Parte XIV

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...tre anni dopo...

Guardo il sole spuntare tra le case, in lontananza.
Quest'anno l'autunno non ha tardato ad arrivare.
È ancora metà ottobre, ma ha piovuto ininterrottamente per giorni interi.
Il sole che sorge, sta mattina, sembra quasi un miraggio.
Il gorgoglio del caffè mi distrae, mi allontano dalla finestra.
Lo zucchero.
Un cucchiaino a me, due a te.
Lo verso in due tazzine.
"Sei ancora in pigiama?!"
Non mi volto neanche al suono della tua voce.
La tua domanda non mi sorprende.
È sempre la stessa, praticamente tutte le mattine.
Mi volto, poso la tazzina sul tavolo e mi siedo.
Inarchi un sopracciglio e poi, sbuffando, ti siedi anche tu.
Bevi stizzito il caffé, ti accendi una sigaretta.
Eviti il mio sguardo, puntandolo sulla parete dietro di me.
Sorrido.
Sono le sette, iniziamo a lavorare alle otto meno un quarto. Come tutti i giorni.
E come tutti i giorni, sembra che dobbiamo attraversare il deserto a piedi per raggiungere il lavoro in orario.
Almeno, così sembra a te.
"Che c'è?"
La tua voce stizzita fa allargare il mio sorriso.
"Io non ho niente. Tu che hai?"
Lasci scorrere lo sguardo in modo eloquente sul mio corpo.
"Sei ancora in pigiama"
Lo ripeti, questa volta non come una domanda.
Lo dici come se stessi cercando di farmelo notare, come se io non lo avessi capito.
Come se non me ne fossi accorto.
"Lo so"
"Hai intenzione di vestirti prima o poi o vuoi andare a lavoro così?"
"Sono le sette, Marco"
"E allora?"
Sospiro, guardandoti accondiscendente.
Come si fa con i bambini.
"E allora è presto"
"Non è presto. Devi lasciare me prima di andare in fabbrica"
"Sì, lo so. Come tutti i giorni"
"E sei ancora in pigiama"
Sbuffo, alzo gli occhi al cielo.
"Devi per forza rompermi i coglioni appena mi sveglio?"
Sventoli la mano che regge la sigaretta, lasciando una scia di fumo.
"Devo romperti i coglioni sempre, senno chissà che fine fai"
Sbuffo di nuovo.
Mi alzo, lasciando cadere malamente la tazzina del caffè nel lavandino.
Cammino a passo di marcia verso il bagno, passandoti accanto.
Con la coda dell'occhio, vedo che sorridi.
...
Fanculo.
Che rompicoglioni.
Ti supero.
"Enea"
La tua voce che mi chiama mi fa bloccare.
Ingoio una rispostaccia e rimango fermo, dandoti le spalle.
"Che vuoi?"
"Vieni a darmi un bacio"
Non è una richiesta.
Assomiglia più ad un ordine.
Mi volto di scatto, guardandoti con un sopracciglio inarcato.
"Pure?!"
Annuisci.
Al movimento, i ricci ondeggiano.
Aspetti, guardandomi in silenzio.
Incrocio le braccia al petto.
"Non te lo meriti"
Scrolli le spalle, sorridendomi felice.
"Forse, ma lo voglio lo stesso"
Trattengo il sorriso dentro di me.
Il tuo atteggiamento infantile ed egoista mi diverte.
Forse lo sai, e ti comporti così proprio per questo.
Mi allontano dal bagno, mi avvicino a te.
Il tuo sorriso si allarga, mentre mi guardi dal basso.
Mi chino, dandoti un bacio leggero.
Le tue mani mi cingono per la vita, impedendomi di allontanarmi.
Ti sento sorridere.
Con uno scatto, sciolgo il nodo della cravatta che hai già perfettamente allacciato.
Mi spingi via.
"Vaffanculo, stronzo!"
Prima che tu possa anche soltanto pensare di alzarti, vado verso il bagno, chiudendomi dentro.
I tuoi borbottii irritati mi raggiungono attraverso la porta chiusa, mentre cammini verso la camera da letto.
Il nodo della cravatta non è il tuo forte, e adesso passerai i prossimi 10 minuti a rifarlo.
Rido, mentre apro l'acqua della doccia.
Almeno non mi assillerai per il mio ritardo inesistente.

