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Non era un miraggio, o una proiezione dei suoi pensieri. Non lo vedeva solo Zabdiel, lo vedevo anche io.

Christoher era qui, nel capanno, e mi stava guardando con quei suoi occhi scuri e profondi come pozzi. Occhi spenti, che non ricordavo, occhi svuotati di ogni emozione possibile e che non trasmettevano nulla.
Sembrava quasi che non gli appartenessero.

Mi pareva aver fatto più un viaggio dentro se stesso, che in Irlanda e che ne fosse rimasto terrorizzato.

Era un'altra persona, o almeno così mi sembrava. Una persona che non conoscevo e che forse non volevo conoscere.

E non lo trovavo uno sconosciuto per l'aspetto esteriore che aveva subito dei cambiamenti: per quei tatuaggi colorati che adesso gli imbrattavano le braccia, per quell'orribile piercing al sopracciglio, e nemmeno per il ciuffo castano schiarito di bianco.
Christopher era uno sconosciuto perché non rideva più, perché non sembrava felice.

Prima di quel momento, non ricordavo un solo giorno senza il suono della sua risata nelle orecchie e la voglia matta di godersi la vita.

«Zabdiel...» mormorò poi, andando verso di lui ed evadendo dal mio sguardo. «Come stai, amico?»

Zabdiel ricambiò immediatamente l'abbraccio, consegnando i dolci a Richard e rispondendo: «Dovresti dirmi tu come stai. Quando sei tornato?»

«Stamattina».

«E non ci ha detto niente, lo stronzo» scherzò Joel, cingendogli le spalle.

Non riuscivo a sorridere, ad essere contenta come gli altri ad averlo di nuovo intorno.
Perché io non lo volevo a Portland, non più. Io volevo essere sicura che fosse lontano miglia e miglia di distanza da me e dalle persone che amavo.

«Ma ora che sei qui non dobbiamo perderci in inutili chiacchiere».
Joel lo trascinò verso Diana, una ragazza dai lunghi capelli rossi e gli occhi celesti come il mare, seduta sul divano accanto Rosalinde.

Aveva sul viso un'espressione tanto imbarazzata da intenerirmi, da farla apparire come una bambina. E sebbene Rosalinde avesse provato qualsiasi tipo di chiacchiera per intrattenerla, riuscivo a percepire la sua incredibile voglia di avere Joel vicino. Lui e nessun altro.

«Voglio presentarti la mia ragazza e...» il riccio si voltò nella mia direzione. «Marisol?» mi chiamò. «Puoi venire un momento?»

Lasciai la mano di Erick, inghiottendo il groppo che mi si era formato in gola come una palla di pelo soffocante, e li raggiunsi, cercando di ignorare il fatto che Christopher mi stesse guardando.

Mi chiedevo che cosa stesse pensando, cosa avesse nella mente, perché non riuscivo a capirlo e a farmene un'idea. E quello sguardo aveva il potere di farmi mancare la terra sotto i piedi. Mi pungeva sulla pelle e mi perforava la carne come una miriade di spilli conficcati insieme in una volta sola.

Joel cinse anche le mie spalle con l'altro braccio e col sorriso stampato sulle labbra carnose cominciò con le presentazioni. «Loro sono Christopher e Marisol. Lui è appena tornato dall'Irlanda e lei è la pasticciera del gruppo. Te ne ho parlato, ricordi?» poi si bloccò, come se avesse dimenticato lui qualcosa. E più che qualcosa era qualcuno. Mancava Zabdiel per completare il quadretto. «Ehi, amico» attirò la sua attenzione a gran voce.

Zabdiel sollevò la mano in aria, rendendosi conto di non essersi presentato. «Ciao, Diana. Piacere sono Zabdiel!»

«Piacere mio» rispose lei, a disagio.

Rosalinde le poggiò una mano sul braccio e le sorrise, condiscendente. «Zabdiel è il gemello eterozigote di Marisol e il mio fidanzato. Marisol sta con Erick, il ragazzo che si è presentato prima e che sa suonare da Dio la chitarra. Richard è l'acrobata che sta già divorando mezzo aperitivo e lui è Christopher, il vecchio amico di tutti noi» ricapitolò Rosalinde passando in rassegna uno per uno.

Tengo que esperarte siete vidas más || Christopher VelezDove le storie prendono vita. Scoprilo ora