Parte VI

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Fa ancora un caldo infernale.
Cammino a testa bassa, passo tra la gente senza farmi guardare in viso.
Ho infilato una felpa, ho il cappuccio alzato sulla testa.
Sento i loro occhi addosso, li sento guardarmi come se fossi pazzo.
Probabilmente sono pazzo.
Sicuramente lo sembro.
Ma non mi importa.
L'aspetto che ho adesso sarebbe ben peggiore, ai loro occhi.
Cammino piano, con calma.
Se non mi si è rotta qualche costola, penso di esserci andato molto vicino.
Il dolore al petto mi fa boccheggiare.
Cammino, e non so neanche dove vado.
Dove vado?
Vengo da te?
...
No.
No, non posso venire da te.
Vorrei.
Sei l'unica persona che vorrei vedere in questo momento.
Ma non posso.
L'ho escluso non appena sono riuscito a scappare di casa.
Non posso permettere che i tuoi genitori mi vedano così.
Non so neanche se voglio che tu mi veda così.
Nonostante tutto.
Aggiusto il borsone sulla spalla, lasciando che siano le gambe a guidarmi, non sapendo bene dove andare.
Cammino, cammino e basta.
E penso.
E la mente si riempie di ricordi, di immagini.
E continuo a pensare a quanto è successo appena qualche istante fa.
...
Vaffanculo.
È stato inevitabile.
Ed è stato quello a scatenare tutto.
I ricordi sono confusi.
Mia madre che urla, mio padre che mi spinge.
Schiaffi, pugni.
Mani strette intorno al viso, alle braccia, ai polsi.
Sento la rabbia risalirmi nello stomaco, aumento il passo.
Con una smorfia di dolore, mi fermo.
Ansimo, nel caldo torrido di questo primo pomeriggio.
No, decisamente non posso correre.
Devo camminare piano, lentamente.
Giro in una strada semi deserta.
Mi lascio cadere sul bordo del marciapiede.
Respiro.
Fa male ovunque.
Ogni centimetro di pelle.
Pulsa, in modo sgradevole.
Non so quanto è durata.
Non so quanto tempo sono rimasto bloccato lì.
È stato peggio delle altre volte.
Questa volta non sono scappato, non ho pianto, non ho chiesto scusa.
Questa volta sono rimasto, l'ho affrontato, al minimo delle mie possibilità.
Non ho reagito con le mani.
Non potrei mai farlo.
Io ho una morale, al contrario loro.
Ho reagito però.
Qualcosa in me è cambiato.
E loro lo sanno.
Lui l'ha percepito.
Ho incassato come meglio potevo.
Senza dire una parola, senza una smorfia, senza un commento sarcastico.
Non so per quanto.
Per minuti.
Minuti interi.
Ma non mi sono piegato.
E poi sono andato via.
Mi sono alzato dall'angolo in cui mi aveva spinto, ho recuperato il borsone.
E sono andato via.
Senza dire una parola.
Non ho più voglia di parlare, non con loro.
Non dopo oggi.
Mai più.
Chiudo gli occhi, mentre le sensazioni fisiche mi invadono.
Sento ancora dolore, ma riviverlo nella mia mente non fa che accrescerlo anche nel corpo.
Il labbro che si spacca.
Il pugno nel costato, che mi mozza il respiro.
La testa e la schiena che sbattono contro il muro, le sue mani che mi afferrano per la maglietta.
Il sapore metallico del sangue nel naso, del sangue fra le labbra.
Le urla nelle orecchie.
Le sue, quelle di mia madre.
Il mio silenzio, dentro.
Il pulsare del viso, ad ogni schiaffo.
Il dolore al polso, quando ho cercato di allontanarmi e mi ha trattenuto.
Il pavimento freddo sotto le dita, quando sono caduto, e mi sono rialzato.
Il dolore lancinante quando cadendo ho sbattuto un ginocchio per terra.
Ogni muscolo che doleva, quando ho raccolto il borsone, l'ho messo in spalla e sono andato via.
Senza tradire nessuna emozione.
Senza far capire che dentro di me tremavo.
E tremo ancora.
E tremo anche fuori, ora.
Stringo le ginocchia al petto, me le abbraccio.
Ci seppellisco dentro il viso.
Non avessi avuto il capelli corti, probabilmente me li avrebbe strappati per la rabbia.
Per la furia ceca.
Mi sono chiesto tante volte perché si arrabbiasse così tanto.
Come può arrabbiarsi così, per una cosa tanto stupida?
Come può perdere il controllo?
Come ha fatto, oggi, a perdere definitivamente il controllo?
Ora, finalmente, riesco a rispondermi.
Il problema, fondamentalmente, sta tutto lì.
Nel controllo.
Lui, loro, non hanno più il controllo su di me, sulla mia vita.
Fino a ieri, la paura mi ha sempre impedito di vivere come volevo, di fregarmene di loro e dei loro pensieri bigotti e retrogradi.
Oggi, me ne sono fregato.
Me ne sono altamente sbattuto le palle di tutto ciò che loro pensano, vogliono o sperano.
Vivrò come voglio, possibilmente, da oggi, senza di loro.
Non ho più paura.
Sono libero.
Sono fuori dal loro controllo.
E questa cosa, questo dettaglio, ha mandato il cervello di mio padre in corto circuito.
Oggi più che mai, oggi più delle altre volte.
È una perdita di controllo irrevocabile, definitiva.
Non lo ha fatto ragionare.
Perché lo ha capito anche lui.
Lo ha capito dal mio sguardo di sfida, dagli occhi che non hanno mai smesso di brillare, che non ha più alcun controllo su di me.
Che ieri era paura, oggi è libertà.
E lui non lo ha accettato, non ha accettato questa sconfitta.
Ha cercato di affrontarla con le sole maniere che conosce.
Sorrido, mentre una lacrima bollente mi sfugge.
Non ho pianto mai, finché ero con loro.
Io non piango mai.
Ma ora sono solo, non c'è nessuno, nessuno mi guarda.
Posso permettermi di essere debole, almeno adesso.
Lascio scivolare via la lacrima, e insieme a lei mi libero di tutta la rabbia.
Scende sulla guancia, sul mento.
Brucia, lì dove la pelle è graffiata, rovinata, livida.
Lascia dietro di se solo tanto dolore.
Aggrapparmi alla rabbia era facile.
Avere a che fare con il dolore e con lo sconforto non lo è.
Non lo è per niente.

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