***

Il sole che riscalda la pelle, dopo tanti giorni di pioggia, è una cosa meravigliosa.
Ora è sorto completamente, e illumina la città ancora parzialmente deserta.
La gente inizia ad uscire, ma il traffico, alle sette e trenta del mattino, è ancora poco.
Abbasso il finestrino.
L'aria fredda mi punge il viso, e l'odore della pioggia penetra nelle mie narici.
L'asfalto è ancora bagnato dall'acquazzone della notte scorsa, e brilla sotto il sole del mattino.
Mi fermo ad un semaforo, guardo la gente camminare in modo ordinato sui marciapiedi.
Potrei fare questa strada ad occhi chiusi, ormai.
È un anno che lavori in banca, ed è un anno che io, tutte le mattine, ti accompagno a lavoro.
È un anno che passo a prenderti, quando finisco.
Fortunatamente, hai trovato subito lavoro dopo la laurea.
Io ci ho messo un po', ma di ingegneri meccanici è pieno il mondo.
Tu invece, con la tua laurea in economia internazionale e mercati finanziari, ci hai messo poco più di due mesi.
La certificazione di madrelingua inglese, poi, non ha fatto altro che facilitarti.
Tutta roba di cui io non capisco assolutamente nulla.
Hai provato più volte a spiegarmi in cosa consistesse esattamente il tuo lavoro, invano.
So che lavori in banca a diretto contatto con il direttore, so che ti occupi della gestione e dei rapporti con le filiali nazionali e internazionali, ma a parte questo brancolo nel buio.
Quando hai finalmente compreso che non ci capivo nulla, hai ripiegato su Tiziano.
Per fortuna.
Il mio lavoro di ingegnere meccanico in fabbrica è più semplice da spiegare del tuo.
"Domenica siamo da Tiziano e Paolo"
Il semaforo scatta.
Ingrano la prima e riparto.
Ti guardo con la coda dell'occhio.
Hai in mano il telefono.
"Te lo hanno scritto ora?"
"Sì. Precisamente, Tiziano mi ha scritto che le bambine chiedono sempre degli zii"
"Sempre? Siamo stati a casa loro due giorni fa"
Allunghi le gambe davanti a te, stiracchiandoti.
"Lo so. Probabilmente le bambine non chiedono proprio nulla, sono loro due ad essere psicopatici"
Scuoto la testa, svoltando nella strada della banca.
"Pensavo che una volta adottate le gemelle avrebbero mollato un po' la presa"
"Lo pensavo anche io. Speravo che focalizzassero il loro istinto genitoriale su di loro e lasciassero noi un po' in pace. Evidentemente ci sbagliavamo"
Sorrido, accostando davanti all'ingresso.
Spengo il motore e mi volto verso di te.
L'aria fredda che entra dal finestrino aperto per metà ti ha fatto arrossire.
Non tanto, però.
Le lentiggini si vedono ancora.
"Tu non dirglielo però"
Sorridi, scuotendo il capo.
"Ma sei pazzo! Se glielo dicessi, verrei intrappolato in una discussione senza fine"
Lascio scorrere il silenzio, vagando con lo sguardo.
Rifletto.
"In realtà, un pochino va meglio. Da quando hanno adottato Margot e Fleur due mesi fa, le visite a sorpresa a casa nostra sono drasticamente diminuite"
"Non ti illudere, è soltanto perché devono ancora abituarsi. Quando le bambine si saranno ambientate, suoneranno al citofono con la stessa frequenza di prima. Siamo quelli che abitano più vicino, e so già che saremo i loro baby sitter preferiti"
Annuisco, riflettendo tra me.
"Sicuramente. Ma non mi dispiace. Le bambine sono dolcissime"
Il tuo sorriso si intenerisce.
"È vero"
Scrollo le spalle, scuotendomi dai miei pensieri.
"E poi comunque penso sia una necessità. Si farebbero aiutare volentieri da Claudia, che è donna e ne capisce sicuramente più di noi, ma Francesco ha solo sette mesi, non ce la farebbe a star dietro anche a due bambine di sei anni"
"Questo, e anche il fatto che Paolo odia ancora il cognato che in soli tre anni ha conosciuto sua sorella, ci è andato a convivere, l'ha messa incinta e ora ha un figlio di sette mesi con lei. E non sono neanche sposati, vorrei aggiungere"
Rido, e tu mi segui.
Effettivamente, Paolo non ha mai perdonato appieno Enrico.
Ogni volta che siamo soli ed esce l'argomento, diventa nervoso.
Con molto divertimento sia nostro che di Tiziano.
"Neanche tua sorella è sposata, e Clarissa ha quasi un anno"
Scuoti una mano, allungandoti verso il sedile posteriore per recuperare la valigetta.
"Tanto per cominciare, Marta e Riccardo stanno insieme da 15 anni, non da 3 come Claudia e Enrico. E poi, Clarissa è capitata, se ancora è possibile che i figli capitino per caso. Francesco non è capitato, nonostante quello che dice Claudia. Enrico ha quasi quarant'anni, hanno accellerato i tempi, e questo Paolo lo sa. Oltre al fatto che non mi sembra abbiano nessuna intenzione di sposarsi, almeno a sentirli parlare"
Annuisco.
Probabilmente è vero.
In un anno, le vite dei nostri amici e dei nostri parenti sono cambiate.
Marta e Riccardo hanno avuto Clarissa a novembre dell'anno scorso.
Claudia e Enrico sono andati a convivere quasi subito dopo essersi conosciuti, e lei ha partorito Francesco a marzo di quest'anno.
Per non parlare di Tiziano e Paolo.
Si sono sposati, quasi due anni fa, con noi due come testimoni per Tiziano e Claudia e sua nonna per Paolo.
E poi, ad agosto, hanno adottato Margot e Fleur.
Ce lo hanno detto quando avevano già firmato le carte e dovevano partire per Lione per andarle a prendere.
Siamo rimasti sopresi, ma non più di tanto.
Avevamo intuito che ci stavano nascondendo qualcosa negli ultimi mesi.
Certo, non pensavamo ad un figlio, figuriamoci a due, ma il loro desiderio di voler allargare la famiglia è sempre stato evidente.
E quando le gemelle li hanno guardati chiedendo loro di portarle via insieme e non dividerle, loro non sono proprio riusciti a dire di no.
Ci hanno scelto loro, non le abbiamo scelte noi.
Ce lo ha detto Paolo, mentre provavano a raccontarci tutto.
E così, due mesi fa, sono volati in Francia in due e sono tornati in quattro.
E adesso sono papà, hanno a che fare con due bambine di sei anni che non capiscono una parola in italiano e che mettono a soqquadro la casa ogni volta che loro girano la testa dall'altro lato.
Ma sono felici.
Sono felici da morire.
Penso di non averli mai visti così tanto felici.
E noi siamo zii.
Siamo diventati, in un solo anno, zii di quattro, splendidi bambini.
Abbiamo visto nascere Clarissa e Francesco, abbiamo adottato anche noi, in qualche modo, Margot e Fleur.
I quattro bambini hanno riempito la vita delle nostre famiglie, ma hanno riempito anche la nostra.
Anche noi, come Tiziano, Paolo, Marta, Riccardo, Claudia e Enrico, non potremmo essere più felici di così.
Due dita schioccano davanti al mio viso.
Sobbalzo.
"Terra chiama Enea, sei ancora fra noi?"
Mi volto, sorridendoti e scuotendo il capo.
"Scusa. Pensavo"
"Tu pensi troppo"
"Forse"
Mi sorridi, allungando poi la mano verso lo sportello.
Con uno scatto, ci chiudo dentro, impedendoti di aprirlo.
Mi guardi, vagamente divertito.
"Non vorrei fartelo notare, ma sono quasi le otto, e tu devi guidare per un quarto d'ora prima di arrivare in fabbrica"
Annuisco, scrollando le spalle.
"Lo so. Poter arrivare in ritardo senza rotture di coglioni è uno dei vantaggi dell'essere l'unico ingegnere meccanico specializzato della fabbrica. Non possono licenziarmi"
Ridi.
Quando lo fai, ancora oggi, gli occhi ti brillano.
"Sei egocentrico"
"Mai quanto te"
Sembri pensarci, poi annuisci.
"Sì, è vero"
Mi sporgo appena.
Ti stringo il viso con una mano e ti bacio.
Le tue dita si serrano sul mio polso mentre schiudi le labbra contro le mie.
Non c'è vergogna, non c'è pudore.
Siamo qui, chiusi in macchina, davanti all'ingresso della banca in cui lavori.
Sono quasi le otto, e la gente che passeggia è aumentata rispetto a mezz'ora fa.
I tuoi colleghi ci passano affianco, entrando attraverso le grandi porte in vetro.
Ma non ci interessa.
Non ci interessa più, da anni.
Non mi interessa più.
Tutti loro sanno di noi, e ormai, per come sono adesso, anche se non lo sapessero non mi interesserebbe molto.
Ormai, faccio quello che mi sento senza pensare.
Almeno quando si tratta di te.
Non c'è giorno che tu scenda dall'auto senza che io ti abbia dato un bacio.
Non c'è notte che io vada a dormire senza che lo abbia fatto tu.
Se litighiamo, facciamo pace, sempre.
Non sopporterei di andare a lavoro senza averla fatta, ne di addormentarmi, ne di fare qualsiasi altra cosa.
È sempre così, ogni giorno, tutti i giorni.
E sono felice.
Lo sono davvero.
Lo sono, con te.
Ti sposti appena, guardandomi sorridente.
Il verde brillante dei tuoi occhi sembra catturarmi, ancora una volta, come tutte le volte.
Sorrido, ti do un ultimo bacio.
Poi mi allontano, sbloccando gli sportelli.
"Ora puoi andare a lavoro"
Ti sento ridacchiare, mentre metto in moto l'auto.
"Grazie della gentile concessione"
Scendi.
"Prego"
Lo sportello si chiude, parto.
Ti guardo entrare in banca attraverso lo specchietto retrovisore.

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