Capitolo XIX - Anima non flexerat

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N.d.A. In tempi record per me dall'ultimo capitolo postato, ecco quello nuovo. Sarà che ultimamente sto avendo un sacco di belle soddisfazioni da questa storia qui su WP...  Vabbè belli de zia me raccomando fate i bravi e buona lettura!


Capitolo XIX – Anima non flexerat


Sergio Sestio socchiuse gli occhi: la luce del sole in quella mattina estiva era accecante e il cielo era una immensa distesa azzurra, priva di nuvole. Infastidito da tutta quella luminosità, abbassò il capo per rimirare le sue mani: sulle dita aveva ancora alcune piccole chiazze di sangue.
Il sangue di Tito.
Cercò di ripercorrere con la mente le ultime, concitate ore.
Diretto alla domus dei Veranii dal Campo Marzio, aveva incrociato Handal appena poco oltre le mura della villa. Lo schiavo, con la freddezza che lo contraddistingueva, aveva detto solo poche e semplici parole, dapprima rassicuranti, poi atroci.
"Il senatore Maecia e il figlio del tribuno Peregrino sono in salvo. La mia domina sta bene. Il tribuno Corvo sta morendo".
Senza nemmeno rendersene conto aveva percorso il breve tratto in pochissimo tempo entrando nell'atrio della domus, il cui pavimento marmoreo era disseminato dai corpi di cinque uomini.
Vedeva ancora vivida davanti a sé la scena che gli si era presentata poco dopo, lungo il porticato che portava ai cubicula interni: il piccolo Flavio addormentato placidamente in terra; non lontano da lui, il senatore Maecia contro una colonna che pareva riprendersi, lamentandosi e toccandosi la nuca, con accanto il cadavere di un altro uomo con la gola tagliata.
Ebbe la tentazione di portarsi le mani agli occhi, dai quali non riusciva a cancellare l'immagine più terribile tra tutte: Camilla, dalle mani insanguinate, che gemeva addolorata e singhiozzante, piegata sul corpo esanime di Tito Fabio Corvo.
Il suo amico giaceva di schiena, la ferita sul ventre ancora coperta dai palmi di Camilla, il volto sereno, i begli occhi azzurri appena socchiusi e completamente assenti.
Il pianto della sua Camilla era stato così straziante che il fiato affannato della corsa gli si era spezzato in gola. Aveva percorso appena pochi passi in uno stato di profondo sgomento, per poi cadere sulle ginocchia.
Camilla si era riscossa, respirando a fatica: "Sergio..." aveva chiamato, ma non era riuscita a dire altro.
Lui aveva scosso la testa, muto, poi con la punta delle dita, aveva chiuso le palpebre del suo amico. Per sempre.
Per questo la luce del sole gli sembrava così inopportuna, in quel momento.
Il suo commilitone e compagno, colui col quale aveva diviso ore di addestramento, marce interminabili, orribili pasti da accampamento, scomodi giacigli, ferite e risate degli ultimi dieci anni. Tito Fabio Corvo, dal sorriso gentile e l'indole mite, non c'era più. E il grido di dolore di Claudio Decio gli aveva spezzato il cuore.
Sergio Sestio allora si riscosse; rifuggì la luce, allontanandosi dal sole accecante che aveva invaso il giardino della sua domus, piombò nell'oscura ombra, e, finalmente, fece ciò che non era riuscito ancora a fare: pianse.

Camilla si era trincerata entro un'armatura di ostinato mutismo, senza sapere cosa pensare o fare. Non era riuscita nemmeno a formulare meccanicamente una preghiera di conforto da sussurrare a fior di labbra. Se da un lato era sollevata del fatto che suo fratello e il figlio di Claudio Decio fossero sani e salvi, dall'altro aveva l'animo lacerato dalla morte di Tito Fabio. Una morte ingiusta, che avrebbe fatto fatica ad accettare.
Così si era fatta trascinare dagli eventi accaduti nelle ore successive. Estraniata dalla realtà circostante, rivedeva sé stessa, il suo corpo ancora lì, come un involucro vuoto, seduta in terra accanto al cadavere del tribuno Corvo, gli occhi inondati di lacrime fissi su quelle giovani membra, prima calde e forti, pulsanti di vita, ora fredde ed esangui.
Ricordava abbastanza nitidamente la carezza gentile e lo sguardo triste di suo marito Sergio, quando l'aveva aiutata ad alzarsi in piedi, nonostante dapprima non volesse. Come se allontanarsi da Tito avrebbe avuto l'effetto di lasciarlo solo ad affrontare qualcosa di terribile, senza l'aiuto di nessuno. E lei non voleva lasciarlo solo. Avrebbe continuato a vegliarlo, se fosse stato necessario.
Sergio, però, con estrema delicatezza, le aveva sussurrato all'orecchio: "Lascialo andare".
Così lei si era convinta finalmente a scostarsi dal quel corpo senza vita, non prima di aver posato un bacio su una mano di Tito. Quella mano immobile aveva salvato molte vite quella notte e quel piccolo bacio rappresentava la sua gratitudine.
Ciò che era accaduto in seguito risultava confuso e poco nitido nella sua testa, fin quando un grido di straziante dolore non l'aveva risvegliata dal quel tiepido torpore. Aveva spalancato gli occhi e aveva visto Claudio Decio Peregrino buttarsi su Tito, piangendo disperato. Sergio lo aveva quindi stretto a sé, provando a calmarlo ma senza risultato. Quella vista le aveva provocato una pena immane.
Con il peso della sofferenza che le premeva sul petto, aveva raggiunto i due uomini e, con premurosa pazienza, aveva aiutato suo marito a consolare il povero Claudio.
"Perché?".
Quella domanda le era salita alle labbra per porla a Dio, mentre si trovava, sola, nella sua camera della domus degli Scaptii. Si sentiva priva di forze, nel corpo e nello spirito. Kara le aveva portato dell'acqua e una veste pulita, ma Camilla aveva congedato la nubiana. Aveva bisogno di riflettere e capire.
Prese una bacinella, ci versò dell'acqua da una brocca e si guardò le mani. Atterrì a vederle coperte di sangue: piccoli puntini rossi risalivano fino ai polsi ed oltre. Il sangue si era rappreso, e in alcuni punti, tra le sue dita, aveva formato persino delle croste. Singhiozzò e immerse le mani nell'acqua. Era fredda e la sensazione di gelo che avvertì le saettò lungo le braccia fin dentro al cuore. Con la vista annebbiata dalle lacrime, cominciò a strofinarsi la pelle con vigore. L'acqua si tinse di rosso scuro.
"Perché?" mormorò "Signore, perché?".
Tito Fabio era un giovane dall'animo buono e coraggioso ed era stato così generoso da salvare tutti fino a morirne. Si era lanciato contro Helios senza pensarci, lo aveva ucciso per proteggere lei, Publio e il piccolo Flavio, ma ne era uscito colpito a morte. Aveva esalato l'ultimo respiro morendo dissanguato su di un freddo pavimento, sotto i suoi occhi.
Perché Dio aveva permesso che un uomo gentile e amato da tutti morisse in quel modo violento? Perché costringeva Claudio Decio a soffrire così profondamente?
"Perché?" chiese ancora.
Non ricevette alcuna risposta e strofinò le mani con tanta forza da far strabordare l'acqua sporca di sangue sul tavolo, finché altre mani, enormi e forti, non la fermarono.
Senza proferire parola, Handal raccolse una spugna marina abbandonata accanto alla brocca e, con estrema delicatezza, cominciò a lavare le mani della sua domina.
"Ti chiedo perdono, Handal".
Senza scostare lo sguardo dal suo lavoro, lo schiavo aggrottò la fronte.
"Sono stata brusca con te e ti ho urlato di ubbidirmi" aggiunse lei.
"Sei la mia domina ed io uno schiavo. Io ubbidisco".
Camilla scosse la testa: "Non è questo il modo...".
Handal le strinse una mano con la sua, poi salì al polso, al braccio fino alla guancia di lei, costringendola a guardarlo negli occhi: "Sono un guerriero. Ho combattuto contro molte tribù nemiche e contro i potenti romani. E il mio animo non si è piegato. I romani mi hanno fatto prigioniero. E il mio animo non si è piegato. Un mercante mi ha acquistato per rivendermi, a turno, alle ricche donne romane col fine di dar loro piacere. E il mio animo non si è piegato. Poi voleva vendermi ad un lanista* per combattere nell'arena, per il divertimento dei romani. E il mio animo non si è piegato".
Quei ricordi, che prima gli suscitavano una profonda ira, ora gli procuravano indifferenza: le guerre contro i nemici del suo popolo, la prigionia, la schiavitù e la deportazione nelle province, l'assoggettamento alle voglie perverse di lascivie matrone romane che usavano il suo corpo alto e muscoloso come un capriccio esotico di cui godere per poi gettarlo via. Ferito, sporco e denutrito per i continui spostamenti tra un mercato e l'altro, da una città dell'impero e l'altra, a secondo della cupidigia del lenone*, non gli sarebbe dispiaciuto, alla fine, morire in una arena tra applausi e grida di giubilo. Sarebbe stata una bella morte. Ma il destino, gli dei ancestrali delle foreste o il Dio dei cristiani, non seppe dire, aveva deciso che una fanciulla gentile lo comprasse, lo nutrisse e lo curasse, chiedendogli in cambio semplicemente lealtà e fiducia.
Camilla osservò gli occhi cerulei di Handal, che avevano assunto un'espressione amara. Era sorpresa di sentirgli raccontare ciò che lui aveva vissuto, nel discorso più lungo che gli avesse mai sentito fare da quando era con lei. Il suo latino dall'accento duro e dalle sillabe gutturali, sapeva delle profonde foreste germaniche. Non conosceva la sua storia. Quanto aveva sofferto ingiustamente anche lui?
"Il tuo animo è indomito, Handal" gli disse lei "L'ho avvertito sin dal primo istante in cui ti ho visto, ferito e assetato, al mercato. E' per questo motivo che non meriti che io ti tratti come la tua condizione impone, soprattutto dopo che mi hai dimostrato che posso affidare la mia vita nelle tue mani. Mi perdonerai?".
Merito e perdono.
Parole di cui conosceva il significato ma che a lui, prigioniero e schiavo, risultavano sconosciute. Parole che ora, con Camilla, acquistavano valore e un senso nuovo. Il volto di Handal si avvicinò a quello di lei e lo schiavo si sentì sopraffatto dall'intensità degli occhi di quella fanciulla, nonostante la sovrastasse completamente con la sua mole. Deglutì, sentendosi improvvisamente a disagio. Lui era un uomo con sentimenti e desideri che nemmeno la schiavitù era riuscita del tutto a sopire.
"Il mio animo ti appartiene, domina. E non perché sono uno schiavo" sussurrò.
Si scostò da lei, raccolse un telo di lino, asciugò meticolosamente le mani di Camilla, ormai pulite, e uscì.

