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Tutto il mondo è paese.
E se tutto il mondo è paese, allora Seoul, meravigliosa capitale della Corea del Sud, non sarebbe stata l'eccezione difronte l'eclatante fenomeno delle corse clandestine, discusso in gran parte del pianeta. Auto e moto da corsa che nel bel mezzo della notte sfrecciavano a tutta velocità per le vie più desolate e abbandonate della città, sfidandosi fianco a fianco in vista della vittoria, in vista del premio: soldi, tanti fottutissimi soldi.
Eppure non tutti correvano per il glorioso dio denaro: esistevano coloro che lo facevano per sentire nelle proprie vene il gusto sprezzante dell'adrenalina; chi per amore della sfida; chi per lo strano gusto di star inoltrandosi in un qualcosa di proibito e illegale; chi per svago o sfogo; chi per mera passione.

Ognuno con la propria prospettiva di vita, ognuno con i propri motivi, ma correre restava l'importante. Correre, correre sempre più veloce fin quando la stessa ragazza che dava il via non avesse sventolato la bandiera d'arrivo e il pubblico non avesse urlato, fischiato e applaudito dinanzi al vincitore di quei raduni del sabato sera.

Ogni sabato sera, nello stesso luogo e alla stessa ora, in una delle zone più malandate e silenziose di Seoul, una sfilza di persone si riuniva all'interno di un gigantesco magazzino per assistere alla gara dei tanti corridori che si presentavano alle iscrizioni di settimana in settimana. Scommesse, soldi, rottura delle regole, una moto veloce, un casco protettivo, voglia di vincere e il gioco era praticamente fatto. Lo spettacolo era assicurato a tutti quanti.

Però, non tutti i partecipanti riuscivano a superare quell'impresa apparentemente semplice. Essere in possesso della moto più veloce, saper accelerarla e schivare quelle degli avversari bastava per giungere alla vittoria? No, certo che no. Era necessario molto ma molto altro. Astuzia, conoscenza, voglia di rischiare, egoismo, pratica, fame e strategia erano gli strumenti fondamentali di cui un vero corridore doveva servirsi per poter arrivare al fatidico obbiettivo. Non potevi di certo assumere un atteggiamento altruista o che ispirasse bontà in un gioco simile! L'individualismo e l'ambizione regnavano, perciò, sovrani.

E chiunque arrivasse in quel luogo ne era a conoscenza, doveva esserne a conoscenza, soprattutto i veterani, quelli che di sfide ne avevano portate a termine a palate, tra sconfitte e vincite, tra il momento degli applausi, dove il vincitore veniva idolatrato come se di un Dio sceso in terra si trattasse, e il momento seguente in cui la polizia - anche se non sempre - irrompeva, seminando il panino tra la follae arrestando quei pochi che non erano stati in grado di darsela a gambe levate, o di accelerare con più forza la propria moto.

«Spero che quel figlio di puttana non si faccia vivo stasera. Ho bisogno di quei fottuti soldi!» osò esclamare, colui che sembrava quasi essersi abbonato al secondo posto: Kim Namjoon, o meglio conosciuto tra i vari corridori come "Hakai" che in giapponese veniva tradotto con la parola "distruzione". Ma da un certo periodo di tempo a quella parte, distruggere i suoi avversari e arrivare primo al traguardo gli stava risultando estremamente difficile, quando inizialmente era per lui un semplice gioco da ragazzi. Uno schiocco di dita e aveva già il premio tra le sue dita.

«Per la tua fottutissima sfortuna, sono qui, pronto a batterti per l'ennesima volta.»

Jeon Jeongguk, che tutti in quel determinato ambiente chiamavano "Nochu", era colui che con la sua velocissima moto nera a tratti verde - una Kawasaki Ninja che probabilmente gli era costata un occhio della testa o anche due - giungeva al podio ogni sabato sera.
A causa di ciò, il suo arrivo era stato per molti, tra cui lo stesso Hakai e la sua combriccola, un colpo veramente duro da mandare giù perché nessun altro aveva più avuto la possibilità di vincere quei dannati soldi.

Nochu un po' come la notte, un po' come l'umore nero che scaturiva tra i suoi colleghi di pista.

Nessuno tra questi riusciva a comprendere come quel ragazzo dai lineamenti marcati ed esageratamente affascinanti potesse gettarli al tappeto ogniqualvolta che una nuova corsa prendesse il sopravvento. Lo consideravano una sorta di stratega nato, una volpe da corsa, giocava d'astuzia, o forse era solamente troppo innamorato della sua amata moto quasi come se vivesse unicamente in funzione di essa, come se fosse l'unica cosa a mantenerlo ancora in vita, e quindi la vittoria rappresentava anche una vittoria personale.

𝑩𝒐𝒓𝒏 𝑻𝒐 𝑾𝒊𝒏 | 국민 Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora