sentiero?"

"No".

Hazel abbandonò ciò che stava facendo e la guardò. Sembrava meno arrabbiata di prima.

"Lo so cosa ti passa nella testa".

"No, non lo sai".

Perché Hazel poteva anche essere un'orfana adottata, ma rimaneva pur sempre la figlia del reverendo. Però non lo disse. Non era il momento per rivelare certi dettagli.

"Sì, invece lo so. Sono andata a scuola anche io, prima di venire qui. Non pensare che a Londra trattino molto meglio gli orfani".

Ruth abbassò gli occhi, mentre giocherellava con le proprie dita. 

Dopo un paio di minuti senza dire niente, Hazel proruppe in un: "Facciamo finta che non sia successo niente. Incantata, io sono Hazel. Piacere di conoscerti, Ruth. Ora possiamo ricominciare da capo".

"Non mi odi per ieri?"

"No, perché poi dovrei diventare amica di quella con le labbra che sembrano due lumache su un cespo di insalata".

Ruth sorrise come era solita fare e non aggiunse altro.

"Dopo torniamo a casa assieme?"

Hazel le lanciò uno sguardo in tralice, ma nei suoi occhi ambrati come quelli di un gatto c'era una punta di divertimento.

"Forse".


Rotting RuthDove le storie prendono vita. Scoprilo ora