Capitolo XX - De redemptio atque mendacium

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N.d.A. Sempre dopo ventordici settimane – se non mesi, ho perso il conto - arriva l'aggiornamento. Siamo arrivati a venti capitoli. In 6 anni. Il mio ritmo di scrittura sta eguagliando quello di zio George Martin! Appena qui sotto potrete ammirare il bellissimo aesthetic creato da @La_Narrativa_Storica (che ringrazio di cuore!) come premio per il terzo posto al Contest La Giostra delle Storie! Dopo quasi 2 mesi finalmente posso postarlo! Cioè, potevo farlo anche prima eh ma volevo farlo in concomitanza con l'aggiornamento! Buona lettura guaglion*!


 Camilla si presentò nella piccola stanza che era stata adibita a residenza momentanea per suo fratello, nella domus degli Scaptii

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Camilla si presentò nella piccola stanza che era stata adibita a residenza momentanea per suo fratello, nella domus degli Scaptii. Sergio non aveva obiettato, ma aveva fatto intendere a sua moglie che non appena il senatore si fosse rimesso, avrebbe dovuto liberare quella casa dalla sua presenza. Dopo quanto era accaduto, il tribuno aveva deciso di tenere un contegno neutro con suo cognato, nulla di più, e Camilla non poté biasimarlo. Alla vista di sua sorella, Publio scattò a sedere sul suo giaciglio, dove alternava poche ore di sonno agitato a momenti di profonda apatia.
La fanciulla aveva tra le mani la sua scatola lignea degli unguenti, che depose su di un basso tavolino: "Come ti senti oggi?".
"Sto bene" rispose lui, in tono indolente.
Dopo i fatti avvenuti alcuni giorni prima, Camilla, ogni pomeriggio, si accertava che suo fratello mangiasse a sufficienza, e che gli fosse servita solo ed esclusivamente acqua; tutti i giorni, poco prima del tramonto, lei gli faceva visita per verificare il suo stato di salute e medicargli le ferite al volto e alla nuca.
"Devo cambiare la fasciatura alla testa".
Meccanicamente, il giovane si sollevò in piedi per risedersi su di uno sgabello. Più che per le ferite, in via di guarigione, Camilla era preoccupata per lo stato d'animo di Publio: suo fratello parlava pochissimo e usciva dal cubiculum solo per ovviare alle necessità quotidiane.
"Sei felice?" le chiese d'improvviso lui.
"Godiamo tutti di buona salute" cominciò a dire lei, tamponandogli la nuca con una garza di lino imbevuta di aceto "Nostra madre presto tornerà, trepidante per la prossima imminente vendemmia. Ho contratto un buon matrimonio. Kara e Handal mi sono fedeli e la loro presenza mi rincuora".
Gli si pose davanti, a sistemare la fasciatura pulita, piegò appena il capo per poter fissare il suo guardo in quello addolorato di suo fratello. Era ben consapevole di quanto i loro occhi fossero simili e il dolore che ne lesse, sperò che il tempo lo attenuasse.
"E ora so che tu sei sano e salvo. Quindi in questo particolare momento posso dire che, egoisticamente, posso considerarmi felice. Il tempo lenirà le ferite e il dolore di tutti. Pregherò affinché la grave perdita che abbiamo subito con la morte di Corvo sia di monito. Per te e per tutti noi".
Publio cominciò a tremare mentre calde lacrime gli inondavano il viso. Con le dita, Camilla asciugò le lacrime di suo fratello senza riuscire a trattenere le sue.
"Non è stata colpa tua".
La labbra di Publio si piegarono in una espressione amara: "Colpa... Responsabilità, Camilla. Si tratta di responsabilità, non di colpa. Mi sento responsabile di quanto accaduto. Ho messo in pericolo te e un bambino innocente. Un uomo è morto". Il ragazzo strinse appena gli occhi umidi di lacrime, fissando un punto indefinito davanti a sé, come a districare un'angustiante groviglio di pensieri. Si umettò le labbra e continuò: "Si può chiedere perdono, ma le responsabilità restano. Si può essere perdonati, ma si può assolvere se stessi, se la propria imprudenza e sconsideratezza hanno provocato la morte di una persona?".
Camilla restò in silenzio; era come se quegli eventi traumatici avessero fatto crescere e maturare Publio in brevissimo tempo. Da giovane irrequieto a uomo tormentato da errori ai quali non avrebbe mai potuto rimediare. La redenzione di Publio, sarebbe stata lunga e sofferta. La ragazza non seppe rispondere al quesito, che cadde nel vuoto del silenzio, appena interrotto dal richiamo estivo di un usignolo, tra le fronde del vecchio ulivo della domus.
