Capitolo 28

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Noah

Tengo gli occhi fissi sulla strada, mentre le mani di Anna non smettono di tremare. Siamo in macchina da cinque minuti, e il traffico mi fa capire che ne impiegheremo almeno altri dieci per arrivare a casa sua. Da quando siamo partiti dall'appartamento, lei non ha detto una parola: continua a guardare fuori dal finestrino, respirando profondamente.

«Mi dispiace» dico di scatto, e lei si gira verso di me.
«Per cosa?» ha le sopracciglia aggrottate, e lo sguardo confuso.

È così dannatamente bella.

«Per quello» indico con lo sguardo le sue mani tremanti.

La vedo abbassare lo sguardo con la coda dell'occhio, e incrocia le braccia al petto, per nasconderle.

«Non è niente. E anche se fosse, non è colpa tua» ribatte, stringendo le labbra.

Sorrido debolmente, perché so che non è la verità. Ricordo come ha reagito l'ultima volta che è stata una notte fuori casa senza dirlo a sua madre: era terrorizzata. E so che lo è un po' anche adesso. Vorrei consolarla, ma le cose sono andate così bene tra noi questa mattina, e ho paura di rovinare tutto.

«Sicura? È comunque colpa mia se sei stata fuori tutta la notte» insisto.
«Ne avevo bisogno. È stato bello passare del tempo con te... con voi. E poi... probabilmente mia madre mi impedirà di uscire per i prossimi due mesi, anche il tempo non ce l'avrei nemmeno avuto: fra una settimana cominciano una serie di esami importanti» le sue labbra rosa si incurvano in un sorrisetto sghembo.
«Lo studio è molto importante per te, non è così?» chiedo.
«Ti interessa?»
«Non te l'avrei chiesto altrimenti.»

Lei si acciglia, come se non mi credesse. È così buffa quando si arrabbia: probabilmente è per questo che non riesco a smettere di farla irritare.

«Ti stupisce così tanto il fatto che mi piacerebbe conoscerti meglio?»
«Be'... da quando lavori per mia madre non hai fatto altro che stupirmi.»
«Davvero?»
«Sì. Diciamo che sei... meno irritante di quanto io pensassi» e di nuovo il sorrisetto sghembo di prima si fa spazio sul suo viso.

Scuoto la testa, e scoppio a ridere.

Incrocio le braccia al petto: le macchine non si muovono più, e credo che dovremo restare qualche minuto fermi. Giro la testa e la guardo.

«Allora, dimmi questa cosa dello studio» insisto, mentre lei mi fissa con la bocca spalancata.

Chiude la bocca e si stringe le braccia al petto, quasi come se avesse freddo.

«Qualche anno fa lo studio era una distrazione. Mi aiutava a non pensare... a pensare ad altro del fatto che... insomma le cose in famiglia non andavano bene. Ora non è più così. Lo studio mi ruba tutto il mio tempo e sinceramente sono esausta» il suo sguardo è fisso sul vetro del finestrino, e riesco a vedere che si sta mordendo il labbro.

Confidarsi con me non le sta vendendo facile, ma il fatto che lo stia facendo lo stesso mi provoca una sensazione strana: più o meno come quando stai sott'acqua e risali in superficie per prendere una boccata d'aria.

Questa volta si gira verso di me e mi guarda negli occhi: «Però c'è un'università di lettere a Parigi, e andarci è sempre stato il mio sogno. Per questo studio come una dannata: loro accettano solo i migliori, e costa molto. Mio padre mi ha promesso di pagare tutto per me, ma ovviamente in cambio devo essere la figlia perfetta» sorride amaramente.

Sono incuriosito da come i suoi occhi si sono accesi quando ha parlato del suo "sogno".

«Quindi il tuo sogno è andare all'università?»
«Ho tanti sogni, ma sì, Sherlock: andare all'università e uno di loro» mi sorride, mostrando i suoi denti bianchi, «E tu? Qual'è il tuo sogno?»
«Io... non lo so» faccio le spallucce, ancora ipnotizzato dal modo in cui mi ha sorriso.

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