Annia Peregrina si affacciò nello spazioso cubiculum, dalle pareti giallo ocra. Il suo sposo era lì, seduto sulla sponda del letto: la schiena curva, le braccia abbandonate sulle ginocchia, i folti capelli castani scarmigliati, gli occhi arrossati rivolti alla parete, dove due piccoli amorini alati giocavano gioiosi accanto ad una fontana zampillante.
La donna stette a osservarlo per qualche istante, poi fece per uscire quando venne fermata dalla voce roca di Claudio: "Flavio?".
"Sta bene, grazie agli dei" gli rispose "Ora dorme".
Claudio annuì poi tirò su col naso, senza guardarla.
"Claudio, mi dispiace" gli disse ad un tratto lei.
"Oh certo, ti dispiace...".
Annia si morse la lingua per non controbattere. Qualsiasi cosa avrebbe potuto dire, sarebbe risultata inutile oltre che inopportuna. Per lei, in quel momento, contava solo che suo figlio fosse nuovamente a casa, sano e salvo.
Fece di nuovo per andare via, ma vide suo marito alzarsi in piedi e raddrizzare la schiena, ergendosi in tutta la sua altezza. Claudio voltò appena il capo, l'espressione stravolta: "Tu lo odiavi".
La donna scosse la testa: "Non dire così".
"Tu lo odiavi" sibilò tra i denti. I grandi occhi verdi di Claudio erano velati di lacrime e lampeggiavano di rabbia e rancore.
Annia rabbrividì ma decise di rispondere: "La verità? Non lo sopportavo. Ma odiarlo, no... non fino a vederlo morto a quel modo".
Aveva parlato con tono rammaricato perché la morte di Corvo l'aveva colpita profondamente. La sua risposta era stata sincera. Inoltre Corvo aveva salvato suo figlio e questo non l'avrebbe mai dimenticato.
Il tribuno le si pose davanti e l'afferrò per le braccia, scuotendola: "Bugiarda! Tu lo odiavi! Sei contenta ora che è morto?".
La donna scoppiò in lacrime: "No! Non è vero! Claudio ti prego... Non voglio vederti così!".
"Io lo amavo!".
Annia gli prese il capo tra le mani e lo fissò negli occhi: "Lo so, marito mio, lo so che lo amavi...".
"Lo amavo!" ripeté lui, spingendola via "Ed è tutta colpa tua".
"Cosa stai dicendo?".
Claudio strinse i pugni e cominciò a tremare da capo a piedi: "Se tu non ti fossi presa per amante il senatore Maecia... se tu non gli avessi dato dei soldi... Non avrebbero rapito mio figlio! E Tito non sarebbe morto!".
Annia si strinse le braccia al petto, scuotendo la testa, sconvolta da quelle parole: "Non darmi colpe che non ho! E' successo e basta!".
Claudio Decio le rivolse uno sguardo colmo di odio: "Sparisci dalla mia vista. Ora!".
Il giovane vide sua moglie uscire di corsa dalla stanza e, col fiato corto, maledisse lei e sé stesso.



Glossario
Lanista: proprietario di una palestra (ludus) che comprava o ingaggiava i gladiatori.
Lenone: (leno) termine generico che indica colui che si dedica allo sfruttamento della prostituzione.

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