Publio tirò sul col naso, poi sollevò un sopracciglio: "E lui? Ti rende felice?".
Camilla abbozzò un dolce sorriso: "Ha buon cuore, è intelligente. Inoltre mi ascolta: dote rara in un marito! Certe volte si preoccupa eccessivamente, ma alla fine decido io e non obietta se faccio di testa mia. Ho imparato a fidarmi di lui e del suo giudizio, e si può dire lo stesso di Sergio. Certo, ci stiamo ancora conoscendo... Ma le premesse sono più che buone. Posso ritenermi fortunata. Dice di tenere a me, ma non è necessario che lo dica. Lo so che è così, perché lo sento".
"Ti tratta bene quindi? Anche... di notte? Non è... irruento?".
Camilla ridacchiò; Publio era sempre stato eccessivamente premuroso con lei eppure aver toccato un argomento così intimo le suscitò ilarità: "Di giorno, mi tratta bene e si assicura che io abbia tutto ciò di cui ho bisogno. Di notte, mi tratta ugualmente bene, insegnandomi a compiacere i suoi bisogni. E a farmi scoprire che ne esistono di nuovi, per me".
Publio annuì, quasi sorpreso che quelle parole non gli avessero suscitato alcuna emozione in particolare. Ciò, gli provoco un certo sgomento: "Quindi lo ami...".
Camilla si sedette sul letto e lo guardò: "Sì. E sono certa che un giorno tu e lui potrete legare tra voi e stimarvi l'un l'altro. Come fratelli".
Per la prima volta dopo giorni, Camilla vide suo fratello sorridere, benché fosse appena un cenno ironico.
"Sei sempre stata così speranzosa, sorellina".
"La speranza è ciò che ci tiene vivi e forti nei momenti difficili. La speranza ci permette di credere che un giorno le cose potranno migliorare. Per tutti noi".
Il senatore incrociò le braccia al petto con lo sguardo serio e perso nel vuoto: "La dea Speranza è sempre stata sfuggente nei miei confronti e raramente ho provato a cercarla".
"Già, la Dea..." mormorò Camilla.
Kara si fece appena avanti sulla soglia e fissò la sua domina per attirarne l'attenzione. Camilla la notò, si alzò in piedi e baciò la fronte di suo fratello in segno di saluto.
"La speranza non ci cerca, né va cercata. Bisogna semplicemente accoglierla".
Ciò detto, raccolse la sua cassettina ed uscì. La nubiana allungò la destra verso di lei; la fanciulla le prese la mano e si fece scivolare tra le dita un piccolo pezzetto di pergamena arrotolato. Dopo qualche istante di esitazione, Camilla lo infilò nella scatola e si avviò lungo il corridoio.
"Kara".
La schiava sentì accapponarsi ogni fibra del suo corpo a quel richiamo. I ricordi del dominus Maecia ansimante sopra di lei, il caldo, il sudore, il buio e l'odore di umidità dei locali dei servizi della domus dei Veranii; quel misto di reticenza nell'essere oggetto senza volontà nelle mani di un padrone, ma anche di privilegio per essere stata l'unica tra le schiave a soddisfarne le voglie e i più bassi istinti, lui, giovane, potente, bello e crudele. Sensazioni orrende e allo stesso tempo vergognosamente fiere, che avevano scavato un solco oscuro nella sua anima. Quanto aveva pregato che fosse lasciata in pace, a servire solo la sua padrona per la quale nutriva un sincero affetto, persino ricambiato, solo Dio lo sapeva. E per un po' era stata esaudita. Ma lei, schiava figlia di schiavi, avrebbe dovuto aspettarsi che le cose sarebbero presto cambiate. Viveva i giorni e le notti, in attesa del momento in cui avrebbe potuto godere dei doni promessi dopo la morte, assieme ai suoi fratelli di fede. La sua vita terrena non le apparteneva.
Deglutì e si presentò sulla soglia della stanza.
"Non ho molta fame. Fammi portare solo della frutta stasera".
La nubiana con lo sguardo rivolto a terra, si schiarì la voce: "La domina Camilla vuole che vi rimettiate in forze, potrebbe non essere d'accordo".
"E tu non dirglielo".
Lei annuì; il senatore fece un passo verso di lei ma Kara si voltò per andarsene in fretta.
"Kara" la chiamò nuovamente lui "Non c'è bisogno che mi temi. Non più".
Finalmente, la schiava sollevò gli occhi a guardarlo. L'espressione altera del senatore, che tanto sapeva turbarla, aveva lasciato spazio ad un sorriso rammaricato negli occhi dal blu intenso.
Le cose probabilmente erano davvero cambiate. Se in meglio o in peggio, però, solo il tempo lo avrebbe rivelato.
Chinò il capo e si allontanò in fretta.

Sola, nella sua stanza, Camilla posò la sua cassetta officinale sullo scaffale dove era solita tenerlo, indecisa sul da farsi.
Un messaggio.
Appoggiò il palmo della mano sul coperchio della scatola e il legno dall'intarsio a foglie d'acanto si rivelò al suo tocco in tutta la sua finezza. Aveva promesso a Sergio che avrebbe continuato a praticare il suo culto in privato, così come prevedeva anche l'editto dell'imperatore. Il patto però non includeva il ricevere e leggere dei messaggi. Dopo alcuni istanti di incertezza, prese un grosso respiro, risoluta. Andò quindi alla porta e la chiuse. Recuperò il messaggio dalla cassettina e lo lesse due volte e anche una terza. Riavvolse la piccola pergamena e l'accostò alla fiamma della lucerna che illuminava l'ambiente nella penombra del crepuscolo imminente. Il messaggio prese subito fuoco e lo buttò nel vecchio mortaio di pietra, che usava per pestare le sue erbe e i semi officinali. Attese che la fiamma consumasse tutta la pergamena, riflettendo su quanto aveva appena letto. Prese del vino, ne versò un pò nel mortaio e prese a pestare la cenere.
"Qualcosa che brucia?".
La voce di Sergio la fece sobbalzare. Immersa nelle sue riflessioni, Camilla non si era accorta che suo marito era entrato.
"Non volevo spaventarti! Tutto bene?".
"Sì" rispose lei, cominciando a pestare nel mortaio con più forza di quanta fosse necessaria "Sto... sto sperimentando una nuova mistura a base di... cenere di... legno" e si morse la punta della lingua con gli incisivi, ben consapevole di essere una pessima bugiarda.
Con fare nervoso, prese una boccettina di olio d'oliva, ne aggiunse alcune gocce nel mortaio e miscelò ancora. Cenere, aceto e olio avevano creato una poltiglia indefinita.
"Una mistura per cosa?".
"Per... le bruciature" sollevò il mortaio con entrambe le mani e sorrise "Ma credo proprio di aver sbagliato la dose di vino prevista! Mi servirà un bel po' d'acqua per pulire questo pasticcio!" e uscì in tutta fretta.
Rimasto da solo, Sergio annusò l'aria del cubiculum. L'aroma del legno bruciato lo conosceva bene: anni di servizio nelle foreste germaniche avevano allenato il suo naso a percepire ogni tipo di odore, soprattutto quello relativo al fuoco e alle sue conseguenze. Alcune volte era persino riuscito a distinguere la fragranza di un pino bruciato da quella di un leccio. L'aria della camera non emanava odore di cenere di legno, ma di altro. Si avvicinò al tavolo, dove sua moglie era solita preparare unguenti e pomate; il pestello era stato lasciato sul tavolo, ancora sporco della mistura. Lo toccò con l'incide destro e ne saggiò la consistenza tra i polpastrelli, senza però riuscire a ricavarne qualche informazione utile.
Nonostante ciò, non ebbe bisogno di esaminare ulteriormente quell'intruglio tra le dita per capire che Camilla gli aveva mentito.

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